Quella mattina, Erminia Paoletti si svegliò di buonora un po’ prima del solito perché una inconsueta preoccupazione aveva disturbato il suo sonno.

Suo primo e abituale compito era quello di occuparsi delle galline e dei conigli alloggiati nel capanno poco distante da casa.

Conosceva le sue amiche pennute ad una ad una e le chiamava per nome quando andava da loro a portare il mangime.

“Richi, Richi, Richi!”, chiamava a voce alta e Richetta, quella con qualche piuma nera sulla coda, le andava incontro per prima mentre Martina, la più prepotente, iniziava a beccare con piglio deciso come per intimare alle altre di starsene a rispettosa distanza.

Raccolse tre uova e controllò che nessuna faina avesse fatta visita ai conigli.

Ritornata a casa, si fermò sotto il porticato voltandosi ad osservare l’aia che una volta era così piena di voci e di vita.

I ricordi scorrevano davanti ai suoi occhi.

Quello lì era il fico dell’altalena su cui s’alternavano a spingersi i bambini e quella era la panca di pietra su cui, all’ombra del vecchio gelso, amava sostare con suo marito nei pomeriggi assolati… Com’era bello il suo Gino! E che mani forti e gentili aveva quando la stringeva a sé!

Le sembrava ancora tutto lì, vivo e presente, eppure erano già passati trent’anni da quando un brutto male s’era portato via il suo Gino.

Quell’evento aveva calato un perenne velo di dolore sul suo volto e piegato gli angoli della bocca che un tempo era invece sempre volta al sorriso.

S’era negata ogni soddisfazione limitandosi piuttosto a sopravvivere, lavorando duramente per crescere i due figli da sola, figli che ormai erano grandi e lontani.

Infatti Mario era partito nel ‘60 per l’Australia e Giovanni per il Canada, due anni dopo.

Così, da tanto tempo era restata da sola a vivere in quella casupola fatiscente ed isolata in un fondo valle sperduto a ridosso degli Appennini e, ormai, alla solitudine s’era abituata.

Per giungere alla sua casa si doveva percorrere in discesa una tortuosa strada sterrata e passare a piedi per un ponticello stretto e traballante di legno.

Ed ora che le sue ginocchia e la schiena facevano i capricci, non ce la faceva più ad andare in paese.

Qualcuno lassù, notando le sue frequenti e prolungate assenze, le aveva consigliato di trasferirsi dai figli ma lei non se l’era sentita.

Raramente si era allontanata per più di trenta chilometri… immaginarsi se sarebbe mai riuscita ad arrivare addirittura in Australia o in Canada!

Una sua amica, Annetta, una volta le aveva detto: “Secondo me faresti bene a trovarti prima o poi un posto in qualche casa di riposo”, ma lei con fare deciso e stizzito le aveva risposto: “No, manco morta!”

Niente e nessuno l’avrebbe mai allontanata da quella casa, da quel mondo in cui affondavano le sue radici e tutte le sue certezze.

L’argomento, per lei, era chiuso.

Ma un mese prima s’era scomodato ad andarla a trovare addirittura Don Alfio, il sacerdote della parrocchia, per sincerarsi delle sue condizioni.

Nel vederla così malridotta, dopo un paio di giaculatorie e benedizioni, aveva iniziato a decantarle l’accoglienza, la cura e la professionalità che avrebbe trovate a ‘Villa Angelica’ , più comunemente nota a tutti come ‘ospizio’.

Le circonvoluzioni del suo discorso, le bonarie empatiche condivisioni delle sue angosce, in estrema sintesi, stavano a significare che si doveva rassegnare a quella idea in quanto i suoi figli, molto preoccupati nel saperla sola, avevano fatto richiesta perché vi fosse accolta.

Mancava solo la sua firma ma confidavano che se ne sarebbe fatta una ragione.

“Ma manco per cavolo”, aveva invece pensato lei, “ Piuttosto mi lego con una corda al gelso!”

In quel mentre l’orologio del campanile scandì le 10.

Si doveva sbrigare perché l’avevano avvertita che sarebbero arrivati alle 11 di quel giorno.

A prenderla, cioè.

Entrò in casa e tirò fuori il vestito nero migliore, lo indossò. Si pettinò con cura la bianca chioma che poi coprì con un fazzoletto della stessa tinta.

Ci teneva ad essere in ordine e pronta.

Nell’armadio trovò il fucile da caccia del marito ed una scatola piena di cartucce a pallettoni, quelle riservate alle volpi, tanto per intenderci.

Afferrò il tutto rispolverando quella certa dimestichezza acquisita in gioventù quando c’era la guerra ed occorreva essere pronte a difendersi.

Poi, appoggiandosi un po’ qua e un po’ là, uscì e sedette su di una panca sotto al porticato.

Si mise ad aspettare.

 Immagine dal Web ( 1990, donna armena, è un altro contesto ma l’ho scelta per analogia)