Ricordo che ti alzi dal tuo sedile di poppa e mi fissi con uno sguardo folle.
«Le vedo! Le vedo!» mi urli, indicando alle mie spalle con il dito proteso.
Per un istante mi volto lasciando il timone, e quel gesto per poco non ci costa caro, perché le onde pesanti, spinte dalle forti correnti dello Vestfjorden, percuotono il fasciame come un maglio possente ed instacabile.
«Io non vedo niente». rispondo, dopo aver riportato la barca a tagliare le onde, senza perdere di vista Henningsvaer che è il nostro punto di riferimento.
«No, no! Tu devi vederle! Non sono pazzo!»
«Ma vedere cosa?»
Mi vieni vicino traballando sulla tolda che ondeggia paurosamente e quasi mi abbracci. Mi ribello.
«Giù le mani dal timone, cazzo!»
«Sono Bára, Blóðughadda, Bylgja, Dúfa, Hefring, Himinglæva, Hrönn, Kólga, e Unnr! Non vedi che stanno venendo a prenderci?»
Ecco cosa sta vedendo: le nove figlie di Rán, la sposa di Ægir, le mitiche figure dello Skàldskaparmàl di Snorri Sturluson, i demoni che trascinano i naviganti nel fondo del Mare del Nord.
«Beh, se non altro ci farà trovare della buona birra!» cerco di scherzare per tenerlo calmo, alludendo alla leggenda che attribuisce al dio del mare l’invenzione della bionda bevanda.
Ma non c’è niente da fare, Olaf è rannicchiato in un angolo e piagnucola sommessamente. E’ quasi una scena comica, vedere un gigante di più di due metri, con delle mani capaci di spezzare il collo ad un giovane orso, piangere come un bambino, ma in quella circostanza contribuisce a rendere irreale una situazione sempre più vicina a diventare tragica.
Il vento soffia furioso, e se il nostro motore riesce ancora a vincere la forza della corrente per avvicinarci al porto di Skrova, una qualsiasi deviazione dei flussi che portasse le onde a sommarsi creerebbe un cavallone capace di farci imbarcare in un istante.
Il mare è di un nero blusatro e rotola freddo e indifferente verso di noi. Ai miei piedi gli occhi degli skrei che abbiamo pescato sembrano guardarmi ed irridermi, come a dire che loro sì che avrebbero nuotato in quel mare, tra i fondali di sabbia e le laminarie, e che presto li avremmo raggiunti nella…
No! Seguendo questi pensieri anche io mi sarei ritrovato a vedere i fantasmi, ed allora saremmo stati veramente perduti. Invece intravedo lontano, ai margini della nebbia le bianche case di Skrova, e alle loro spalle le nostre montagne, il muro delle Lofoten.
«Guarda, Olaf!» urlo, per vincere il fragore del vento e del mare, «il tuo villaggio, Skrova!»
Lui non si alza, continua a tenere la testa tra le mani e sussurra. Cosa? Una preghiera, una maledizione? O semplicemente una canzone infantile?
Non riesco a comprendere le parole. Resisto a fatica alla tentazione di spingere il motore al massimo per abbreviare l’attesa e interrompere quell’agonia. So che con quel mare l’elica potrebbe uscire dall’acqua, entrare in cavitazione e danneggiare l’albero. Allora sì che saremmo persi, in balia della corrente ai margini della tempesta che ci insegue!
Metro dopo metro, dopo un tempo che mi sembra infinito, arriviamo ad oltrepassare l’entrata del porto. Ora metto il motore al minimo e accosto lentamente al pontile di legno, ma prima raccolgo una secchiata d’acqua di mare e la getto in faccia al mio compagno.
L’acqua gelata ha l’effetto che mi aspettavo: Olaf tossisce, beve, sputa, ma si riprende. Non era giusto portarlo a terra in quello stato, far conoscere a tutti la debolezza che ha avuto.
Lo aiuto a scendere, lo guardo allontanarsi barcollando verso un gruppo di case e infilarsi nel pub. Una bella bevuta lo rimetterà in sesto, l’uomo è fatto di ghiaccio ed acciaio, come questo mare.
La baia del porto è profonda e ben protetta. Assicuro la barca al pontile con due cime, a prua ed a poppa, e getto i respingenti di gomma fuori bordo. Prima di scendere mi volto a guardare verso il mare aperto, quel mare che ci ha appena risparmiati, ed allora le vedo.
Sono loro le nove sorelle, fantasmi diafani che camminano leggere tra le onde ed il vento, impalpabili nella neve che scende senza imbiancargli i capelli. Mi guardano, sembrano volermi dire qualcosa. Non capisco, aggrotto la fronte, e il vento sembra portarmi un sussurro lontano.
«La prossima volta, Hugo», cantano, «la prossima volta…».