Post mortem
E’ giusto affermare che nell’ambito delle realtà compiute la morte è la più definita.
E la veridicità di questa affermazione è nella storia di questi due uomini, Jacopo Imperiale ed Oliviero Piscopo, i cui destini mai si sono incrociati e chissà, se ciò fosse avvenuto, neppure forse si sarebbero troppo piaciuti, tanto diversi i loro vissuti. Tanto diversi i loro contesti.
Ma è pur vero che Jacopo Imperiale, poeta di fama mondiale, non ha più alcuna possibilità di replica alla leggenda che gli stanno cucendo addosso, e l’onorabilità della sua memoria dipende unicamente dalla magnanimità dei vivi.
Ad Oliviero Piscopo, invece, son pervenuti molti vantaggi, che superato il momento umanissimo dell’angoscia, quando l’abbiamo visto piangere come un bambino impaurito, ora, invece, saggiamente guidato dall’avvocatessa che ha preso in mano il suo destino, è ben deciso a perseguire quella nuova e inaspettata opportunità, di riscrivere la sua storia.

Non tutti i mali, alla fine, vengono per nuocere.
La detenzione lo aveva disintossicato di tutti gli eccessi di cui fino ad allora si era nutrito, restituendogli un’anima meno malandrina e più consapevole.
Di nuovo libero, in attesa del processo, s’era diligentemente conformato alle regole impostegli dall’avvocatessa, che egregiamente adempiva alle funzioni di regista, sceneggiatrice e supervisore agli effetti speciali, e che mai avrebbe tollerato, dal momento che in gioco c’era il suo prestigio professionale, variazioni sul tema o battute fuori copione.
Più diligente, sarebbe giusto dire, che l’avvocatessa, diavolo d’una donna, egregiamente adempiva alle funzioni di regista, sceneggiatrice e fautrice di effetti speciali, ma non avrebbe tollerato, dal momento che in gioco c’era il suo prestigio professionale, né svisate personali né battute fuori copione. E su questo era stata perentoria.
Non tutti i mali, alla fine, vengono per nuocere.
Sarebbe questa la morale più ovvia, quella che rimanda al lieto fine, e che ci libera dall’ansia di una possibile ingiustizia compiuta ai danni di un innocente, sia pur scapestrato, perché sappiamo, da subito, che non è stato Oliviero Piscopo ad uccidere Jacopo Imperiale, nonostante ci siano diversi e pesanti  elementi a suo carico, come le sue impronte digitali sul manico del coltello, e la sua sciarpa intrisa di sangue.
Ma nessun movente. 

Il commissario Sangemini aveva pazientemente, ma invano, cercato in tutto quel tempo un raccordo, una connessione sia pur remota tra la vittima e l’indiziato.
Ma scandagliando la vita del gigolò aveva trovato solo fallimenti, puerili astuzie e piccole meschinità, perfino inconsapevoli: e questo la diceva lunga sul carattere dell’uomo.
Fosse dipeso da lui lo avrebbe pienamente scagionato, relegandolo dietro le quinte di quel palcoscenico troppo grande per un attore così piccolo.
L’avvocatessa, intanto, attraverso i media aveva iniziato la sua arringa difensiva che consisteva in una apparentemente pacata, quanto ferocemente sarcastica, lista d’obiezioni ed interrogativi, a cui era stato chiamato a rispondere, in primis, il commissario Sangemini che, a onor del vero, non aveva argomentazioni valide da contrapporre alla logica ineccepibile delle sue tesi difensive ma, anzi, pienamente concordava con lei anche se per etica professionale non si sarebbe mai pronunciato in un giudizio personale.

“La Zattera Del Poeta”, la casa editrice di Jacopo Imperiale, navigava in acque opulente e tranquillissime, sospinta dolcemente da un vento di bonaccia, ed era già alla seconda ristampa dell’ultima antologia del poeta, proprio quella che la critica aveva stroncato, ma che aveva acquisito, dopo la morte violenta dell’autore, valore di testamento intellettuale, cosicché gli stessi che lo avevano declassato a libercolo, ora s’affannavano a riesumarlo come capolavoro. In sintesi: una felice intuizione sperimentale di una poetica innovativa, leggera e giocosa, solo all’apparenza elementare.

Non tutti i mali, alla fine, vengono per nuocere.
L’uomo era morto.
Il poeta, invece, miracolosamente resuscitato.

Le tante verità di un’unica storia

 La verità di Mariana Malavento
I dati con cui il commissario Sangemini si era trovato a fare i conti per risolvere il delitto erano di ben scarsa consistenza.
La mancanza di un indiziato credibile, poi, aveva aumentato il chiasso intorno al caso.
Molti avrebbero desiderato, per antipatia, veder imputata la suocera, quella Mariana Malavento, donna ingombrante e spavalda, che aveva gettato discredito sul genero a cui pur tanto doveva in quanto a benessere e notorietà.
Ma si sa che la riconoscenza, fra tutte le virtù, non è quella più praticata dagli uomini, a maggior ragione da una donna siffatta: bellissima, sguaiata ed irriconoscente, sarebbe stata l’assassina perfetta.
Arrogantemente esponendosi, Mariana Malavento, però, aveva da subito, e senza mascheramenti, esibito la tangibilità del suo odio nei confronti del genero, che il commissario Sangemini non aveva dubitato neppure per un secondo della genuinità di quel sentimento, trattenuto per troppo tempo da una donna come lei pericolosamente istintiva, capace di uccidere, se lo avesse ritenuto opportuno, e proclamarlo come un atto di giustizia, per cui avrebbe anche preteso, in ultimo, un risarcimento.

La verità di Helga Malavento
Su Helga, invece, mancava una verità specifica, tant’è che il commissario l’aveva esclusa da subito dalla rosa degli indiziati, non perché la ritenesse incapace di uccidere (l’esperienza gli aveva insegnato che chiunque, fortemente motivato, può trasformarsi in potenziale assassino), ma perché sposando Jacopo Imperiale aveva infine trovato l’ombra di quel padre che la madre gli aveva nell’infanzia negato.
Completamente appagata nella sua vita matrimoniale, non aveva alcun motivo per uccidere l’uomo che l’aveva, nel contempo, resa moglie e figlia. E consacrata musa.
Alla morte del poeta, sentendosi nuovamente orfana, aveva fatto ritorno al suo mondo inaccessibile, consegnandosi, passiva, all’inedia e al mutismo.
Era questo il prezzo del suo risentimento verso Mariana che, invece, a modo suo, teneramente amava quella figlia così fragile, e attenta vigilava che quella sua sensibilità eccessiva non degenerasse in patologia.
Guardandole le braccia martoriate dalle lamette e dagli aghi delle flebo, il commissario Sangemini l’aveva da subito ascritta alla categoria dei suicidi piuttosto che a quella degli assassini.

La verità di Oliviero Piscopo
L’accurata ricostruzione delle dinamiche della sua rocambolesca, quanto  intempestiva entrata in scena sul luogo del crimine, e la mancanza assoluta di un movente, avevano convinto il commissario Sangemini della totale estraneità di Oliviero Piscopo,  al quale si poteva, alla fine, solo imputare l’omissione di soccorso.
Uno sbandato, questo ex attore, turbolento e pavido, mantenuto dalle donne, era solo una rumorosa comparsa sul set di questo imponente drammone.
Non possedeva, d’altronde, alcun talento interpretativo, neppure per i ruoli secondari, accontentandosi di fugaci comparsate nelle camere da letto delle ricche signore annoiate, ma sempre pronto alla fuga ed alla sconfessione.
La storia di Oliviero Piscopo, trascritta nei verbali della polizia, era assolutamente vera.
Meno vera, invece, quella raccontata in una sua biografia, pubblicata dalla “Zattera Del Poeta”, in cui veniva descritto come una sorta di eroe romantico e decadente, che fece grandemente salire di prezzo le sue prestazioni di letto e lo recuperò alla notorietà dei set cinematografici e televisivi.

 La verità della casa editrice “la Zattera Del Poeta”
La casa editrice, paladina dell’eredità intellettuale di Jacopo Imperiale, con un colpo di genio aveva organizzato, tramite un grande battage pubblicitario, la pubblicazione dell’antologia postuma del poeta in concomitanza con la biografia dell’attore, suscitando lo sconcerto dei critici e dei benpensanti che sostenevano, scandalizzati, che era accomunare, in nome del profitto commerciale, il diavolo e l’acqua santa.
Inaccettabile, per costoro, che Jacopo Imperiale, poeta nazionale di fama mondiale, fosse costretto a dividere il suo ultimo palcoscenico con quell’attorucolo vizioso, il cui unico talento era stato quello d’inciampare nel suo cadavere.
I più infuriati proposero addirittura il boicottaggio della casa editrice che invece, trovandosi al centro di una simile bagarre pubblicitaria, esaurì nel giro di pochi giorni le copie edite, provvedendo tempestivamente all’avvio di una seconda ristampa per esaudire le migliaia di richieste, anche estere, che continuavano a pervenire incessanti.

La verità dell’anonimo balbuziente
La verità dell’anonimo balbuziente, congetturava il commissario Sangemini, era stata la più onesta di tutte.
Il testimone occulto si era limitato a raccontare la sequenza a cui aveva assistito mentre era in perlustrazione nella sua consueta ronda notturna alla ricerca di coppiette da spiare: un uomo steso a terra, immobile, mentre quello che lo sovrastava gli andava conficcando un coltello nel torace e, nella fretta di concludere il suo lavoro da killer, aveva imbrattato di sangue la sua sciarpa bianca da dandy.
L’anonimo balbuziente non aveva mentito, e neppure voluto volontariamente addossare il delitto ad Oliviero Piscopo: si era semplicemente limitato a raccontare ciò che aveva visto,

La verità di Jacopo Imperiale
La verità, Jacopo Imperiale, se l’era portata nel tomba insieme alla visione di un angolo di cielo in cui, per sempre, avrebbe continuato a brillare quell’unica stella passiva che aveva assistito, lontana ed indifferente, al suo assassinio.
L’intera sua esistenza era stata passata al setaccio: la vita noiosa di un intellettuale a cui, però, piacevano molto le donne, senza distinzione d’età, cosicché era lecito pensare che i pochi anni di Helga non erano stati il motivo principale per cui l’aveva sposata.
Seppur quel matrimonio, determinato  forse dall’amore, o solo da un capriccio, strenuamente osteggiato da Mariana Malavento, aspramente criticato dalla casta degli intellettuali così come dall’entourage del poeta, funzionava, invece, benissimo.

La verità di Guerrino Sangemini
La verità del commissario Guerrino Sangemini era nella consapevolezza che ci sono verità irraggiungibili, e così quella morte, forse, non avrebbe mai avuto un vero colpevole.
Non era gettare la spugna, né rassegnarsi, ma solo filosoficamente prender atto di ciò che l’esperienza gli aveva insegnato, ossia che gli insuccessi (compresi quelli investigativi)  rientrano nella casistica di tutte le categorie, di cui bisogna tener conto senza considerarli fallimenti se, con rigore, si è espletato il proprio compito.
Ma la verità… dov’è la verità?
Sul corpo di un uomo steso sul tavolo dell’obitorio?
Nei reperti imbustati e catalogati negli archivi della polizia?
Nelle cartelle dei verbali degli interrogatori?
In un particolare discordante, una parola stridente, un dito puntato, una smorfia accusatrice?
La risposta è che la verità non sempre è dove l’andiamo cercando.

Ben sapeva, il commissario Sangemini, che la letteratura investigativa è piena di casi irrisolti, proprio come  sarebbe stato questo di Jacopo Imperiale che però, invece di cadere nell’oblio,  avrebbe continuato ad ossessionare nei decenni generazioni di detective, storici, giornalisti, scrittori, legulei e parolai, pronti a cimentarsi alla ricerca della verità.
Magari ridisegnando le identità dei protagonisti e reimpostando la cronologia degli eventi.
Ma non sarebbe stata più la stessa storia.