Una villa isolata, in riva al mare, in una notte estiva di luna nuova. Il cielo è sereno, il mare tranquillo, sulla sua superficie solo le stelle di tanto in tanto disegnano vacui arabeschi d’argento.
Un uomo, seduto sulla terrazza, osserva pensieroso il buio profondo della notte. In sottofondo si sente la musica di una festa e le risate argentine di donne un po’ ebbre. La festa va avanti in altre stanze, gente molto elegante e chic, macchine di lusso parcheggiate sulla ghiaia davanti dell’ingresso. Ma a lui tutto ciò sembra estraneo. Da ore sta lì. Ha fissato a lungo l’orizzonte inequivocabilmente curvo del mare sconfinato, lo scintillio dei raggi solari che rimbalzavano sull’acqua salata, il bianco della schiuma che assediava i pochi scogli a ribadirne una sorta di possesso. Ha studiato quel mare così invincibile, così sterminato, così eterno. Ed ha avuto tempo ed agio di ripercorre i suoi giorni, le sue gioie, la sua vita, pure essa tanto grande e sconfinata a rivederla adesso, anch’essa invincibile ed eterna a modo suo.
Poi è scesa la sera ed il nero inchiostro della notte s’è via via mangiato i colori del cielo. Immerso in quel nulla ora ascolta la musica delle onde leggere, la loro sorda voce, il cupo risucchio che le accompagna. Ed è un canto, un’armonia come quella che ammaliava gli antichi navigatori. L’uomo sa che è lui che quella voce chiama e che non servirà legarsi all’albero maestro per sfuggirne l’ineluttabile fascino.
Infine una lontanissima luce s’accende: un punto appena, magari la lampara di un pescatore persa chissà dove nella vastità dove cielo e mare si confondono. Ma è come un segnale per l’uomo che senza esitare abbandona la terrazza, scende una scala o poi comincia a camminare sulla sabbia sin quasi a raggiungere la battigia. Si ferma e prende lentamente a spogliarsi, piega con cura ogni indumento che si toglie e li depone uno sull’altro a formare una pila ordinata e regolare. Rimasto nudo, da ultimo si toglie l’orologio d’oro e lo appoggia in cima ai vestiti.
È vecchio quell’orologio, un regalo di quando ha fatto, tanti anni avanti, secoli forse, la sua prima comunione. Un regalo di suo padre e da cui non si è mai separato. Pur essendo d’oro, non è di gran valore – la vita gli ha permesso ben altri lussi, come la villa alle spalle e le risate argentine delle donne che lì non arrivano più – ma per lui quell’oggetto ha qualcosa di speciale. È stato sempre il suo portafortuna a partire da quella volta in cui, alcuni giorni dopo averlo ricevuto in dono, col padre era andato a fare il bagno in una delle vasche termali fuori città. Se lo era tolto, l’aveva appoggiato per terra e lì lo aveva dimenticato. Quando infine aveva realizzato di non averlo più era ormai notte e stava disteso sul suo letto, ma non aveva esitato: s’era rivestito rapidamente e, con una lunghissima corsa nel buio della notte, era tornato alla vasca ed aveva cercato il suo orologio alla luce della luna. E lo aveva trovato, lì dove ricordava di averlo lasciato, in bella vista, che brillava d’una luce diversa e mistica. Strano che nessuno l’avesse notato, incredibile che non fosse stato raccolto da qualcuno. Nel ritorno a casa, sempre di corsa, aveva realizzato che si trattava di un segno inequivocabile del destino. Così aveva deciso che quello sarebbe stato il suo portafortuna nella vita e per questo, da allora, non se l’era tolto che raramente e sempre per il tempo strettamente indispensabile.
Di fortuna gliene aveva in effetti portata molta. Ma ora aveva esaurito il suo ruolo. I medici erano stati chiari: gli restavano poche settimane. E non aveva nessuna intenzione di finire i suoi giorni in un letto d’ospedale, commiserato e guardato con imbarazzo. No, non poteva pensare di star lì ad aspettare che il male si mangiasse via via ogni fibra del suo essere. Su quel terrazzo ci aveva pensato a lungo ed aveva chiesto un segno alla divinità che tanti anni prima aveva conservato per lui l’orologio in quella vasca termale. La luce apparsa nel vuoto era stata la risposta, precisa ed inequivocabile.
Così ora, dopo avere depositato il suo amuleto ormai inservibile sui panni, in piedi sta fissando il buio davanti a sé e quella piccola luce che la calda aria estiva fa tremolare in lontananza. I rumori della casa sono ormai lontani e lui sta pensando al mistero della morte. Non ha paura e la decisione è stata presa con la consueta freddezza che sempre gli ha permesso di orchestrare alla perfezione le cose della sua vita. Anche l’ultimo gesto sarà, in fondo, una sua scelta e non l’accettazione passiva d’un destino.
Entra in acqua lentamente, rabbrividendo all’inizio. Ma poi via via sente il calore di quell’abbraccio. Ha sempre adorato quella sensazione, abbandonarsi, lasciarsi avviluppare dal massaggio del liquido che ora, quando non tocca più, lo tiene su senza che debba troppo sforzarsi.
Infine comincia a nuotare, con bracciate misurate e costanti, godendo il piacere di sentire la miriade di bollicine causate dalle sue braccia, scivolare via via lungo la sua pelle. Ogni tanto si ferma e controlla di non aver deviato dalla direzione. Gli occhi gli bruciano un poco per il sale, ma c’è la luce, sempre lì, a fargli da faro e guida, che lo aspetta senza fretta.
Ormai c’è solo il rumore delle sue bracciate, ogni altro suono è svanito. E c’è una strana musica in quel ritmo, una sorta di nenia che l’accompagna come un rosario recitato da uno stuolo di suorine dalle voci infantili. Non sente stanchezza; ma sa che prima o poi arriverà, prima o poi finiranno le sue energie, prima o poi dovrà arrendersi. E la luce sarà sempre lì, irraggiungibile, ad attenderlo. Di lì comincerà a sentire freddo, ma non sarà colpa del mare: sarà il suo corpo che cesserà di generare calore. E allora saprà d’aver raggiunto la sua luce e potrà addormentarsi, finalmente.