Che paese strano, il paese di Rachele. Nonde di sopra.
Se non fosse per quel cartello mezzo sgangherato e rugginoso che lo rammenta si potrebbe pensare che non esiste.
È arroccato su un costone da centinaia di anni, alle spalle un bosco impenetrabile e di fronte il nulla. Già perché questo paese dimenticato da Dio e dagli uomini è a strapiombo sul mare. Visto dall’alto ricorda un pettine. Il lato lungo è disegnato da una serie di case addossate una all’altra a formare una linea retta. Da questa spina dorsale sporgono come rebbi di una forchetta le viuzze, i vicoli, i canti che degradano fino al limite ultimo.
Poi il vuoto.
La chiesa è al centro esatto, quasi come a voler sottolineare che tutto parte e tutto ritorna da li.
Per Rachele la chiesa rappresenta lo scandire del suo tempo. Gigli bianchi sull’altare per la sua prima comunione, fiori d’arancio e mughetti per il suo matrimonio, incenso e canti di congedo per questo giorno da tempo atteso. Si guarda Rachele e sorride. Indossa un abito di un azzurro intenso. Le piace l’azzurro è come respirare il profumo del mare quando le onde s’infrangono sugli scogli. Qualcuno le ha fatto notare che forse non è il colore più indicato vista la circostanza, perché non sanno, non possono sapere. Ma oggi non è un giorno come gli altri per Rachele, oggi è il suo giorno. I rintocchi mattutini dell’orologio della chiesa l’hanno trovata sveglia. Ha cominciato a vestirsi all’alba. Ogni gesto è un rito. Il suo abito racconta. Racconta di ieri e di oggi. Si sorprende a lisciarlo, parla di lei, è come se accarezzasse la sua vita, la sua lunga vita.
Già, ma quanti anni ha? Non se lo ricorda più. Sa di essere nata quando la prima guerra mondiale non era ancora finita e ora che sta per concludersi la terza, la sua guerra personale si sente stanca. È un attimo, poi si scuote, non vuole cedere alla tristezza, non oggi. Si guarda allo specchio, e questi, corroso dal tempo e dalla salsedine le rimanda l’immagine sbiadita di una bellezza antica. Perché Rachele oggi si sente bella. Come tanti anni fa quando ha varcato la soglia di questa casa. Vorrebbe non pensarci ma i ricordi sono come acqua tra le dita, non riesce a trattenerli. E allora si rivede, giovane sposa nella sua casa in discesa. Già perché la sua casa è l’ultima dell’ultima via, la più ripida, e sembra li li per scivolare a mare. Un parapetto di fortuna, più simbolico che funzionale la separa dal vuoto. È stata felice per un po’, ma solo per un po’. Non sa cosa è successo dopo, se è stato il suo grembo sterile, i soldi che non bastavano mai o l’alcool a fare di suo marito il mostro che è diventato. Quante volte ha desiderato volare come quei gabbiani che sente stridere oltre la scogliera?
È da tempo che non li sente più, da quando lui le ha rotto un timpano con un pugno. L’ha schiacciata finché ha potuto, poi è stata la vita a schiacciare lui. Si è ammalato, di una malattia degenerativa, ma questo non gli ha impedito di inveire contro di lei, di insultarla, di comandarla. Ma piano piano le capacità motorie vengono meno, dipende sempre più da lei, la frustrazione, la rabbia,la paura… poi la resa. E la richiesta: “Ti prego Rachele, fammi morire…”
Ma Rachele non sente ha il timpano e il cuore rotti: “Rachele,ti prego…”

Quante volte ha pregato anche lei quel Dio nell’alto dei cieli? Ma lui non l’ha mai ascoltata. Forse perché è troppo in alto o forse perché ha i timpani rotti… anche lui. Ma Rachele non ha bisogno di sentire, gli legge le labbra, sa cosa le sta chiedendo. L’accontenterà, ma a modo suo. Ha deciso di ucciderlo. Condannandolo a vivere.

Così, giorno dopo giorno, lo lava, lo nutre, ammorbidisce le sue piaghe con unguenti, lo cura con gesti lenti e sapienti… come se lo amasse.
E come una nenia gli racconta con dovizia di particolari come l’ha fatta sentire in tutti quegli anni, quando sfogava su di lei la sua frustrazione e la sua rabbia.

Gli parla piano, vuole che la sua mente, come la terra arida, assorba la pioggia acida delle sue parole.
Sa che la sta ascoltando, lo vede dai suoi occhi, l’unica cosa mobile che gli è rimasta.
E in quegli occhi vede passare la rabbia, l’impotenza di non poterla più afferrare per la gola… ancora e ancora e ancora.
Il male non prende lezioni da nessuno e Rachele se ne rende conto. E qui si ferma e lo lascia andare.

Tra poco arriveranno a prenderlo per portarlo in chiesa. Là, da dove tutto parte e tutto ritorna.
E Dio sarà costretto ad affacciarsi questa volta per riprendersi quanto ha creato. “ Io, il mio l’ho fatto”, pensa Rachele, “ora è tutto tuo.”

Spalanca tutte le finestre e l’aria di mare si precipita all’interno, insinuandosi in ogni angolo. La casa respira, come un enorme polmone. È leggera, fluttuante. E Rachele è bella…è giovane…è libera.

A Nonde di sopra la sua assenza al funerale è rimasta un mistero. C’è chi giura di averla vista andar via verso il bosco, chi verso il mare. La casa in discesa è rimasta aperta, bisognerebbe chiuderla.
E quel parapetto poi… andrebbe riparato, qualcuno potrebbe cadere di sotto e di certo non si salverebbe. Non è mica come questi gabbiani che si tuffano in picchiata e poi si rialzano librandosi in volo fino a confondersi col cielo di un azzurro intenso.