Le “non verità” della giustizia
Ma era nel presente che si reclamava a gran voce un colpevole: lo esigevano i media e la cultura e il popolo. Ed infine Erato, la musa della poesia.
Ma, soprattutto, lo esigeva la giustizia.
Non ci si poteva tappare le orecchie e fingere di non sentire quella richiesta che dal sottofondo presto sarebbe montata in fragore.
Con questa metafora, il PM aveva esortato il commissario Sangemini a procedere più celermente, a rivalutare indizi ed alibi, che pure prove concrete per incriminare Oliviero Piscopo, ce ne erano, e ben solide. Circostanziali.
– Manca il movente – aveva ribadito Sangemini.
– Il movente può essere anche nella provocazione: una parola, o un gesto fuori posto. Sa benissimo, commissario, che si uccide anche per futili motivi.
Il tono del PM era annoiato, si capiva che non vedeva l’ora di chiudere il caso.
– Ma non si può asserire un capo d’accusa basandosi su un presupposto! Non c’è nessuno a testimoniare di un ipotetico battibecco tra i due, sfociato poi in tragedia. Piuttosto credo che le cose siano andate esattamente come Oliviero Piscopo le ha raccontate – aveva esclamato esasperato Sangemini.
– Ad ogni modo è l’unico indiziato, inchiodato da quelle che potremmo considerare prove circostanziali, quali le impronte digitali, il dna e la sciarpa sporca di sangue. Non ha testimoni che possano giurare sulla sua permanenza effettiva alla festa, e la signora con la quale ha insinuato di aver avuto rapporti intimi lo ha querelato. Eppoi la telefonata dell’anonimo, col prezioso dettaglio della sciarpa bianca sporca di sangue, quella appartenente ad Oliviero Piscopo, che come lui stesso ha confessato avrebbe voluto distruggere prima di fuggire. Di prove ce ne sono a sufficienza per una sua incriminazione. Ed è in questo senso che intendo procedere. Oggi stesso ne metterò al corrente il GIP – aveva concluso asciutto il PM.
Tante piccole, fragili, verità formali, invece dell’unica, sostanziale, definitiva e cristallina.
Non era questa l’idea di giustizia perseguita dal commissario Sangemini.
Il pitone e il topolino
Ma pur bisognava saziare la voracità dell’opinione pubblica, e per farlo si sarebbe ricorso, anche stavolta, alla collaudata, iniqua strategia, di dare in pasto al pitone affamato un topolino vivo.
Non uno qualsiasi, però, ma quello più alla portata, pescato a caso fra i tanti ammassati nella scatola di cartone. Un destino, questo suo, ancor più esecrabile, perché unicamente determinato dalla casualità, che se il topolino si fosse trovato posizionato in maniera diversa in quel perimetro, anche di soli pochi centimetri, sarebbe scampato a quell’orribile sorte.
Ad Oliviero Piscopo sarebbe toccata, dunque, la sorte del topolino, della vittima sacrificale che la giustizia, in stato di necessità, avrebbe immolato, con fredda consapevolezza, sul proprio altare.
Una beffa madornale ora che la ruota della fortuna aveva finalmente iniziato a girare dalla sua parte in quel vorticoso crescendo che lo vedeva protagonista sulle pagine dei giornali e dei talk show più popolari, dove andava consolidando quella sua immagine di artista sbandato e maledetto, che pure tanto affascinava il pubblico, soprattutto quello femminile. Destandone la tenerezza e le simpatie.
Una innocente corrispondenza segreta
Perfino la timidissima Helga Malavento ne era rimasta contagiata, non ravvisando in quell’uomo dall’aspetto stropicciato, le stimmate dell’assassino, ma piuttosto la fragilità dell’autolesionista, sintomatologia di cui lei stessa soffriva.
Così, aveva preso coraggio, e gli aveva scritto una lettera, come si usava un tempo, perché l’indirizzo mail non lo aveva, mentre quello abitativo, invece, era di dominio pubblico.
Oliviero Piscopo era rimasto sorpreso da quella lettera, dal nome del mittente e dal suo tono amichevole, perfino tenero, seppure in alcuni passaggi criptico. Adolescenziale.
Le aveva risposto, nonostante il parere contrario dell’avvocatessa, che ben temeva che questa corrispondenza, se scoperta, potesse essere usata contro di lui. Anzi, perfino sospettando che potesse far parte di un piano ordito da Mariana Malavento per incastrarlo.
– Ci scriveremo tramite mail, che poi cancelleremo – aveva precisato Oliviero Piscopo.
– In rete è tutto rintracciabile. Segua il mio consiglio e tronchi questo carteggio. A lei non serve e neppure alla giovanissima vedova. Non complichi una situazione già molto complicata.
– Ma Helga è dalla mia parte. Crede alla mia innocenza! – aveva obiettato lui
– Anche io. Per questo non deve più scriverle – era stata la risposta categorica dell’avvocatessa.
Consiglio di buon senso a cui però lui non aveva dato ascolto, seppure, al contrario di quello che pronosticava l’avvocatessa, non sarebbe stato quello il passo falso che avrebbe determinato la sua caduta, che quella innocente corrispondenza segreta tale non era rimasta troppo a lungo, che Mariana Malavento, venendone incidentalmente a conoscenza e paventando un nuovo, disastroso coinvolgimento emotivo della figlia (nonché una cattiva pubblicità con ripercussioni negative sulle vendite dell’antologia di poesie di Jacopo Imperiale, pubblicate post mortem, e dei cui diritti d’autore Helga, al compimento della maggiore età, ne sarebbe presto stata la depositaria), e così aveva provveduto a sequestrarle computer e cellulare, e tramite un ceffo prezzolato aveva diffidato Oliviero Piscopo ad intrattenere con lei qualsiasi tipo di relazione.
Eh sì, Mariana Malavento, da appassionata diffamatrice del genero s’era trasformata nella più fervente custode della sacralità della sua memoria, dal momento in cui si era impegnata con la casa editrice “La Zattera Del Poeta” a rimanere in silenzio e non rilasciare interviste di nessun genere, pena la rescissione del favoloso contratto stipulato con l’impegno di scrivere insieme ad Helga (per la verità ancora all’oscuro di questa stipula) una biografia, doppia e contrastante, di Jacopo Imperiale, base per un futuro progetto cinematografico.
Argomenti, questi, concretamente convincenti al fair play di Mariana Malavento, e il motivo per cui non era scattata nessuna denuncia nei confronti di Oliviero Piscopo, il quale, a dire il vero, di questo divieto di corrispondenza, alla fine, non ne aveva fatto un dramma, soprattutto dopo quel minaccioso diktat in cui gli si intimava di stare lontano da Helga, che lo aveva molto spaventato e che trovava piena corrispondenza con il consiglio della sua avvocatessa.
La giovanissima vedova, in definitiva, non era neanche al suo ideale di donna perché troppo cervellotica. Non ben definita. Da capire.
E di tempo di fermarsi a capire non ne aveva, e neppure troppo gli interessava, preso com’era a girare vorticosamente su quella giostra rutilante che era la sua nuova vita.
L’uomo non smentiva il personaggio.
Il personaggio non smentiva l’uomo.
Sulla ruota del criceto
Oliviero Piscopo aveva continuato ancora per un po’ a vorticare a velocità folle su quella che, a tutta prima, gli era parsa una gran giostra, invitando entusiasta anche gli altri a salirvi, senza avvedersi che la folla, invece, andava compattamente diradando facendogli il vuoto intorno perché gli spettatori, sgomenti, avevano constato che quella che era sembrata essere la ruota panoramica di un luna park, era in realtà solo la minuscola ruota all’interno della gabbia di un criceto.
Solo lui non s’era accorto di nulla, e ancora la cavalcava, ridendo a gola spiegata, menando, con le braccia e le gambe, fendenti all’aria, puerilmente cercando di catturare il vento e le scintille elettriche residue che, come punte incandescenti, gli voltolavano intorno, ad oscurare il sole.
… mentre il pitone già spalancava le fauci.
Giustizia è fatta
Guerra tra donne
Il processo mediatico a carico di Oliviero Piscopo aveva fatto da battistrada a quello celebrato poi nell’aula di giustizia, anche se stavolta il paese non s’era diviso tra innocentisti e colpevolisti, perché la vicenda aveva nelle sue ultime battute suscitato solo un tiepido coinvolgimento ed era stata seguita dall’opinione pubblica con la curiosità distaccata con cui si segue un film giallo in TV. Un giallo cervellotico, dalla trama nebulosa, confezionato ad hoc per ottenere il consenso della critica intellettuale piuttosto che quello della giuria popolare. Una di quella storie da cinema d’essai o teatro sperimentale: una rappresentazione noiosa, lenta, senza colpi di scena né personaggi memorabili, tutta incentrata sui tormenti interiori dei protagonisti, con pochi dialoghi e molti monologhi .
Seppure nel modesto cast, due primedonne s’erano da subito evidenziate, spintonandosi a vicenda per prendersi l’intera scena al fine di conseguire un premio qualsiasi, fosse pure il famigerato “Razzie Award for Worst Actor”, l’Oscar per il peggior attore cinematografico. Mariana Malavento e l’Avvocatessa, che di loro stiamo parlando, che se nelle anteprime avevano egregiamente adempiuto al ruolo imposto dal copione, alla fine s’erano ridotte a rubarsi le battute e i primi piani: Mariana, bellissima e sfacciata, irruenta, i riflettori e le battute ad effetto erano solo per lei.
L’Avvocatessa, pregna di bruttezza e di talento, era stata relegata in zone d’ombra e costretta a recitare un copione criptico, come è quello del codice penale, che lei ben conosceva a memoria e di cui magistralmente, in altri casi, se n’era avvalsa per i suoi obiettivi, sapendosi con perizia districare nell’intricato sottobosco dei paralogismi, sofismi, cavilli e sottigliezze, e tessere con quelli raffinate trappole o, al contrario, con acume usati per disinnescare ordigni che avrebbero potuto deflagrare nelle mani dei suoi assistiti. E, invece, stavolta, s’era sciaguratamente avventurata in un campo sconosciuto e a lei davvero poco congeniale, quello della competizione con un’altra donna, perdendo di vista il suo ruolo e la sua funzione, proponendosi nelle vesti dell’avvocato d’accusa per Mariana Malavento anziché in quelle del difensore di Oliviero Piscopo.
E così un processo che facilmente in altri tempi avrebbe potuto concludere con un verdetto di assoluzione completa per il suo assistito, ora ignominiosamente rischiava di perdere.
E nel peggior modo.
Sta di fatto che in un momento di ritrovata lucidità, aveva visto il baratro in cui stava facendo precipitare Oliviero Piscopo, e proprio sull’orlo era riuscita a fermarsi, rimanendo aggrappata con tutte le sue forze residue all’arboscello del “delitto colposo”.
Una sconfitta quella, la prima della sua carriera, ancor più inaccettabile perché sinceramente convinta dell’innocenza del suo patrocinato.
Nelle storie postume dei protagonisti
Oliviero Piscopo quella condanna non l’aveva presa affatto bene, che pure aveva creduto nelle grandi doti dell’avvocatessa senza mai dubitare per un istante della sua onnipotenza, e così alla lettura della sentenza, dopo lo stadio dell’annichilimento, contro di lei rabbiosamente aveva inveito, e contro quel mondo che pure lo aveva illuso di una possibilità di rinascita ed ora, dopo la fantasmagoria di quell’inganno, si riprendeva indietro tutto. E con salatissimi interessi.
– Avete avuto il vostro colpevole.
Questo il commento amaro del commissario Sangemini al PM, subito dopo il verdetto. Altre dichiarazioni non ne aveva volute rilasciare perché quello che lui davvero pensava non avrebbe potuto dirlo per non contravvenire al suo ruolo. Né mettere in discussione quello della giustizia.
Helga, nel chiuso della sua stanza e della sua mente, aveva iniziato a ritagliare e collezionare in un collage foto ed articoli riguardanti Oliviero Piscopo. Con le stesse forbici poi andava tagliuzzandosi le braccia.
Mariana… Mariana, quasi che fosse ora lei la vedova del poeta Jacopo Imperiale, andava presenziando iniziative e organizzando tributi in memoria del genero, proponendosi come la vestale delle sue memorie e della sua opera. In attesa di pubblicare quella sua, imminente, controversa biografia di Jacopo Imperiale che pure già gravava minacciosa, al pari di una bomba nucleare, nell’universo della poesia.
La casa editrice “La Zattera del Poeta” cavalcava l’onda della rinnovata notorietà di cui andava godendo l’opera postuma del poeta assassinato, quello stesso che, ancora in vita, aveva rischiato di essere definitivamente cancellato dai loro cataloghi perché le sue opere non esercitavano più attrattiva. Non si vendevano.
L’anonimo balbuziente aveva seguito ogni fase del processo con morbosità e frustrazione, sentendosi defraudato delle battute e della visibilità, che pure ne era certo, gli sarebbero spettate di diritto. Ma quello esigeva il suolo ruolo. E a quello s’era attenuto.
L’avvocatessa, dopo questa sconfitta aveva seriamente pensato di ritirarsi dall’avvocatura, schiacciata dal senso di colpa di non avere evitato la galera al suo cliente. Le parole di rabbia di Oliviero Piscopo continuavano a risuonarle nelle orecchie, incubo notturno che non le lasciava scampo. Avrebbe ristudiato le carte e inoltrato appello per la revisione del processo. Umilmente s’accingeva al difficile compito di riconquistare la fiducia del suo patrocinato. E di sé stessa.
Come sono andate realmente le cose
Arrivederci all’inferno
Jacopo Imperiale si era recato, come convenuto, presso i cancelli, a quell’ora chiusi, del Parco Comunale, e lei era già lì ad attenderlo, clandestina in un incavo d’ombra, vestita di una guaina di latex nero che completamente la fasciava, le mani guantate, un cappuccio che le copriva il volto e le nascondeva i capelli.
In tutto quel nero rilucevano solo i suoi splendidi occhi di tigre.
– Sei la donna più bella del mondo. Da quando ti ho ritrovata non faccio altro che pensare a te –
L65te aveva sussurrato eccitato il poeta, traendola a sé.
E già la gustava nella sua interezza di gambe, di fianchi, di seni e di vulva.
Lei, allora, lo aveva avvolto nel suo abbraccio fatale, affinché lui non vedesse la lama mentre gli sussurrava all’orecchio il suo freddo messaggio di morte: arrivederci all’inferno, bastardo.
Poi, l’affondo letale.
Questa è una storia in cui nessuno ha mentito
Se l’esame autoptico avesse potuto rilevare l’eco di quel sussurro nell’orecchio del poeta, ecco, si sarebbe facilmente giunti al nome dell’assassino. Una voce è un indizio tangibile su cui lavorare con l’ausilio di apparecchiature sofisticate in grado di rilevare toni ed accenti, stabilire una nazionalità e forse anche il grado di cultura, ed in base a tutto questo tracciare una sorta d’identikit.
Tutto così semplice, che la voce dell’assassina non era stata neppure contraffatta.
Sapremmo da subito, e con certezza assoluta, che ad uccidere Jacopo Imperiale è stata una donna venuta dal passato, e che solo nell’ultimo atto di questo dramma s’è affacciata alla ribalta per darci conferma della sua presenza e della sua innegabile abilità.
Lei, l’assassina, si è riservata una sola scena e una sola battuta.
Ma sufficienti per passare alla storia.