E quando, Seraphine, t’addormenti al mio fianco, dopo fatto l’amore, già i miei sensi errano, superficiali ed incoerenti, sulle tracce di altri profumi, di altri corpi di donna, senza ombra di quel rimorso che pure inseguo e che, invano, attendo aggredirmi.
Lo sollecito, lo provoco, lo sfido.
Lo agogno.
Ma nulla.
Ti guardo dormire, Seraphine, così come guarderò dormire, in questo stesso letto, quella che sarà dopo di te. E tutte quelle che ancora dopo saranno.
Senza alcun pentimento per le mie promesse vane e le lacrime che verserai.
Rimorso, è la parola inventata dagli uomini per accrescere, col gusto dell’espiazione, il piacere del peccato. E’ l’ago conficcato nella memoria che fa dolere l’anima al ricordo dell’oltraggio inflitto, cosicché, Seraphine, dovrei prostrarmi ai tuoi piedi e confessarmi ed invocare perdono. Ed espiare.
Ma nessun rimorso, per quanto cercato nelle profondità della mia consapevolezza, perpetra la mia coscienza, se non la disperazione di non riuscire a provare anch’io il piacere sottile di quel patimento.
E allora maledico il cielo e la vastità del firmamento, e impreco contro quel Dio che tale godimento mi ha negato.
Questa mia anima concava, Seraphine, che non ha accesso al rimorso, è la bizzarria che mi rende il più innocente tra gli uomini.
La mia anima scevra.
Ed il silenzio delle stelle.