Quando non bastano Capitan America, Thor e Iron Man, ci vogliono i rinforzi: Spider-Man e Pantera nera. O, nel caso di Martin Scorsese, Al Pacino e Stephen Graham.

Il paragone non è casuale: Scorsese ha recentemente scatenato un putiferio nella comunità cinematografica proclamando la sua totale avversità per operazioni come quelle del Marvel Cinematic Universe, più simili, a suo dire, ad attrazioni da parco dei divertimenti che a vero cinema.

Difficile dargli torto, ma anche difficile dargli ragione se poi la sua immediata controproposta è l’ennesima iterazione di storie, situazioni e personaggi già visti, con le stesse facce (persino ringiovanite in computer grafica per l’occasione, scelta davvero assurda e controproducente) e gli stessi dialoghi di sempre. Ben venga l’aggiunta di Pacino, che porta un minimo di variazione, se non rispetto a se stesso, almeno rispetto alla grammatica gangster di Scorsese. Purtroppo, tre ore e mezza sembrano molte di più e guardarlo su Netflix non aiuta: sarà un riflesso pavloviano, ma sembra di fare binge watching di una serie, più che guardare un film.

The Irishman è tratto dal romanzo “I heard you paint houses” che contiene le memorie di Frank Sheeran (interpretato da Robert de Niro), sicario della mafia italoamericana che diventa il delicato tramite tra questa e Jimmy Hoffa (Al Pacino), potentissimo presidente del sindacato americano dei trasportatori. Se pensate di aver già sentito questa storia, avete ragione. Persino Sergio Leone in C’era una volta in America si ispira a questa vicenda, e di film su Jimmy Hoffa ne esistono già parecchi (tra cui Hoffa con Jack Nicholson e F.I.S.T. con Sylvester Stallone).

Il film è tratto dalle memorie di Sheeran, deceduto da tempo, e alcune delle sue rivelazioni – ad esempio quella sulla scomparsa di Hoffa – sono state messe seriamente in dubbio da altre fonti.

Scorsese imbottisce The Irishman di riferimenti storici, ma l’inganno narrativo della trasposizione cinematografica di un libro di memorie (di un uomo dalla dubbia etica, peraltro), lascia ancora più perplessi sulla bontà dell’operazione. In maniera non dissimile da quanto fatto per l’egregio documentario su Bob Dylan (Rolling Thunder Revue), Scorsese scambia l’autenticità dei fatti con quella dell’esperienza cinematografica, solo che dimentica di averlo fatto già troppe volte per risultare ancora degno di nota, o generare quello scarto cinematografico proprio della sua produzione iniziale.

Scorsese, che pure negli ultimi quindici anni ha saputo variare con enorme maestria e ottimi risultati (da Hugo Cabret a The Wolf of Wall Street), torna con un best of dei suoi momenti migliori, con la squadra di attori che più a lui è legata, per un film e una tematica che hanno smesso da tempo di dirci qualcosa di importante, soppiantati da un’altra estetica legata ai gangster movie, da un’altra idea di violenza cinematografica, da altri antieroi ancora più estremi. Il punto di vista è quello dell’uomo alla fine della sua vita che ripercorre la propria strada e i propri rimpianti, più l’urgenza dell’autore di raccontare una vicenda, quella di Jimmy Hoffa, che è sparita stranamente dalla memoria collettiva. Non basta ad ottenere qualcosa di realmente diverso da Goodfellas o Casino.

 The Irishman è intrattenimento, è curiosità, è il piacere di aspettarsi esattamente quello che succederà, per averlo visto e rivisto troppe volte. Più o meno la stessa cosa che si può dire di ogni film Marvel dopo il primo Iron Man.

E così The Irishman è per Scorsese – ma non ditegli che l’ho scritto, altrimenti mi manda Frank Sheeran – quello che Avengers Endgame è per il MCU: un ipertrofico capitolo finale tanto eccitante quanto poco originale. 209 minuti di visto e rivisto e non aiuta di certo il fatto che Pacino (ringiovanito in computer graphic in ogni scena in cui appare… decisamente la scelta più originale del film) e De Niro ormai sembrino sempre meno interessati alla recitazione, sono anni che vanno col pilota automatico e ingombrano la scena con il loro enorme passato. Da segnalare invece la prova di Joe Pesci, che riesce davvero a trasmettere terrore senza alzare mai la voce – i fan dei suoi celebri fuori di testa saranno delusi, ma è una prestazione che potrebbe fare man bassa di premi. Il suo Russell Bufalino è il personaggio più carismatico e meglio delineato del film, e Pesci si mette al servizio della parte in maniera impeccabile. Solo che non basta.

Caro Marty, chi è senza peccato scagli il primo popcorn.