Il poeta
L’ultimo fotogramma della vita che il poeta Jacopo Imperiale riuscì a catturare prima di morire fu un lembo di cielo color fango con dentro una piccola stella passiva, a portata di mano, cosicché prima di spirare egli allungò, in un gesto romantico quanto drammatico, le dita per afferrarla, tanto gli pareva vicina, e nel delirio confuso che precede la morte mormorò i versi di quell’ultima poesia che mai avrebbe scritto.

Il gigolò
Fu Oliviero Piscopo, ex attore, con una seppur breve e già tramontata carriera alle spalle, soppiantata da quella più redditizia di gigolò, nottambulo per indole e professione, reduce da una festa memorabile in cui, per consolidare la sua cattiva fama, si era strafatto di tutto, ad  imbattersi, inopportunamente, nel cadavere del poeta Jacopo Imperiale che giaceva dalla parte opposta del cancello del parco comunale, a quell’ora ancora chiuso, che lui aveva maldestramente scavalcato per prendere la scorciatoia verso casa,  cadendogli letteralmente sopra e mandando a conficcare ancor più profondamente nel torace la lama del coltello di cui sporgeva il manico, ruvido e scuro, dallo sparato della camicia imbrattato di sangue.
E quel manico, Oliviero Piscopo, lo aveva afferrato come fosse una maniglia a cui sorreggersi, prima di fuggire spaventato e senza prestar soccorso all’uomo disteso sotto di lui.

L’anonimo balbuziente
Come spesso in questi casi avviene, fu  la voce balbettante di un anonimo a segnalare alla polizia l’avvistamento del cadavere.

Il commissario
Guerrino Sangemini si ritrovò alle prime luci dell’alba tra le mani quel cadavere ancora caldo ed ingombrante,  con la notizia dell’omicidio immediatamente diffusa dalle agenzie ANSA  che campeggiava a caratteri cubitali sulle prime pagine dei giornali e dei notiziari televisivi, destando grande scalpore ed unanime  cordoglio, per una morte così brutale ed imprevista.

La vedova
Helga Malavento, la giovanissima moglie del maturo poeta, ebbe un malore alla notizia inaspettata della morte del marito. Creatura fragile e provvisoria, ascrivibile alla categoria dannata dei suicidi  piuttosto che a quella maledetta degli assassini.

La suocera
Mariana Malavento, la suocera spavalda e provocatoria, già nota alle cronache mondane per le sue intemperanze sentimentali e che, da ultimo, con le sue interviste aveva teso a screditare a livello mondiale la memoria del genero. Per questo suo esecrabile comportamento fu da subito invisa all’opinione pubblica da cui, pollice verso, era stata giudicata, in prima istanza, colpevole. colpevole.

“La Zattera Del Poeta”
La casa editrice di Jacopo Imperiale, paladina della memoria aurea del poeta.

Questi i personaggi di una storia tanto bislacca quanto crudele, che sempre più ci rafforza nella teoria che la vita è un ingannevole gioco di specchi e che la verità, talvolta, si mostra molto meno credibile della menzogna.

La storia

Jacopo, Helga e Mariana
Dediche alla sua giovanissima moglie adornavano gli scritti recenti di Jacopo Imperiale, che la comparava, con fervore adolescenziale, ora ad una farfallina ora ad una rondinella o, come nell’ultimo, ad una stellina.
Poco gli era importato se la severità di una certa critica malevola aveva stroncato i suoi ultimi lavori, tacciandolo di rimbambimento senile e paragonandolo, non senza qualche malignità, al professor Humbert Humbert, il discusso protagonista del romanzo “Lolita”: Jacopo Imperiale aveva continuato a scrivere versi infarciti di metafore sempre più simili a filastrocche che a quegli intensi, strutturati componimenti, che ne avevano decretato l’ascesa nel conteso e sovraffollato universo dei poeti.
Helga Malavento aveva solo sedici anni quando l’aveva sposata, con il consenso sottoscritto dalla madre, quale unico genitore, presso il tribunale dei  minori mentre lui aveva già superato la cinquantina, pur conservandosi ancora, nel fisico e nell’aspetto, tonico e molto attraente.
Madre e figlia si erano trasferite dall’angusto monolocale periferico al villone residenziale, in un cambiamento sostanziale di metri quadrati e di prospettive.
Ma era Mariana Malavento ad alimentare le cronache mondane con un comportamento scandaloso e sprovveduto, motivo per cui  il nome del poeta veniva spesso citato nella cronaca rosa associato alle intemperanze della pestifera suocera, con disappunto della classe intellettuale che di quel talento abbagliante se ne era orgogliosamente fatta fregio, a livello nazionale ed internazionale.
Dal canto suo, Helga Malavento, nonostante la giovane età si era dimostrata molto più assennata della genitrice, limitandosi a godere, piuttosto defilata, dei lussi  e delle feste, e presenziando, gentile e paziente, ai noiosissimi convegni letterari a cui mai si sarebbe sottratta, per gratitudine e dovere ma soprattutto per amore, con la stessa mite condiscendenza con la quale fronteggiava gli appassionati assalti notturni del maturo poeta.

Requiem per un poeta
Il commissario Guerrino Sangemini detestava gli eccessi e le intemperanze, e cosa c’era di più eccessivo ed intemperante di un omicidio?
Lui, amante della new age, dei panorami silenziosi e dei week end di sole che svuotavano le città, avrebbe volentieri resuscitato il poeta solo per toglierselo dalle scatole, evitando a sé stesso la noiosa burocrazia delle indagini.
Eppoi  non provava nessuna empatia verso l’uomo che si era fatto cogliere dalla morte in un’ora deserta, ai piedi del cancello di un parco e con un coltello profondamente conficcato fra le costole, a toccare il cuore, e maturando la convinzione che in qualunque punto di quel corpo la lama si fosse andata ad impiantare avrebbe sempre colpito il cuore, che nei poeti ricopre il novantanove per cento della superficie.
Facilissimo, in quel caso, il compito del medico legale: praticamente il referto delle cause di quella morte era già scritto lì, sulla scena del crimine, mentre a lui, invece, sarebbe spettato il difficilissimo compito di assemblare, nella giusta sequenza, le scene madri di quel film muto e senza spettatori.
Non sarebbe bastato un solenne requiem, a suggellare la morte del poeta Jacopo Imperiale.

Scene madri
Helga Malavento era stata colta da malore alla notizia dell’assassinio del marito: il mondo, d’improvviso, aveva preso a girare vorticosamente e subito dopo s’era oscurato, misericordiosamente precipitandola nell’incoscienza.
Il commissario l’aveva prontamente accolta tra le sue braccia nel momento in cui stava scivolando a terra.
Però gli era sembrata spontanea, seppur le donne, anche quelle ancora in fasce, ne conoscano una più del diavolo. Per questo  il commissario non si era mai impegnato seriamente con nessuna.
Nel frattempo aveva fatto il suo irruento ingresso Mariana Malavento che, alla vista della figlia priva di sensi, aveva preso ad inveire contro il commissario e i suoi metodi da poliziotto, quando sarebbe spettato a lei, sua madre, comunicarle con la dovuta cautela la luttuosa notizia.

– Potrei denunciarla, lo sa? – aveva sibilato la donna.
– E per cosa, signora? – aveva domandato esterrefatto il commissario.

Un brutto sogno
La prima cosa che Oliviero Piscopo vide, emergendo dalle nebbie del dopo sbornia, fu la sua sciarpa bianca macchiata di sangue che penzolava dal bracciolo di una sedia.
Lo sgomento s’impadronì di lui.
Emise un gemito prima di ricacciare la testa sotto il cuscino per non vedere materializzato quello che, volentieri, avrebbe sperato esser solo l’imbroglio di un brutto sogno.