Tutti hanno diritto a un portaombrelli

La prima volta che seppi di essere calabrese avevo 7 anni abitavo a Torino da due e stava nevicando.

Non avevo mai visto la neve prima di allora se non nelle cartoline. Quelle che ci mandavano le zie a Natale insieme al panettone da forno e ai “Cri Crì”, dei bon bon di cioccolata ricoperti di disgustose palline multicolori che puntualmente scartavo per mangiare il resto.

Al mio paese l’Inverno era tale solo di nome, diciamo che era più un Autunno inoltrato e la neve se la volevi te la dovevi inventare.
Da bambini salivamo a turno su un balcone armati di polistirolo e lo grattuggiavamo creando la neve artificiale. Quelli che stavano sotto facevano finta che fosse Natale anche se era Ferragosto.

A Torino invece la neve era vera. Che spettacolo! Per strada camminavo con il viso rivolto verso il cielo e la lingua fuori a catturare quei fiocchi che venivano da chissà dove.
Peccato che facesse così freddo.
La temperatura scendeva di parecchi gradi sotto lo zero ghiacciando quel manto bianco e rendendo impraticabili le strade. Fine della magia.
Il mio corpo, nonostante fosse bardato come se stessi per partecipare ad una cordata in Alaska, non riusciva a sopportare il rigore invernale .
Tremavo come una foglia e i denti mi battevano come un tamburello del Salento durante una pizzica.
Ogni mattina per andare a scuola era una penitenza. Piangevo come una fontana creando imbarazzo a chiunque avesse il compito di accompagnarmi nel tragitto. A farne le spese era quasi sempre mia sorella, poco più grande di me ma molto più matura.
Oltre a farmi da guida portava anche la mia cartella. Un orrore di cartella.
Un acquisto infelice fatto all’ultimo tuffo, prima dell’apertura delle scuole, da mia madre, che lottava sempre contro il tempo dividendosi tra il lavoro in fabbrica, la casa, la famiglia e la nostalgia del suo paese.

L’obbrobrio in questione, incubo che mi ha accompagnato dalla prima alla seconda elementare, era stato acquistato al mercatino rionale di via Giacomo Dina, ad una bancarella gestita da due signori anziani, che ,secondo me, non vedevano l’ora di disfarsene.
50 cm per 35 di bruttezza pura. Nessuno, a mio avviso, sarebbe stato tanto masochista da comprarla. Nessuno tranne mia madre. Infatti era lì, sul tavolo della cucina, tutta per me. Una valigetta come quella degli avvocati, di finta pelle, verde bottiglia. Si, avete capito bene, verde bottiglia! Questi son traumi che una si porta dietro tutta la vita.
L’interno era suddiviso in tanti reparti, “per metterci tutto quello che ti serve”, disse la mamma cercando di farmela piacere. Un libro di lettura, un quaderno, l’astuccio con i colori, il solito plum cake per merenda che mi faceva pure schifo, un anellino di plastica trovato nelle patatine e una gomma da masticare già masticata ma che mi dispiaceva buttare via. In mancanza di meglio poteva ancora fare il suo. Questo, il mio corredo scolastico.
Il mio fu un “no, non la voglio, non mi piace”, accompagnato da un pianto isterico che morì sul nascere a seguito di una sculacciata che mi arrivò senza tante cerimonie e che mise fine alle mie inutili proteste. Così mi rassegnai ad andare a scuola con questa “ventiquattr’ore” facendomi ridere dietro dall’intero istituto Duca degli Abruzzi.
Ed è qui che venne a prendermi mia madre una mattina di Dicembre, dopo che era stata chiamata dalla maestra perché mi era preso un’ attacco di mammite acuta, magistralmente camuffato da colica intestinale.
Arrivò trafelata, a piedi, perché la macchina negli anni 70 era un lusso per pochi. Sul cappotto di lana tracce di neve, sul viso contrariato la stanchezza.

Non avevo preso bene la scuola, il distacco dalla mamma era stato traumatico, così ogni due per tre
mi mettevo in mutua. Nonostante la mia performance di attrice consumata non gliela avevo data a bere.
Mi conosceva bene, sapeva che stavo mentendo ma i lacrimoni che scendevano giù senza ritegno avevano convinto l’insegnante e sarebbe stato insensibile da parte sua dubitare delle sofferenze atroci che sostenevo di provare.
Così appena fuori dalla scuola giocò il jolly.
«Vado al supermercato» mi disse, «ma visto che ti senti male ti porto dalla zia.»
Aveva con se il carrellino per la spesa, impensabile portarmi dietro con quel tempaccio, mi avrebbe parcheggiata dalla sorella.
Il mio piano stava fallendo miseramente, l’idea non mi sorrideva affatto.
Mi ribellai al progetto materno supplicandola di portarmi con se, anche perché, la rassicurai, il mal di pancia mi stava passando.
Fu irremovibile.
Seppur recalcitrante mi toccò seguirla a casa della zia.
Dopo la terza scampanellata si rese conto di due cose: Primo, che non c’era nessuno, secondo, che la tritura-maroni avrebbe fatto parte della spedizione alimentare.
Ringraziai mentalmente Gesù Bambino e l’angelo custode per questa fortuna insperata.
Intanto la neve scendeva giù come Dio la mandava e sul marciapiede dopo il nostro passaggio restava una scia piuttosto bizzarra.
Le impronte delle scarpe della mamma erano ricamate dalle rotelle del carrellino porta-spesa, seguivano le orme dei miei stivaletti da pioggia e infine, come nei film western quando i cowboy vogliono cancellare le tracce del cavallo, la famigerata cartella che trascinavo nella neve facendole pelo e contropelo.
Durante il percorso leggevo tutte le insegne dei negozi: panetteria, latteria, drogheria ( questa mi dava un po’ da pensare, secondo me era qui che gli sconosciuti compravano le caramelle da offrire ai bambini), birra Moretti… vietato…
«Mamma cosa vuol dire vietato?»
«Che non si può fare.»
«… L’ingresso… Cos’è l’ingresso mamma?»
«L’ingresso è come quello che abbiamo a casa, dove abbiamo il portaombrelli.»
«… Ai cani, ai neri e ai meridionali.»

I cani mi piacevano molto, la nostra vicina ne aveva uno, era un trovatello, mi faceva un sacco di feste quando tornavo da scuola. Sapevo chi erano i neri, il mio amico Stymie, quello con la bombetta del telefilm “Simpatiche canaglie”, era nero.

«Mamma, chi sono i meridionali?»

Silenzio.

Per la prima volta la mamma mi prestava davvero attenzione.
Diede un’occhiata al cartello che campeggiava sul portone di un palazzo signorile, lo stesso cartello che io stavo leggendo.
Si rese conto che era fondamentale trovare le parole giuste.
Non aveva letto Freud, non sapeva chi fosse Jean Piaget ma sapeva che una risposta sbagliata avrebbe potuto diventare un sasso per la mia mente bambina.

«I meridionali sono persone che vengono da molto lontano», rispose.
Anche noi venivamo da lontano, pensai, eravamo saliti sul treno che era sera ed eravamo arrivati a Torino che era spuntato il sole.
Me lo ricordavo perché papà ci aveva fatto fare colazione al bar della stazione con cappuccino e pastarelle alla panna.

«Noi siamo meridionali?»
«No. Noi siamo calabresi.»
“Ah,meno male”, pensai, perché la parola vietato non mi piaceva.
Continuai a camminare pensierosa, avvertivo l’ingiustizia.

«Mamma, penso che il piccolo Stymie, le persone che vengono da molto lontano… tutti, devono avere un portaombrelli nell’ingresso.

Chissà perché la mamma aveva gli occhi lucidi. E perché mi abbracciava?

Una carezza, un bacio e una promessa.
«Domani ti compro la cartella nuova… quella con Pippi Calzelunghe.»