La mattina erano pensieri estranianti, attimi in cui il respiro è un vuoto indaffarato tra caffè e cornetti.

La gente parlava, continuamente, appiattendo giorni, settimane, mesi. Le loro parole macinavano i secondi, trituravano i minuti, devastavano le ore. Simona conosceva alla perfezione le dinamiche dietro il bancone, le dinamiche di quelle realtà.

Ecco l’amante della moglie del parrucchiere fare colazione con il parrucchiere, ecco il quattordicenne che ha bigiato scuola e si è reso conto di non saper come occupare la mattinata, ecco i due carabinieri che il caffè non lo pagavano mai.

Si fermavano, consumavano e parlavano, ingrati storici di ogni bar di rione, persone piene solo dell’estetica delle proprie bugie. Un tempo Simona li avrebbe detestati, dal primo all’ultimo, come fastidiosi parassiti senza i quali, però, non sarebbe sopravvissuta. Ma ultimamente aveva il Nero e, per quanto il suo fosse solo un sollievo momentaneo, qualcosa che sarebbe sfumato o avrebbe finito per distruggerla, la proteggeva dal male che potevano fare quelle parole e quelle vite meglio di ogni corazza, meglio di qualsiasi odio o indifferenza.

Era strano, non era da lei udire i cori degli angeli, lo sfarfallio alla bocca dello stomaco, quella suadente sensazione di sentirsi amata, protetta, riscaldata dalla fiamma intensa di una passione, di un pensiero fisso, ma la cosa non le dispiaceva così come non le dispiaceva sorprendersi riflessa nello specchio del bancone a lavare i bicchieri e sorridere.

Prima, ogni volta che Simona pensava a un sentimento, a una sensazione, che fosse gioia o tristezza, amore o malinconia, si perdeva nel vuoto, quel vuoto buio e denso che erano ali di pipistrello in grotte umide, nell’eco distante di una storia che non voleva più saperne di andarsene via.

Ora tutto era cambiato, il mondo stesso aveva cambiato forma, aspetto, colore.

Lo vedeva, vibrante di fronte ai suoi occhi, quel sentimento che non aveva ancora avuto il coraggio di concretizzare con la parola, quel sentimento che non si era ancora fatta sfuggire dalle labbra.

Amore.

Lo Scrittore entrò nel bar con una certa indifferenza, sedendosi al suo solito posto, al bancone.

Per Simona o scrittore non aveva un nome o un’identità, era semplicemente lo Scrittore, la prima persona che aveva incontrato arrivando in città, colui senza il quale probabilmente non sarebbe sopravvissuta.

Di solito si faceva vivo poco prima dell’ora di pranzo, in quella calma surreale che anticipa il ciclone dei tramezzini degli universitari.

Non era mai regolare, a volte lo si vedeva tutti i giorni, poi scompariva per mesi, ma tornava sempre.

– Cappuccino e brioche – diceva, sbattendo un pugno di monete sul bancone.

– Brioche con che cosa? – domandava lei.

– Che cosa è rimasto? – rispondeva.

Era quasi un rituale, l’anticipazione del loro incontro che si ripeteva, sempre identica, in ogni movenza, in ogni mimica, in ogni parola. Simona l’aveva intuito e si prestava, complice, a quel giochetto che non la divertiva ma che sentiva come qualcosa di necessario, un discreto rituale.

– Prendo i frutti di bosco – rispose, quel giorno.

Frutti di bosco significava qualcosa, così come qualcosa significava cioccolato, crema, albicocca, nocciola, miele. A volte prendeva una brioche vuota, quello fu il segno che le fece capire la funzione rituale di quella domanda, quell’elenco e quella risposta. Dopotutto non parlava mai di se stesso, si sedeva ed ascoltava, in silenzio, consumando quella colazione tardiva e dedicando tutta la sua attenzione a lei, alla Regina.

– Ho conosciuto delle persone, qualche settimana fa – disse Simona, tornando a preparare i tramezzini.

– Che tipo di persone?

– Persone strane, interessanti, mi piacerebbe farteli conoscere.

– Hai trovato un ragazzo? – chiese, senza gelosia.

– No – sorrise. – Non proprio almeno. Solo un paio di persone in difficoltà.

Lo Scrittore rise: – Io sono un esperto in persone in difficoltà.

– Tu sei sempre in difficoltà.

– Appunto, è proprio per questo che sono un esperto – disse, trangugiando l’ultimo morso della brioche. – Vuoi che faccia qualcosa?

– Se potessi trovargli una sistemazione… magari qualcosa di stabile.

– Siamo nella stessa situazione, allora – disse, ripulendosi la bocca. – Sono rimasto senza casa anch’io.

Simona lo guardò, sbalordita: – Di nuovo?

– Non posso occuparmi di loro se non riesco prima ad occuparmi di me stesso, giusto? – sorrise, infilandosi il cappotto.

Simona lo guardò fermarsi sulla porta: – Dammi due o tre settimane – la rassicurò, prima di congedarsi, – mi occupo io di tutto.

– Va bene – rispose Simona.

“Va bene” pensò, mentre la porta si chiudeva alle sue spalle. La stessa risposta che le diede quella prima notte, dopo aver ascoltato la sua storia, guardando la città fredda, umida, fuori dalla finestra di casa sua.

“Non ti preoccupare” le aveva detto, stringendo la sua pelle umida, “mi occupo io, di tutto”.