Le ore rotolano dalle mie dita come perle sfilate di una collana,
Cadono a terra tintinnando in un suono allegro di sfida, e mentre io mi affanno a rincorrerle, quelle, impertinenti, si vanno ad annidare negli angoli più angusti, impenetrabili alle mie mani.lacri i miei polpastrelli scavano nella polvere stagnante sotto gli arredi, cercando inutilmente di afferrare le minuscole sfere che agili sfuggono alla presa, lasciandomi a mani vuote. Il tempo non lo afferri, non lo trattieni e neppure lo possiedi.
Ti è solo concesso di vederlo scivolar via dalle dita, una perla dietro l’altra, a tracciare il tuo cammino a passo di danza verso il buio, e tu, qual’ora decidessi di deviare il tragitto su un percorso alternativo, faresti bene a non illuderti che tanto la meta è già decisa. Malinconia di stampo retrò, semmai alla mestizia fosse possibile dare una connotazione, la mia attuale sarebbe di questo genere.
Uno spleen all’assenzio da consumarsi, sulla scia dei ricordi, dietro i vetri di un bistrot parigino, memoria di un’estate ormai lontana, luccicante del riflesso grigio/azzurro di neonate nubi implumi, e poi, ancora, le stesse a rincorrermi dietro il finestrino di un treno, nel viaggio di ritorno a  Roma, alla mia casa, alle mie certezze, alla mia collezione di collane ancora intatte.
La luce tenue di un abat jour e sul comodino i libri di Sartre e Simone de Beauvoir, e l’inganno scintillante dei miei lunghi fili di perle appesi allo specchio.
Tutto odorava di Francia in quel periodo della mia vita, soprattutto la primavera, una stagione da  me a torto sottovalutata, (troppo azzurra e botticelliana, in quel periodo la mia preferenza già andava all’autunno, esistenzialista e filosofo, che quando si è  molto giovani si ha la pretesa a voler essere subito adulti e vissuti) ma che a distanza di tempo scopro, invece, esser quella che ha conservato inalterata tutta la sua gioiosa fragranza. Devo averla vissuta, la mia primavera, in modo subliminale ma profondo, e averne inconsciamente fatto incetta, se oggi piacevolmente la riassaporo, complice questo strano Gennaio, tiepido e volitivo come fosse Marzo, che le idee confuse (non parlerei d’inganni) le ha anche il tempo, o chi per noi lassù programma il calendario delle stagioni, che una svista simile ce lo rende più simpatico e alla nostra portata, e ridiamo di questa sua bizzarria, dimenticando che di astruserie simili ne abbiamo già vissute, salvo poi dimenticarcene, perché  è facile cancellare pezzi della propria vita  (io ho interi capitoli di cui non conservo memoria, e mi ci danno dietro a quei vuoti quando ne vengo edotta attraverso il racconto degli altri). Dov’ero io?
Se c’è chi ricorda la mia presenza l’unica assente era la mia mente consapevolmente intenta a non prestar attenzione, a non voler vedere, a non voler sentire per non dover poi ricordare, perché viene più facile stare dietro ai propri sogni che a quella realtà dalla quale si vuole prendere le distanze. E allora ecco si sale con la memoria retroattiva sul primo treno verso la Francia, seminando metaforici chilometri di distanza tra noi e quella realtà che non vogliamo, sbirciando dal finestrino come dalla vetrata di un bistrot, il lucore del riflesso grigio/azzurro di nubi neonate, destinate a  non sfociare in pioggerella o in burrasca, ma a rimanere in eterno appese, come miti lampioncini, ad un cielo di cartapesta, capolavoro d’ingegneria neo realista, che tanto pare esser vero, ma che a prevenir smentite, l’acume dell’inventore lo ha posto così in alto da impedire a chiunque volesse sincerarsi della sua autenticità di poterlo anche solo sfiorare, nella consapevolezza di venir poi sbugiardato
E’ una tristezza che sa di nostalgia, da consumarsi dietro i vetri di una finestra bagnata di pioggia.