Che cosa sei, che cosa sei, che cosa sei… mi sono svegliata odorando la mia saliva sul cuscino a fiori rosa e fatico ad aprire gli occhi perché la luce della tapparella giá filtra nella stanza. Tu sei a pochi millimetri, incurante dell’umido che trasuda sulle tue guance e so che quando ti sveglierai la cosa non ti provocherà nessuna evidente reazione di disgusto, lo so perché la prima volta che è successo, la prima volta che mi sono svegliata di  te, ho provato un terribile imbarazzo, ma tu niente. All’epoca non eravamo ancora un’abitudine l’una per l’altro, per te ero solo un nuovo flirt secernente esagerate dosi di saliva, ma non fatico a pensare che sia stata proprio quella l’occasione di abbattere uno dei muri di troppo. Il rispetto che hai avuto per la mia nudità. Non quella un po’ alcolizzata della sera prima, ma quella del risveglio sulla saliva. Già allora mi si è arricciato lo stomaco: è così quando sono felice. Mi fa questo effetto l’intimità, immergermi nel vero senso di quello che può sembrare un concetto astratto, ma non lo è. L’intimità è non provare alcuno schifo a svegliarsi l’uno negli umori dell’altro. Ancora dormi, russi appena, a bocca aperta.

Sei adorabile quando sei così,  tiepido e odoroso di notte, e un po’ arruffato; nella penombra osservo i segni sul tuo volto, le pieghe della posizione precedente, quando la tua guancia sinistra aderiva troppo alla mia schiena e il tuo femore schiacciava il mio e la mia caviglia agganciava il tuo polpaccio e i miei capelli avvolgevano la tua mano. Quella pieghetta lì, sulla gota, la cerco tra la barba un po’ incolta, perché è il lascito delle tue strambe invasioni dalla mia parte del materasso. Sei così vero adesso. Mi consegni inerme la vista della tua cavità orale, e non posso fare a meno di pensare che questa sia la parte vera di te, quella che sei tu, sono certa che è proprio per lei se… è quella per cui ci amiamo.

Passo un dito sul tuo profilo e tu arricci il naso e emetti uno strano soffio. Voglio un figlio col tuo profilo. Perfetto o no che sia, lo pretendo con quel buffo accavallamento dentale, sì, proprio quello che mostri mentre ciancichi aria nei sogni, e magari anche con la stessa fissazione per lo spazio e per le magliette inguardabili che finiscono per diventare i miei pigiami, e per la musica elettronica, e per i viaggi a curvatura e per Star Trek. Mi viene da ridere perché potrò dare fastidio anche a lui, o a lei, cercando di far valere il mio sacrosanto diritto di guardare insieme qualche vecchia commedia romantica in techicolor. Una di quelle che i titoli di inizio oggi sembrano i titoli di coda. Almeno una ogni tanto, insieme a una tonnellata di pop corn. Sì, i pop corn: quelli tremendi, quelli caldi e ricoperti di caramello voglio spararmeli con “A piedi nudi nel parco”. Mi odierete per questo. Già rido perché mi odierete, nel senso buono.

Ti stai svegliando. Eccoti che vieni a me. Mi guardi, apri gli occhi con difficoltà, liberi la mano dai capelli, sollevi la guancia e osservi la macchia di saliva, la mia.

“Buongiorno lumachina” mi dici, “stavo sognando che facevamo un bambino.”