«E tu, ti sei mai innamorato?».
Sollevo un attimo la testa per scrutarla in volto. I suoi occhi sono come il mare, no, come il cielo mattutino, quando il colore oscilla tra il grigio e un barlume di azzurro. Azulejos, alicatados, ecco cosa sono, su una pelle diafana e capelli tanto chiari da sembrare bianchi. Non leggo presa in giro nel suo sguardo, così rispondo:
«Sempre».
Adesso è la sua volta di inarcare le sopracciglia, il lampo di un sorriso.
«Mai. Va meglio?».
«Si, così è meglio, ma non si può dire che tu sia molto coerente».
«E chi ha mai preteso di esserlo? Come diceva Russel…».
«Solo le mucche non cambiano idea» interviene Fango dall’altro lato del tavolo «lo sappiamo».
«Ha parlato il filosofo della famiglia!» sbotto, ma in realtà sono divertito.

Lui sogghigna in maniera atroce, un misto di baffi incolti e denti giallastri su una pelle che sembra cuoio essiccato.
«Lo sai che sei inquietante, Fango?» gli chiedo.
«Meglio inquietante che inquieto» fa lui, sollevandosi di almeno un metro, felice della sua battuta.
Ci rinuncio.
«Cosa intendevi dire?» mi incalza invece Ofelia «credevo che ti definissi con il termine “anafettivo”».
«È una malattia?».
Ignoro Fango, a volte è davvero insopportabile.
«Una volta forse sì» rispondo, dopo averci pensato alcuni secondi «in fondo l’amore non è altro che una sensazione: se non l’hai mai provato non puoi sapere cosa sia realmente».
«Un po’ come buttarsi con il bungee-jumping».
Guardo Fango di traverso:
«Non dubito che tu l’abbia fatto decine di volte…».
Lui alza le spalle e non risponde.
«Vedi» dico, rivolgendomi di nuovo ad Ofelia «il fatto è che mi capita di innamorarmi di una persona, ma in realtà mi innamoro dell’idea che ho di lei».
«Quindi in qualche modo di te stesso».
«Esatto, faccio tutto io: proietto su di lei la sensazione che mi dà, che non necessariamente corrisponde a come è realmente».
Mi fermo, ci ripenso.
«No, quasi mai lo è: cosa sappiamo noi di come sono veramente gli altri? Come possiamo dire di conoscerli?».
«Mi sa che con queste idee scopi poco!».
Stavolta è Ofelia a guardare Fango con una espressione triste, più che arrabbiata.
«E vabbè» fa lui «era solo una battuta!».

«Però questo è triste…» mi dice Ofelia.
«Triste?» ribatto «Non è forse più triste morire per amore? Illudersi di non poter fare a meno di una persona al punto da uccidersi o lasciarsi morire, oppure uccidere lei, il che è lo stesso».
Lei scuote la testa:
«No» mi dice «lentamente muore…».
«Soltanto l’ardente pazienza porterà/ al raggiungimento/ di una splendida felicità» completo la citazione di Neruda.
«La conoscevi?».
Alzo le spalle:
«La conoscono tutti, magari non gli ultimi versi».
«Non c’è modo di convincerti, allora».
Allargo le braccia.
«Non posso convincermi da solo».
«Sai quanto vorrei poterti convincere io!» dice lei, annuendo tristemente.

I suoi splendidi occhi si fanno ancora più grigi, diventanto del colore del mare perennemente agitato di quest’isola maledetta. Anche Fango se ne accorge e mi rimprovera.
«Vedi? L’hai fatta diventare triste!».
«Mi dispiace» dico «non ne era mia intenzione».
«Fa niente» ribatte lui «ha tutta l’eternità per ritrovare il sorriso».

L’eternità! Cosa è l’eternità? Come l’amore è una cosa incomprensibile a chi non ne ha esperienza. Lo saprò anche io, tra poco – cosa sono dieci o trenta anni in confronto all’eternità? – o forse, se tutto questo è soltanto un sogno, mi ritroverò in un immobile oceano di tenebra. Rabbrividisco immaginando un mostro dalle terribili fauci che mi attende, pronto ad ingoiare in un istante tutto quello che sono io, la mia memoria, la coscienza di esistere.
I miei due amici intuiscono quello che sto pensando – per forza lo intuiscono! – ma non parlano, il che significa che non vogliono o non ne possono parlare.

Lentamente, come fumo che si disperde nella nebbia, si fanno eterei e si dissolvono nella penombra, prima Ofelia, che non è mai troppo materiale neanche nei momenti migliori e poi Fango, che sembra voler irridere anche la morte dopo averlo fatto con ogni cosa nella sua vita.

Lontano, su San Francisco Bay suonano le campane delle chiese e il vento amico me ne porta i rintocchi. Ancora, metto sul piatto del grammofono un disco che pesco a caso nel mucchio che ho di fianco, mi apro una birra e mi accomodo sulla mia amaca, guardando il tramonto su Alcatraz e pensando agli spettri che vengono ogni sera a farmi compagnia.