Fare il seringueiro non era la mia passione, ma in quel mondo ci ero nato e non sputo nel piatto che mangio. Nessuno di quelli che i facenderos chiamano morti di fame, miserabili, lo fanno, e non perché siamo schizzinosi o superstiziosi, ma perché siamo orgogliosi del nostro lavoro e della nostra fatica.

La mia storia la conoscete tutti, sono partito dalle piantagioni nel cuore dell’Amazzonia, a Xapuri, e sono arrivato a parlare di fronte al Senato degli Stati Uniti, proprio il paese da cui venivano gli speculatori contro cui abbiamo sempre combattuto, e ho vinto.

Lo so, la guerra contro le multinazionali, contro i rancheros, non finisce e non finirà mai, almeno, non finché un solo albero sarà ancora in piedi in questo verde universo, ma allora anche la vita sulla Terra starà per finire e tutti scopriranno ancora una volta quello che accadeva così lontano dalle loro comode case  riguardava anche loro. Ma non voglio parlare di questo, delle lacrime di coccodrillo di quella gente che ha un portafogli al posto del cuore e zanne in luogo dei denti. Voglio parlare di altre lacrime, quelle candide del caucciù che è stato l’origine di tutto e la fonte di vita della mia gente.

Da sempre per provocare l’emissione del lattice praticavamo una incisione inclinata sulla corteccia, senza arrivare alla parte legnosa, lasciando una parte del tronco intatto per non disturbare la crescita dell’albero. Il lattice scorreva lungo la scanalatura fino a incontrare un piccolo gocciolatoio metallico piantato nel tronco che lo deviava in una ciotola. Il liquido raccolto, distribuito in bassi vassoi, lo facevamo coagulare con acido formico o acetico, poi lo spremevamo con una calandra per eliminare l’acqua in eccesso e infine lo appendevamo ad asciugare fino a che non diventava caucciù.

In tutto questo gli ambientalisti vedevano la poesia della natura, il rispetto per le piante; in realtà non era niente di tutto questo, era semplicemente il tramandarsi di una tradizione, un lavoro faticoso e doloroso, senza guanti, spesso senza scarpe, che riduceva le mani a pallidi fantasmi di pelle screpolata, ma era la nostra vita. Gli alberi erano il nostro pane, e chi ucciderebbe quello che ti dà da mangiare?
Di tutto questo una sola cosa è rimasta nei miei occhi ormai stanchi: il lento fluire delle gocce dalla corteccia, un miracolo che Dio ha donato agli uomini e che gli uomini come sempre non sanno riconoscere.

Che senso ha parlare delle lotte che abbiamo combattuto, di tutte le volte che sono stato imprigionato con le accuse più assurde, torturato e infine liberato quando la verità ha prevalso sulle menzogne? Sono diventato famoso, un simbolo, ma l’unica vera differenza tra me e le migliaia di miei compagni uccisi, i popoli sradicati e distrutti, è che sono un bersaglio scomodo, che non si poteva colpire e gettare in una palude senza che nessuno ne sapesse niente.

Un bersaglio scomodo, ma sempre un bersaglio: per questo dico che la mia storia non è ancora finita ma presto lo sarà. Con gli occhi della mente vedo i miei assassini venire in una notte senza luna, con i loro simboli di morte, ma non ho paura. A lungo ho vissuto e combattuto, senza mai cedere e senza mai fermarmi, per difendere il luogo dove sono nato, i miei compagni e i popoli della foresta. Non ho vissuto invano, come non ha vissuto invano chi è morto senza neanche una croce. Tutti insieme viaggeremo per sempre nella grande foresta, senza che le spine possano pungere i nostri piedi, senza temere il serpente né il machete, perché saremo vento e pioggia, fango e sangue, nebbia che sale dal fiume e luna immensa che splende nel cielo.

Il cielo grande dell’Amazzonia, il cielo dei seringueiros, degli indios, di tutte le persone di buona volontà.