Quando dissi ai miei genitori che avevo intenzione di frequentare il liceo artistico reagirono molto male, “Ma sei pazza? E’ una scuola dove si studia poco e si fanno cattive amicizie. Pensa, invece, a fare il liceo classico perché scrivi bene o le magistrali che è un diploma finito”.

Io mi intestardii perché volevo fare il liceo artistico a tutti i costi. Così dopo i miei scioperi della fame e della sete ebbi la meglio sui miei genitori e riuscii a iscrivermi lì. Dopo le vacanze che trascorsi a Tarquinia con mio padre e mia madre, che non erano più arrabbiati con me, arrivò il mio primo giorno di scuola. Il 20 settembre del 1972 alle sette e mezza della mattina presi l’autobus che da casa mia mi condusse in via Crescenzio, una traversa di piazza Cavour dove c’era la mia scuola. Era un edificio di epoca mussoliniana molto imponente che mi intimidì un poco. Quando entrai nell’atrio notai che c’erano le statue del Discobolo di Mirone e di Minerva che mi impaurirono. Riuscii però a salire i gradini di una grande scalinata di marmo e raggiunsi il primo piano dove c’era la mia classe. Notai che era ampia, piena di cavalletti, sgabelli e sculture in gesso. Quella mattina, in quell’aula, si svolsero le lezioni di figura, ornato, modellato e storia dell’arte. Ebbi un buon approccio e nei giorni seguenti ritrassi volti di personaggi storici illustri riprodotti in gesso, disegnai paesaggi, modellai nudi e imparai molte cose sull’arte classica. Dopo qualche mese mi resi conto che questi  insegnamenti mi erano piaciuti molto e pensai di aver fatto la scelta giusta. Rimasi colpita soprattutto dai professori che erano preparati ma non avevano nulla di autoritario.

Questi docenti con noi si dimostravano alla pari, come degli amici, tanto da condividere i nostri ideali, il nostro pensiero di sinistra, la nostra voglia di aggregarci, le nostre lotte contro i fascisti di altre scuole a noi vicine, che spesso venivano a minacciarci con spranghe e catene.
Tra tutti i professori, quello più vicino a noi, era Lucio, il professore di modellato. Non era una bellezza perché era bassino, con un po’ di pancia e quasi calvo ma con noi era molto buono. Anche le professoresse ci erano molto vicine. Venivano sempre alle manifestazioni femministe e ai gruppi di autocoscienza tipici degli anni settanta.

In questa scuola mi feci tante amiche. La mattina Francesca, Valeria, Paola, Marcella mi aspettavano sedute al muretto della Mole Adriana dove parlavamo di noi, ci scambiavamo opinioni politiche e qualcuna di loro fumava la prima sigaretta prima di entrare in classe. Tra tutte Marcella era la mia preferita, anche se era il mio opposto. Marcella era una ragazza alta, magra, ma con le curve nei punti giusti. Aveva lunghi capelli neri e ricci e grandi occhi nocciola chiaro. Era una tipica ragazza degli anni settanta, molto fricchettona. Indossava jeans sdruciti e maglioni lunghi e larghi e ai piedi calzava le clarks scamosciate tipiche di quegli anni. D’estate, invece, prediligeva vestiti di tela indiana viola o lilla che abbinava con le scarpe di corda. Di carattere era molto chiusa e malinconica ma i professori le volevano bene… Io invece non ero molto alta e avevo già un po’ di pancetta. I miei capelli ricci erano di un anonimo castano chiaro come i miei occhi. Però mi distinguevo da tutte le altre ragazze del liceo perché vestivo come una collegiale. Indossavo gonne plissettate, a pieghe o i Kilt che abbinavo con le calze trasparenti. Ai piedi calzavo le decoltè con i tacchetti. E avevo un carattere allegro e solare. Forse anche per questo Marcella si era legata molto a me. La mattina mi aspettava al muretto anche quando tardavo. In classe mi aiutava quando ero in difficoltà con alcuni disegni, soprattutto di architettura, e fuori dalla scuola studiavamo insieme anche se abitavamo lontano l’una dall’altra. Io stavo a Montesacro, lei ai Colli Portuensi, ma con gli autobus mi faceva piacere raggiungere la sua casa. Lei veniva poco a casa mia perché a mia madre non piaceva. Trovava terrificante il suo abbigliamento e diceva sempre “Mi sembra una drogata”.

E in effetti Marcella si faceva molte canne e spinelli, ma io non le davo peso perché erano di moda in quegli anni. Una piaga sociale dalla quale io, per mia fortuna, ero completamente fuori. A me non interessava lo sballo. Non bevevo e non fumavo. Ero proprio una brava ragazza, come  dicevano. Forse per questo ero molto gradita ai suoi genitori. Il padre era un uomo sulla cinquantina che si manteneva molto bene ed era di carattere molto socievole. Lavorava come impiegato all’Aeroporto di Fiumicino. Invece la madre era una casalinga che ci preparava degli ottimi pranzetti. E quando io e Marcella studiavamo insieme ci offriva sempre il tè con i biscotti fatti con le sue mani. Marcella aveva due bei genitori ed essendo figlia unica era anche molto coccolata. Così non capivo perché si dava alla droga; forse era a causa delle tante delusioni d’amore. Difatti quando io e Marcella stavamo insieme lei non faceva altro che parlare dei suoi amori non corrisposti. Attualmente amava Enrico, un ragazzo scapestrato dell’ultimo anno che però la ignorava. E lei ci stava molto male. Non servivano a niente le mie parole di conforto. Ma quando stavamo insieme io e Marcella studiavamo anche molto. Facevamo intere nottate a fare progetti di architettura aiutandoci a stare in piedi bevendo molto caffè e Marcella fumava anche un bel po’ di sigarette. Così trascorse il tempo e ci ritrovammo al terzo anno del liceo artistico.

Durante il secondo semestre una mattina mi resi conto che Marcella era assente ormai da dieci giorni da scuola. Inizialmente non avevo dato peso alla cosa perché pensavo che mancasse a causa di un’influenza ma poi iniziai a telefonarle, e lei non rispondeva. Così domandai al nostro professore di modellato, “Sa niente di Marcella?”

“No, proprio niente. Ma tu prova a cercarla”.

Così un pomeriggio raggiunsi i Colli Portuensi ed entrai nei bar un po’ malfamati che lei amava frequentare nel tempo libero. In uno di questi la vidi abbracciata a un noto spacciatore della zona. Mi prese un colpo, mi avvicinai e notai le braccia scoperte piene di lividi.

“Marcella, ma sei pazza? Hai iniziato anche a bucarti?”

“Fatti gli affari tuoi, mi faccio le pere, ma si tratta della vita mia”, disse.

Mi cadde il mondo addosso, ma non potei fare altro che girare i tacchi e andarmene. Così persi la mia più cara amica.

Arrivò l’ultimo anno di liceo artistico e dopo aver preso il diploma con ottimi voti mi iscrissi alla Facoltà di Lettere con indirizzo artistico, che mi entusiasmava. Dopo qualche tempo, una mattina, mentre percorrevo i viali alberati dell’Università La Sapienza incontrai Valeria.

“Cosa ci fai, qui?”, le chiesi.

“Frequento la Facoltà di Giurisprudenza. Ho cambiato completamente indirizzo di studi. E tu?”

Le spiegai che frequentavo Storia dell’arte, poi azzardai una domanda: “E Marcella, l’hai più vista? Come sta?”

Lei sorrise, “Marcella è uscita dal tunnel della droga. Non fuma neanche più. E’ stata per qualche tempo a Londra a lavorare come cameriera per uscire dal giro. Adesso è già da qualche tempo che è a Roma. Lavora nella bottega di ceramica del padre di Francesca e tra poco sposerà suo fratello”

Mi girarono le lacrime negli occhi.

“Perché piangi?”

“Piango di gioia”

“Perché non vai a trovarla?”

“Non so, dopo tutto questo tempo, come la prende”

“Ma vai!”

Così affrettai i miei passi per raggiungere la macchina che mi avrebbe condotta da Marcella. Anche se dopo tanto tempo non sapevo cosa aspettarmi da questo incontro, non stavo nella pelle dalla gioia al pensiero di vedere nuovamente la mia più cara amica, finalmente libera.