I QUATTRO SASSI

A Bari

Non se n’era parlato nei giornali, né in tv: era semplicemente passato da un nulla ad un altro, un salto nel buio, ma quel buio era certamente meno scuro del nero che caratterizzava la sua vita.

Ma ora aveva quattro compagni con sé.

Intanto il treno avanzava nella piana tra il mare e gli ulivi, un bel panorama per chi avesse l’animo rivolto al bello, ma per Vito non era così, desiderava solo che andasse più veloce, molto più veloce e lo portasse subito lontano.

Quasi avesse letto nei suoi pensieri, il suo vicino, un signore di mezz’età dall’aria distinta sbottò con un: «Questi treni sono un vero strazio».

Era evidentemente un modo per attaccare discorso che catturò, infatti, l’attenzione della corpulenta donna – coscia lunga seduta davanti a Vito.

«Ah! Si davvero! Due giorni fa mi è capitato… e bla e bla…».

Ecco, ci risiamo con la solita conversazione da treno, pensò Vito. e per tutta risposta si chiuse a guscio nelle spalle per isolarsi e pensare, lo sguardo rivolto fuori, al paesaggio di quella terra che stava lasciando forse per sempre.

«Dove va lei, fino a Milano?», continuavano quei due.

«Io ho l’aereo da Bologna per Bruxelles»-

Che noia però! Gli amici te li scegli, ma i compagni di classe o di viaggio in treno no, pensò.

Desiderava solo avere un po’ di silenzio, poter allungare le gambe per sgranchirle, ma il dondolio ritmico di quelle invadenti di Coscia Lunga rendevano ardua la manovra, volendo evitare contatti e fraintendimenti.

Decise così di uscire sul corridoio laterale di quel vecchio treno per starsene da solo e muoversi un po’. Aveva da mettere ordine alle proprie idee e nello scomparto era ormai tutto un fiorire di irritanti inutili banalità.

Era salito su quel treno senza neanche fare il biglietto perché era il primo verso nord, ma non sapeva neppure dove andare, desiderava solo mettere chilometri e chilometri tra sé e casa sua.

Infilò le mani in tasca: i sassi erano lì, tutti e quattro, freddi e nel contempo bollenti.

Li tirò fuori per osservarli; erano dei comuni ciottoli dall’aspetto arrotondato ma densi di significato per lui.

Li aveva raccolti fuori dall’uscio di casa dopo aver richiuso sbattendo la porta, senza voltarsi indietro, senza esitazione alcuna.

Sarebbero stati più al sicuro nel borsone, pensò e quindi rientrò nello scomparto.

Chi lo sa cosa starà facendo mia madre… starà piangendo per la mia fuga. E mio padre, vigliacco, sfogherà su di lei la sua rabbia, forse l’accuserà d’essere mia complice.

Mamma, non avrei proprio voluto ma non ce la facevo più. Spero solo che lui non ti faccia più male ora che non ci sarò più. E mi dispiace di non essere riuscito a … a….

Poi, pensando alla sorellina Ines di 12 anni:

Piccola, fin ora ti sei salvata dalle sue botte. Forse perché sei così gentile e fragile non se l’è presa mai con te, ancora, per lo meno.

«Eh già» continuava intanto Coscia Lunga, «ha sentito di quei ragazzi che hanno mandato in rianimazione un barbone? Che mondo!».

E l’altro: «È tutta colpa dell’educazione troppo permissiva. Un paio di schiaffi dati per bene al tempo giusto li avrebbero raddrizzati!».

Queste parole gli giunsero come frustate, cocenti come quelle che aveva realmente sentito sulla sua pelle.

Come quella volta che aveva dato in prestito la bici, peraltro tutta scassata, a Tiberio detto ‘la teppa’ e s’era beccato due ceffoni da suo padre che ancora gli risuonavano nelle orecchie.

Lo rivedeva con dolorosa lucidità lì sulla soglia della sua camera. Barcollava, come suo solito, e lo guardava con quegli occhi liquidi e appannati, affogati nell’alcool.

«Imbecille, sei un imbecille! Adesso vedrai che non te la restituirà o te la romperà tutta. E che forse questa è la casa di Babbo Natale? Se la comprasse lui la bicicletta, se la vuole. Sei uno stupido, uno stupido incapace anche a tenerti la roba tua».

Il tipo sul treno così propenso alle punizioni corporali altrui doveva essersi accorto della sua reazione, perché cercò di essere più persuasivo nelle sue affermazioni continuando a rincarare la dose:

«Troppa pazienza, toglie la riverenza», «Il buon giorno si vede dal mattino», «Il troppo storpia» ecc., dando così la stura a motti e proverbi vari, quasi fossero il Vangelo.

Era troppo, così prese la sua roba e cambiò scomparto.

Finalmente solo, pensò a quello che aveva fatto per rabbiosa risposta alla continua violenza fisica e psicologica a cui era sottoposto dal padre. Ora ne era appena un po’ pentito ed aveva paura ogni volta che incrociava un’auto della polizia o dei carabinieri.

Ma probabilmente lui non lo aveva denunciato e non ne aveva denunciata neppure la scomparsa. Forse aveva preferito far finta che non fosse mai esistito.

«Meglio così», si disse, «spero proprio che si dimentichino presto di me come io di loro, tanto…».

Vito aveva portato con sé solo un borsone sportivo con su scritto “Vis Latèri Football Club” in cui aveva buttato in fretta e furia un paio di cambi, qualche ricordo e aveva riposto al sicuro, ora, i quattro sassi.

Addosso aveva gli abiti buoni della domenica: pantaloni classici grigi, camicia celeste.

Desiderava dare una buona impressione di sé durante il viaggio, visto che da sempre gli era stato urlato contro di non valere niente, non desiderava certo sembrare un morto di fame o peggio un tipo poco raccomandabile. Un abbigliamento anonimo lo avrebbe meglio mimetizzato, almeno fintanto che non si fosse ritenuto abbastanza lontano e al sicuro.

In quel mentre il treno stava rallentando per la fermata alla stazione di Bari.

D’istinto, prese le sue cose e scese. In una grande città forse si sarebbe potuto inserire e iniziare una vita, chissà.

Uscì sul piazzale ove una grande rotonda convogliava il traffico per tutte le direzioni. Si girò e sopra alla facciata della stazione fatta d’archi chiusi da vetri un grande orologio a fondo scuro segnava le 19. Doveva trovare un posto in cui fermarsi per la notte e mangiare. Alzò lo sguardo e lì davanti, dall’altra parte della piazza, c’era pronto a disposizione il Grand Hotel Leon d’Oro, un edificio moderno ed imponente.

Entrò per chiedere i costi ma, a conti fatti, avrebbe dovuto spendere gran parte della misera somma a disposizione, cioè i 100 euro sottratti al portafoglio della madre, un motivo in più per cui sentirsi a disagio. Sicuramente la madre avrebbe taciuto e il padre avrebbe data la colpa a lei di averli persi o spesi malamente e sarebbero volati insulti e schiaffi. Si sentiva colpevole per averla esposta ad una nuova ulteriore scarica di violenza.

Stava lì nella hall cercando di decidere cosa fare quando udì due voci che gli suonavano familiari.

«Oddio!», esclamò dentro di sé.

Scesi dall’ascensore, teneramente abbracciati, il segretario comunale del suo paese, il rag. Meduzzi e la maestra elementare Caterina gli passarono accanto.

«Amore, ci vediamo tra una settimana sempre qui. Ti aspetto, ti desidero, ho bisogno di te, lo sai. Sarà una sofferenza aspettare, ma bisogna essere cauti. Mio marito ha iniziato a fare delle strane domande… ».

Hai capito la maestrina! E pure il segretario che si dà l’aria di uomo integerrimo tutto casa e lavoro… pensò Vito girandosi di spalle per non farsi vedere.

E sghignazzando tra sé: se lo sapesse Romolo, il marito, che se ne va in giro tutto impettito a testa alta … Però, accidenti, se qui a Bari incontro così facilmente gente del mio paese non sono al sicuro. Potrebbero raccontarlo a mio padre, e allora si che sarebbero guai seri».

A Rimini

Il treno delle 22:40 per Bologna si stava riempiendo lentamente stazione dopo stazione di persone per lo più dirette lontano che avrebbero dovuto essere presenti il giorno dopo sul luogo di lavoro. Lo aspettava un altro tratto di strada da condividere con sconosciuti, sperava solo che volessero dormire.

Era seduto sul sedile di destra, vicino al finestrino da cui poteva, più che vedere, immaginare il mare laggiù, lontano come la striscia nera luminescente sotto la luna in quella notte autunnale. L’effetto specchio gli restituiva l’immagine del suo volto da ragazzo riccio e bruno, gli occhi nocciola sempre un po’ rabbuiati. La fronte spesso aggrottata gli conferiva un aspetto più maturo rispetto alla sua giovane età che era comunque tradita da una barbetta appena accennata e da lui rasata con quotidiana solerzia nella speranza di stimolarne un più virile sviluppo.

Ho quasi diciotto anni ma me ne sento cento, sospirò, appannando così il vetro, ed il suo volto riflesso per un attimo sparì.

Era concentrato a guardare fuori quando, sempre nel riflesso del vetro, vide passare una ragazza dai capelli castani ondulati, la cui silhouette, nell’insieme, aveva qualcosa di familiare che lo fece irrazionalmente sussultare.

Elisa! Che ci fa Elisa qui? Ma no, brutto cretino, non è certo lei!

Quanti appostamenti aveva dovuto fare! E per quanto tempo aveva aspettato da lei un appuntamento dietro alla scuola elementare! Era quello un posto un po’ nascosto, non frequentato di pomeriggio e quindi l’ideale per un incontro da soli. Era iniziata così una storia romantica, non andata però più in là di qualche bacio appassionato.

Finché in paese non arrivò Giandomenico Quartaroli in vacanza estiva dai nonni. Il Giandomenico, detto Genko, era un tipo tutto bulloni, palestra e piercing, maledetto, dotato di moto, soldi in tasca e pure bello.

Ed ovviamente tutte le fanciulle sbavavano dietro a lui. Tutte tranne la sua Elisa, ci poteva mettere tutte e due le mani sul fuoco!

«No, questo pomeriggio non ci possiamo vedere perché debbo aiutare mamma in casa con il bucato, e tu sai poi quello che fa se non le do retta» gli aveva detto quel giorno.

Così s’era deciso ad andare a trovare Enzo che abitava in campagna al di là del torrente Licheo.

Stava, appunto, percorrendo quella strada brecciata, quando attraversando il torrente su un ponticello di legno, aveva visto la moto di Genko insolitamente parcheggiata dietro alcuni cespugli come se avesse avuto intenzione di nasconderla.

Strano, aveva pensato, Genko ama farsi osservare, fa di tutto per attirare l’attenzione.

Incuriosito, si era avvicinato e … li aveva visti.

Vide Giandomenico ed Elisa nudi sull’erba che si stavano esibendo in un repertorio hard di tutto rispetto e ci davano dentro profondamente ispirati.

Il suo fiore delicato e prezioso si era improvvisamente trasformato in una lama affilata affondata nel cuore.

«È questo il bucato, brutta…?» sbucò fuori urlando a pugni chiusi. I due erano scattati in piedi ma Vito, furente, si lanciò verso di loro.

Lei iniziò ad urlare: «No, no Vito. Non è come tu pensi. Ti prego, non fare così… adesso ti spiego. Non passare alle conclusioni».

«E che c’è da spiegare, brutta … mi tratti pure da stupido?».

Erano volati schiaffi, pugni ed insulti mentre lei gridava stridula pregandoli di smetterla.

Nei giorni seguenti i segni della battaglia sui loro volti fornirono un gustoso motivo per spettegolare a tutto il paese.

Ovviamente quella storia d’amore dolorosamente finì e lui si ritrovò sotto sguardo di compatimento e derisione di tutti, compresi gli amici.

«Mai ti devi innamorare. Le donne? Solo a far figli e dentro casa a calci in culo a lavorare», fu il consiglio di suo padre una volta a conoscenza dello scorno da lui subito. Ma lui era di un’altra pasta, non avrebbe mai ridotto una donna come lui aveva fatto con sua madre.

Aveva freddo nel corpo e nel cuore. Prese la giacca e se la appoggiò addosso a mo’ di coperta, volse lo sguardo al paesaggio che correva via. Poi piano, piano tali brutti pensieri si acquietarono; arrivarono un po’ di sonno e di ristoro.

«Si, la prossima è Senigallia». Un uomo dalla voce possente passava per il corridoio trascinando rumorosamente un trolley rigonfio e pronto all’esplosione.

Dietro lui una donna andava blaterando a voce alta non si capiva che.

Vito aprì indolente gli occhi e guardò fuori.

Lo spettacolo del sole che spuntava tra mille guizzi di luce sul mare lo trafisse di brividi indolenti e profondi. Lo sbadiglio che gli affiorò alle labbra fu quasi un vagito di qualcosa di nuovo e vitale che rinasceva in lui.

«Nuovo sole, nuove emozioni e quindi nuova vita», si disse trascurando del tutto la logica delle implicazioni. Ma almeno, dopo diversi giorni, sorrise. Tra un’ora circa sarebbe sceso a Rimini.

Romagna Mia

Quale terra più della Romagna richiamava l’idea della giovialità e della voglia di vivere? Per lo meno nell’immaginario collettivo, era così. E Vito si aspettava una sorta di Las Vegas trecentosessantacinque giorni all’anno, piena di luci e vita.

Non aveva però fatto i conti che era ottobre inoltrato.

«Scusi, signore, quale strada debbo prendere per andare sul lungomare?».

Aveva fermato un tale sceso da un furgone di una pasticceria che stava facendo le consegne.

«Eh , ma lo sai che sei fortunato?».

«Chi, io? E quando mai!».

«Debbo fare una consegna proprio allo chalet “Dalla Armanda”. Se aspetti ti accompagno, però prima ho da consegnare della merce a due bar».

E poi nel furgone: «Che devi fare sul lungomare, che oramai non c’è più niente?».

«Vorrei trovare un lavoro e un alloggio».

«Eh, amico, la stagione non è quella buona! Guardati intorno: case sfitte, alberghi e pensioni vuote, chalet chiusi. Giusto la Armanda e pochi altri tengono aperto per la stagione invernale. Vediamo se ti potrà dare una mano. La Armanda, si sa, è molto generosa, specie con i bei ragazzi giovani come te”.

Così, una cordiale e prosperosa signora di mezz’età lo accolse come lavapiatti e gli dette la possibilità di dormire nel deposito degli attrezzi.

Appena arrivava di mattina per aprire lo chalet passava a bussare al deposito per chiamarlo.

«Ehi, Vito, è ora che ti alzi, il gallo ha già cantato».

Una mattina però se la trovò vicina alla sua brandina che lo guardava fissamente con un’aria strana.

«Buon giorno, Armanda. Sei entrata perché non mi svegliavo?».

«Ma no, avevo voglia di vederti addormentato e di svegliarti piano, piano… dolce, dolce».

Vito scattando come una molla saltò fuori dal letto in preda a un acuto senso di imbarazzo.

«Ma che fai, Armanda!».

Era la stessa sensazione che aveva provato anni prima, al tempo della squadra di pallone all’oratorio.

Quella volta che era da solo in sagrestia con don Luigino.

«Dai, ti aiuto io ad infilarti la nuova divisa della squadra» , gli aveva detto sorridente il prete, ed intanto aveva allungato le mani sulla zip dei suoi pantaloni.

Un’altra volta, poi, gli aveva detto: «Lo sai che i tuoi riccioli sono come quelli degli angioletti?».

Quindi aveva infilato le sue dita grassocce tra di essi facendole scorrere fino ad accarezzargli le gote mentre ansimava leggermente ed il suo volto si faceva un po’ rosso.

Era un bambino, allora, ma percepiva che tutto ciò non era affatto cosa buona e che avrebbe dovuto scappare via. Invece subiva quelle molestie per rispetto dell’autorità e del ruolo, come d’altra parte gli avevano sempre detto dovesse fare un bravo bambino ubbidiente.

Così gli era rimasta addosso quella sensazione sgradevole che si ripresentava non appena si scatenavano certe emozioni.

Il sesso gli appariva sporco ed alieno, perciò si era determinato a poterne vivere senza.

Ma ora l’Armanda era rimasta pietrificata e sbatteva le palpebre ripetutamente quasi volesse cancellare la visione di quella reazione, secondo lei, esagerata.

«Pensavo di farti cosa gradita ma mi guardi quasi fossi il demonio…».

«Sarebbero bastati un caffè con brioche», replicò con strana prontezza Vito.

E appunto, un caffè con brioche fu la paga che ricevette.

Mezz’ora dopo Vito stava passeggiando sulla lunga ed ampia spiaggia riminese, di nuovo libero.

Camminò un bel po’ scalciando conchiglie e giocando al rimbalzo sulla superficie del mare con ciottoli piatti e levigati, non come i suoi che erano tondeggianti ed irregolari.

Era ormai arrivato al porto canale dove in un chiosco acquistò dell’acqua minerale, e si sedette su di una panchina.

Aprì il borsone e prese i suoi sassi, se li rigirò per un po’ tra le mani e credendosi da solo parlò loro come se fossero viventi: «Mi siete testimoni ora come lo foste al paese. Conoscete la mia storia. Vi giuro che anche se mi ci vorrà tanto tempo, farò di tutto, tornerete a casa».

Un signore che passeggiava con il cane, vedendolo parlare da solo ai sassi, scosse la testa, poi, rivolto al suo cane, disse a voce alta:

«Lo senti Mirò? Quando sentirà addirittura che gli rispondono, il cervello gli sarà arrivato a cottura».

Già! Non era ancora arrivato a cottura né a destinazione .

Bologna

Aveva ancora dei soldi, acquistò un biglietto per Bologna, crocevia del Nord ove intendeva fermarsi e da dove, con facilità, avrebbe potuto recarsi ovunque qualora avesse cambiato idea.

Si, Bologna gli suonava bene, aveva un che di rilassante e cordiale già nel suono del suo nome Bo-lo-gna .

E lo andava mentalmente ripetendo scandendolo: Bo-lo-gna… gna, gna… non può certo essere cattiva Bologna!

E poi che aveva detto la maestra a scuola? Ah, si : «Bologna la grassa, la dotta, la rossa».

E nella sua fantasia la raffigurava come una donna fulva dalle forme assai piene, materna ed accogliente, un grosso saporito tortellino.

Era certamente un ragionamento del tutto strampalato il suo, ma ne traeva in qualche modo conforto.

Intanto parecchi giovani quasi suoi coetanei e probabilmente universitari trascinando i trolley si stavano avviando verso l’uscita per prepararsi a scendere.

Infatti di lì a poco il fischio del treno e il suo rallentare deciso, accompagnato dallo stridore dei freni, lo catapultarono in un mondo accelerato e sconosciuto.

Saltò giù dal predellino quasi si tuffasse in mare da un pontile e si fermò poco più in là tra i binari 5 e 6, in preda ad una sorta di vertigine.

Se ne stava lì, avvolto come una mosca in una ragnatela, inghiottito, risucchiato, sospeso, perso.

Fermò un ragazzo: «Per favore, dov’è l’uscita?».

E l’altro con aria costernata: «En ymmärrä sinua! Io finlandese».

Ci riprovò con una ragazza: «Da dove si esce?» e lei: «Žao mi je. No italiana».

Alla fine ce la fece ad uscire da quel dedalo e si ritrovò nella sala principale ove rimase a bocca aperta nel guardare il grande tabellone degli arrivi e partenze posto in alto.

Ecco, tutto il mondo era lì, ad uno schiocco di dita a patto di avere i soldi necessari, un passaporto ed essere maggiorenne.

Niente di più lontano dalla sua attuale situazione, però.

Uscì sulla piazza prospiciente la stazione dove stazionavano taxi, auto in temporanea sosta e giù in fondo gli autobus 32 e 33 che percorrevano i viali in senso contrario l’un l’altro.

Aveva in tasca oramai solo 10 euro e doveva perciò pensare bene come impiegarli. Si sedette su un cordolo posto a delimitazione dello spazio verde davanti alla stazione, con il borsone tra le gambe.

La scritta “Vis Latèri Football Club” sul borsone lo riportò alla squadra del suo paese messa su da don Luigino.

Che Dio lo sbatta all’ inferno, pensò serrando i denti, Non ho potuto giocare a football per colpa sua eppure avevo tanti amici lì tra cui Mario Filippo,Teodoro.

A proposito di Teodoro …

Già, stava proprio con Teo davanti al bar “Los Gringos” quando gli disse:

«Non posso uscire dopo cena perché abbiamo per ospite uno zio frate e mamma lo sai com’è fatta».

«E da dove esce fuori questo?».

E Teo ridendo «Non ti ho mai parlato di zio fra Mortadella?».

«Mortadella…. Cotechino… Prosciutto… ma che dici?».

«Be’, si chiama fra Clemente, è un frate francescano e sta a Bologna. E sai com’è … dici mortadella, dici Bologna».

E poi aveva continuato: «Mi ha detto che m’avrebbe portato da lassù una mortadella a forma di pallone così se giocando non faccio goal poi l’ affetto e mi consolo. Se lo vedessi… è un tipo molto buono e simpatico».

Ecco, pensò, forse quella era la soluzione .

Avrebbe cercato zio Fra Mortadella.

Fra Mortadella

In verità non dovette tribolare troppo in quella ricerca perché, attraversato il piazzale della stazione e proseguito dritto per via Marconi, sulla sinistra si trovò di fronte la Basilica di San Francesco con annesso il convento.

Era una grande costruzione la cui facciata a capanna tripartita da lesene presentava un portale decorato da bassorilievi marmorei; la sua maestosa semplicità lo lasciò a bocca aperta.

Davanti stazionavano alcuni gruppetti di giovani un po’ più grandi di lui, forse universitari, e qualche “punk-a-bestia” ma nessuno di loro sembrava essere interessato alla Basilica, sembrava piuttosto che avessero eletto quel piazzale a loro punto d’incontro.

Entrò in chiesa a cercare fra Mortadella.

Rimase a bocca aperta davanti alla luminosa lineare verticalità delle tre navate caratterizzate da volte altissime, tipiche dello stile gotico.

Niente di paragonabile alla chiesa di S. Liborio patrono di Latèri, che era stata edificata in stile barocco ed in cui prevalevano le linee curve, i decori, la ricchezza dell’ornamento tipica di una chiesa rivolta al “temporale”, alla rappresentazione teatrale.

Vito era digiuno di storia dell’arte, ma di fronte a tanto slancio verso l’alto percepì una tensione verso la spiritualità in un modo grandioso, semplice e sincero come mai visto prima.

In una delle cappelline absidali un celebrante stava agli ultimi passaggi della messa. Si sedette su di un banco deciso ad aspettare che terminasse.

«Scusate, in questo convento c’è un frate che si chiama fra Clemente?».

«Si, certo. Cosa vuole da lui?».

«Niente… gli potrebbe dire che sono un amico di suo nipote Teodoro e che vorrei parlargli un attimo?».

«Certo. Ora ho da riporre questa roba e poi vado in convento e se c’è glielo dico. Di solito a quest’ora sta preparando il pranzo».

Passarono pochi minuti ed ecco arrivare dalla sagrestia fra Clemente.

A passo lesto, col suo pancione nel saio nero legato da un cordone bianco a tre nodi, si dirigeva verso di lui sorridendo, per nulla infastidito per essere stato interrotto.

Aveva un faccione bonario alla Babbo Natale su cui brillavano occhi grandi e chiari. non piccoli, scuri e sfuggenti come quelli di don Luigino.

Sembrava quasi felice di incontrarlo, eppure non lo aveva mai visto .

«Mi cercavi? Conosci mio nipote?».

«Sì, siamo amici ed una volta mi ha parlato di lei. Mi chiamo Vito Calise e sono il figlio di Tano Calise, il netturbino». E dicendo ciò aveva abbassato lo sguardo con voce spezzata.

«Ah!» fece Fra Clemente, «ho capito. Lo conosco bene tuo padre».

E lo guardò dritto negli occhi in un modo talmente indagatore da fargli immaginare che lui conoscesse veramente a fondo suo padre e sapesse quindi di cosa fosse capace.

«Ti ha fatto del male, vero?». Vito, che non poteva negare, abbassò lo sguardo.

«Eravamo compagni d’infanzia. Non era certo cattivo da piccolo, ma crescendo l’abuso di alcol ed un paio di cattive amicizie lo hanno indurito e reso così. Da ragazzi ci siamo frequentati per qualche anno e condiviso sbornie e divertimenti. Poi, un giorno, io mi sono guardato dentro ed ho visto solo un gran deserto. Entrai in crisi finché un angelo, forse, mi ha toccato il cuore, ed ora eccomi qua. Ho rivisto tuo padre la scorsa estate ed ho capito che la sua strada è stata ben diversa dalla mia».

Allora Vito prese il coraggio e raccontò d’un fiato d’essere scappato di casa e che non voleva assolutamente tornare indietro. Poi:

«Per favore, padre, mi potrebbe ospitare per un po’ fintanto che non trovo un lavoro?».

Il frate rimase in silenzio un attimo tenendosi il mento barbuto con una mano.

«Quanti anni hai, Vito?».

«Diciotto tra sei giorni… la prego, non chiami mio padre».

«Hai un titolo di studio?».

«Purtroppo no, padre, non ho terminato le scuole medie».

Evidentemente fra Mortadella si rese conto di quanta disperazione vi fosse dentro quegli occhi supplici perché, seppure non proprio convinto, disse:

«C’è giusto un posto in foresteria, quindi potrai rimanere qui per qualche tempo finché non troverai altro. Potrai sdebitarti svolgendo lavori di pulizia e manutenzione nel convento. Che ne pensi?».

E c’era forse da chiederlo? Poco mancò che Vito non abbracciasse fra Mortadella profondendosi in mille “Grazie, grazie, grazie!”.

«Aspetta con tutti questi grazie… e magari completi gli studi non appena sarai nelle condizioni legali per farlo» aggiunse il frate, e Vito annuì.

Alla foresteria si accedeva dall’ingresso al convento e costituiva un nucleo separato dal convento vero e proprio. Era destinata all’accoglienza di ospiti, pellegrini ed a volte anche di persone bisognose.

La camera a lui destinata contava di un letto, un armadio a due ante, un tavolo, una sedia ed un comodino, tutto assai spartano e funzionale.

Aprì il borsone con quelle quattro cose che aveva arraffato, la foto della Comunione con sua madre e sua sorella Ines ed i quattro sassi.

Li prese e li ripulì con cura perché li aveva raccolti in fretta da terra scappando, li strofinò con tanta energia quasi da lucidarli, poi li dispose ben allineati sul davanzale, lì dove avrebbe potuto osservarli quando, disteso sul letto, avrebbe guardato il cielo attraverso la finestra.

Sì, loro erano i testimoni di ciò che era stato, e avrebbero dovuto ancora esserlo di ciò che avrebbe realizzato lui, nella sua ferma determinazione di ricostruire sé stesso e la sua vita.

Certo, l’avere lasciato la scuola senza neppure aver completato le medie inferiori purtroppo non lo qualificava nella ricerca di un lavoro…

Era successo che la famiglia lo aveva subito avviato al lavoro ai primi insuccessi scolastici alla scuola media.

Al riguardo la maestra elementare era stata già brutalmente chiara e lo aveva previsto:

«Signor Scalise, Vito è scarsamente portato allo studio, privo di interessi e curiosità culturali. Sarà meglio avviarlo ad imparare un mestiere manuale» .

Era stato come dire: «Inutile spendere soldi e tempo perché non ha le capacità necessarie».

Una maestra all’antica, di quelle che usavano il righello per vergare le mani all’inadempiente e che strillava di continuo minacciando ed attuando punizioni corporali, una, insomma, che al giorno d’oggi sarebbe passibile di arresto immediato.

Aveva imparato la tabellina a furia di punizioni, ricordava.

Eppure aveva voglia di apprendere, se non altro per potersi trovare un lavoro migliore e dare prova di quelle capacità che suo padre gli negava sistematicamente, fino a corrodergli quel filo di flebile autostima e di orgoglio che lo teneva ancora in piedi. E complice di questo fallimento era stata in buona parte l’insensibilità rigida ed impersonale della eppur da tutti stimata maestra Giorgia Filandro, che non aveva mai avuto per lui la benché minima parola di incoraggiamento.

E ricordava il sorriso maligno di suo padre che aveva accolto le parole della maestra quasi con soddisfazione, come per dire «Visto che la pensa come me?».

Maledetti adulti dalla sensibilità d’una pietra, pensò.

Poi, si girò su di un fianco e finalmente, a poco a poco, il sonno scese su di lui.

A Latèri, intanto

In quel borgo di 700 anime arroccato sulla collina, Tano Calise, uomo traccagnotto ma muscoloso, stava tornando per pranzo con la tuta arancione ancora indosso e l’aria di chi si riporta a casa ogni malumore dell’ambito lavorativo. Stava per entrare in casa quando ecco arrivare in bicicletta Rinaldo, l’amico più caro di Vito e figlio dell’unico fornaio del paese.

«Scusa, Tano, che c’è Vito in casa?».

«No e non so dove se l’è portato il demonio. Spero solo che ci rimanga all’inferno. Anzi, se lo senti, digli da parte mia che appena lo vedo gli faccio quello che ha provato a fare, però meglio. E lui, sta sicuro, capirà, oh se capirà!».

E detto ciò era entrato sbattendogli la porta in faccia per rendere ancora più espressivo il suo malumore.

Rinaldo restò un attimo perplesso: un tipo mite come Vito che subiva e taceva, che non alzava mai la voce, che cosa mai poteva aver fatto?

Intanto Tano Calise, era entrato in casa, s’era buttato sulla poltrona del soggiorno e brontolava.

«Non voglio più neppure sentire il suo nome. Capito?».

Dalla cucina nessuna risposta; la moglie a quell’allusione era restata immobile, con la testa bassa e le mani agitate a torturare qualche strofinaccio. Ma poi:

«Nena, è pronto? No?».

«E lo sai che tra un ora rientro al lavoro. Ma che cavolo fai tutta la mattina… pensi solo a guardare la televisione e a chiacchierare con quella puttana di Irene qua vicino che sta sempre alla finestra ad aspettare clienti. E che ti ci vuole a preparare due spaghetti! Brutta troia pure tu! Lo capisci si o no? E che ti costa farmi trovare pronto un piatto di pasta? Lo sai che lo voglio bello pronto a tavola quando arrivo. Ti piace fare la zozza signora con i soldi miei, vero?».

Lei non gli rispose perché tanto lo sapeva come sarebbe finita la storia.

Sia che avesse risposto e sia che non lo avesse fatto, lui sarebbe arrivato, le avrebbe afferrato i capelli costringendola a piegarsi fino a farle perdere l’equilibrio e poi le avrebbe dato uno schiaffo e poi un altro ancora.

«E mi vuoi rispondere, inutile idiota?».

Una volta Vito l’aveva difesa, ma il padre s’era imbufalito peggio ancora e lui ne era uscito fuori con un labbro spaccato.

Quella cicatrice fisica si univa a quelle nell’animo che erano sempre presenti, ma quella la sentiva con la punta della lingua nel parlare, non poteva ignorarla neanche per un attimo.

Era una miccia di un’esplosione repressa troppo a lungo che poi in un giorno come tanti altri era deflagrata…

«Anche oggi penne al pomodoro, uffa. E poi, sai che ti dico? Vieni qua ed assaggiane una forchettata. Non mi fido più manco di te e così, se stavolta sei stata tu a metterci qualcosa, ti voglio vedere morire lentamente».

Era successo che Vito qualche giorno prima aveva preso in garage del veleno per i topi e lo aveva messo nel piatto di spaghetti fumanti che sopra al tavolo erano pronti per suo padre.

Aveva aspettato di vederlo in preda ai dolori, poi era fuggito senza aspettare che morisse mentre sua madre impazzita gli aveva gridato: «Che hai fatto! Via, via, scappa via».

Ma Vito aveva sbagliato il dosaggio, lo seppe il giorno dopo telefonando a casa ed aspettando di sentire la voce di sua madre prima di parlare.

Infatti suo padre, ai primi segni di bruciore in bocca e gola s’era indotto il vomito limitando i danni a qualche piccola lesione.

Nei giorni seguenti i dolori gli erano passati abbastanza rapidamente ed aveva ripresa la sua vita un po’ più cattivo di prima, mentre Vito con quella azione s’era trovato di colpo a passare dalla parte della ragione a quella del torto.

Quindi non poteva e non voleva più vivere lì, a Latèri.

Ed era stato così che era corso in camera, aveva arraffato qualcosa con cui cambiarsi durante la fuga, aveva rubati i soldi dal borsellino e poi, dopo aver sbattuta la porta, aveva raccolto d’istinto quattro sassi mentre dalla finestra sentiva le urla del padre e le grida strozzate della madre .

Ed era scappato. Su di lui si era richiuso un muro di silenzio e per molto tempo nessuno ne seppe più nulla.

DIECI ANNI DOPO

L’evoluzione

Il rombo di un’auto proveniente dallo spazio antistante l’ingresso ridestò Teresa dal torpore serale dopo un pomeriggio trascorso in giro con Silvia, la sua amica esperta di shopping.

Il tempo di alzarsi e già Vito era nell’ingresso.

«Ciao, oggi è stata una giornata di fuoco: un cinquantesimo di matrimonio più una Comunione oltre a vari altri gruppetti».

«A chi lo dici. Avrò fatto due chilometri a piedi per negozi con quella benedetta Silvia, ma sai com’è selettiva e non le va mai bene niente. Piuttosto, prima che me ne dimentichi, poco fa ha telefonato un certo Torresi della “Eye Investigation” ed ha detto che avrebbe richiamato tra un’ora».

«Ah, già, dovrebbe darmi il risultato. Oramai è più di un mese che l’ho incaricato».

«Sei sempre deciso a farlo?».

«Sì, più che mai. Ritengo di essere pronto».

«Ma adesso su, via, rilassati e godiamoci questa serata speciale».

«Oddio, sono un somaro! Oggi è il nostro anniversario».

Erano già due anni ma gli sembrava ieri quando l’aveva conosciuta nel ristorante-piadineria che aveva aperto con il socio cinque anni prima.

Lei, studentessa in biologia, era lì con amici per un compleanno ed avevano parlato di ricette ed usanze, poi era tornata ancora e…

Quel locale stava avendo un buon successo, pienissimo sempre perché oltre alle specialità emiliane proponeva anche primi piatti pugliesi in un mix di cibi tradizionali alquanto originale e, a quanto pareva, gradito soprattutto se annaffiato da un buon bicchiere di Terra d’Otranto.

E la loro era stata una storia cresciuta piano piano, passando per l’amicizia e la fiducia fino all’innamoramento.

Teresa non aveva alcunché che gli ricordasse Elisa, ed ogni cosa era accaduta senza più le ombre ed i tormenti che gli erano stati impressi sulla sua pelle dalle luride mani di don Luigino. Con lei si era tolti dal cuore due macigni.

«Avrei dovuto portarti fuori … magari a ballare ma, nel tuo stato forse è meglio di no».

Lei abbassò lo sguardo e si accarezzò il pancione ormai decisamente evidente.

«Ma no, dai, oggi è perché sono stanca, sennò un po’ di moto si può sempre fare».

E poi sorridendo, rivolta al bimbo:

«Eh lo so che tu, piccolino, diventerai un grande ballerino o un famoso calciatore, a giudicare da quante capriole fai e da quanti calci potenti tiri».

In quel mentre squillò il telefono, era Torresi.

«Sì, può venire domani al ristorante alle 15, così potremo parlare con calma».

Poi, rivolto alla moglie: « Ha finalmente le informazioni relative a quei tre nominativi, poi deciderò cosa fare».

Doveva pareggiare i conti con chi gli aveva segnata così pesantemente la vita, per perfidia o per incapacità che fosse.

Anni prima aveva spesso fantasticato su punizioni esemplari, esposizioni al pubblico ludibrio, rivalse di gran lunga più dolorose delle offese e tutte immancabilmente seguite da strazianti ed umilianti richieste di perdono da parte dei colpevoli, come solitamente viene rappresentato nelle peggiori sceneggiate.

Poi il tempo aveva smorzato un po’ tutto quel livore man mano che la sua autostima si andava ricostruendo e la sua nuova vita consolidando.

Prima c’erano state le scuole serali, come aveva promesso a fra Clemente, ed aveva recuperato gli anni scolastici, poi aveva frequentato vari corsi: da cuoco, da pizzaiolo, da sommelier.

Aveva avuto modo di conoscere gente, di farsi apprezzare e quindi l’occasione per inserirsi con successo insieme ad un socio nel settore della ristorazione.

«E di tuo padre hai chiesto informazioni?» chiese lei.

«No, lo voglio affrontare da solo, senza informazioni che mi mettano sull’avviso, faccia a faccia. »

Poi tacque preso da pensieri che lo portavano lontano, mentre in una sorta di tic si passava e ripassava la lingua internamente alle labbra.

Il giorno seguente, puntualissimo, l’investigatore Torresi arrivò alla piadineria dove fu accolto da un Vito abbastanza ansioso. Com’era trascorsa la vita per chi così pesantemente aveva gravato sulla sua? E come avrebbe potuto ripagarli con gli interessi?

Si sedettero ad un tavolo un po’ appartato, a scanso di qualche imprevista interruzione.

«Allora, signor Calise, a dire il vero, non è stato facile».

«Non sarà mica, con questa premessa, che lei vuole tirare su il costo del servizio?».

«No, mi creda. Il paese è talmente piccolo che la mia presenza è stata subito notata. Avevo sempre l’impressione che qualcuno mi stesse osservando. E pensare che sono sempre io quello che osserva di nascosto, ma in questo caso ero io l’indagato».

«Quindi non ha potuto avere le informazioni?» .

«Le ho ma ho dovuto ricorrere al vecchio trucco del “compagno d’armi”».

«Mi spieghi».

E sorridendo soddisfatto per la propria furbizia: «Ho preso un cognome letto su un campanello qualunque del paese: Mesiri. Poi mi sono inventato un commilitone, l’ho chiamato Luigi Mesiri e sono entrato dal barbiere per chiedere se lo conoscessero. C’era il rischio che esistesse davvero un tizio rispondente a quel nome ma sono stato fortunato».

« E poi?».

«Sciolto il ghiaccio iniziale ho iniziato a raccontare che Luigi Mesiri era parente di una certa Elisa e ce l’aveva a morte con un certo don Luigino, e così ho portato il discorso altrove, dove volevo».

«Ah, si, me lo ricordo Tonio, il barbiere, detto Radio Latèri International di tutto, di più ed oltre l’immaginabile».

E Torresi: «In fin dei conti nei piccoli centri gli abitanti sono un po’ sospettosi ma hanno anche di solito una gran voglia di chiacchierare, ed il controllo dei fatti altrui condito da una bella dose di veleno è piuttosto diffuso. Ma non so se ciò sia peggio dell’indifferenza e della freddezza della città, mah!».

«Insomma… è stata dura, ma eccole il lavoro diviso in tre fascicoli. Buona lettura, e quando lo desidera sono sempre a sua disposizione».

Vito pagò per il servizio, poi prese la busta sigillata.

La guardò per un attimo, tentato di leggerne subito il contenuto, poi si decise a farlo in un luogo più tranquillo, al rientro a casa.

La busta

Si fiondò sulla poltrona del salotto, appoggiò la busta sul tavolino lì davanti dopo averci disposto tre dei sassi e sospirando si disse che era giunta l’ora di riallacciare i fili con ciò che era stato, mettere a nudo le cicatrici dell’anima anche a costo di vedervi riaprire vecchie ferite. Oramai era abbastanza forte, doveva chiudere i conti col passato se voleva vivere sereno il proprio futuro.

I nodi andavano sciolti per sé, per sua moglie, per suo figlio.

La sua esitazione si dissolse all’invito della moglie.

«Coraggio, leggilo a voce alta».

Aprì e lesse:

«Soggetto indagato (A): Giorgia Filandro.

La signora Filandro, maestra elementare pensionata da 15 anni, nubile, è ospite della casa di riposo “Villa Angelica” nel limitrofo comune di Satanello sul Licheo.

Recatomi presso quella struttura, previo adeguato “omaggio monetario” ad un paio di inservienti, sono venuto a conoscenza che la signora è affetta da demenza senile ed è soggetta a visioni di natura pseudo-mistica in cui riferisce di vedere e parlare con Santa Maria Montessori, che tra l’altro non appartiene alla cerchia dei santi secondo la Chiesa cattolica.

La suddetta Santa le appare impugnante blocchi logici con la mano destra mentre la sua sinistra è protesa a mo’ di carezza materna. Un effluvio di luce, luce della conoscenza, si irradia intorno mentre le comunica il suo nuovo metodo per l’insegnamento del Catechismo. E lei, umile maestra elementare, è l’entusiasta prescelta a tale scopo.

La signora Giorgia trascorre gran tempo a recitare il rosario e a vergare su di un blocco notes i messaggi che quotidianamente Santa Maria Montessori le invia, ed alterna scrittura ad una lieve auto-flagellazione mediante una rosa finta che tiene costantemente innanzi al ritratto della santa.

La fama della sua “santità” si è diffusa nei paesi vicini ed il personale si trova a volte in difficoltà nel gestire l’arrivo di vari devoti che desiderano assistere alla Rivelazione.

C’è infine da dire che la signora Filandro non ricorda nulla della sua vita lavorativa precedente in quanto, come lei dice, si è spogliata della vecchia pelle per indossarne una di luce e di verità».

Vito guardò perplesso sua moglie e, scuotendo leggermente la testa, disse :

«Probabilmente i segnali c’erano già prima, ai miei tempi, ed erano riconoscibili in certe sue fissazioni o impuntature su fatti mai accaduti. Che io sia stato vittima di uno dei suoi deliri?».

E lei: « Direi che è ridotta davvero male. Prendersela con lei sarebbe come sparare sulla Croce Rossa. Ma vai avanti,continua a leggere».

« Soggetto indagato (B) : don Luigino Perticarà.

Il sacerdote in oggetto risulta provenire da una precedente parrocchia, quella di Raccanò,dove era stato oggetto di insistenti voci circa il suo comportamento nei confronti di alcuni piccoli parrocchiani.

Il sacerdote, per nulla intimorito da codesto spostamento, ha continuato con tali atteggiamenti e pratiche anche nel comune di Latèri finché, quattro anni fa, in seguito ad ulteriori rimostranze al vescovo, non è stato nuovamente comandato alla parrocchia di Roccadura, sempre nella stessa diocesi.

Qui, probabilmente contando sulla paura per lo scandalo delle famiglie e sulla complicità di altri squallidi figuri, ha ripreso a compiere gli stessi atti finché un giorno, procedendo in bicicletta su una stradina di campagna, non si è trovato innanzi un padre infuriato ex campione di boxe ed un fratello maggiore esperto di arti marziali.

Fatto sta che lo hanno ritrovato seduto al bordo della strada con numerose ecchimosi e fratture. Ne ha avuto per due mesi d’ospedale durante i quali ha sempre affermato di essere caduto dalla bicicletta, ma tutti sanno come sono andati realmente i fatti.

Attualmente a don Luigino sono stati imposti dieci anni di esercizi spirituali presso l’eremo di San Vittore sia perché esso risulta praticamente inaccessibile ai laici e sia perché il nome gli sia di monito circa la sua prossima residenza in caso di recidiva».

«Ah ah ah, che gusto incredibile ne ho!», esclamò Vito ridendo.

«Avrei voluto trovarmi anch’io su quella stradina, che Dio lo … lo stramaledica. Insomma, ci ha pensato qualcun altro e gliene sono estremamente grato. Anzi, gli darei una medaglia al valore. Magari lo avessi avuto io qualcuno che mi avesse protetto!».

«Ed ora, cara moglie, vediamo cosa ne è stato di quella stronza».

«Soggetto indagato (C): Rienze Elisa

Il soggetto, di anni 28, risulta sposata da sei anni per procura con tale Tonio Affè di anni 49, immigrato da 20 anni in Canada. È madre di due bambini di tre e cinque anni sulla cui paternità si formulano varie e fantasiose ipotesi.

Si vocifera poi, che il signor Affè ne disconosca la paternità per evidenti impossibili miracoli a cavallo dell’Oceano Atlantico e che non intenda saperne alcunché. La giovane, sulla cui condotta privata da una decina d’anni girano voci negative a seguito di uno scandalo, sembra priva di un vero e proprio reddito da lavoro se non quello proveniente da, diciamo, regalie guadagnate nel suo “essere a disposizione” di virili bisogni e di revival sessuali di abitanti sia della zona che della provincia tutta.

Pare infatti abbia maturato al riguardo una considerevole ed apprezzata professionalità. Allego n° 4 foto di “visitatori” che dalle 21:00 alle 24:00 dello stesso giorno si sono recati al suo domicilio e n° 2 foto di lei sulla soglia di casa mentre li accoglie in super sexy negligé».

Certo, pensò Vito, io dovetti affrontare lo scorno, ma anche lei ne sarà uscita a pezzi da quella storia. Basta un errore e sei catalogato, bollato a vita, e se poi sei una ragazza scivolare al livello di “ragazza facile” e poi a quello di puttana è proprio un soffio. Le cose sono cambiate oggigiorno, ma in certe zone l’approvazione sociale è essenziale e se non l’hai sei relegato a prodotto di scarto.

«Insomma, Teresa, si sono ridotti l’uno peggio dell’altro e senza che abbia mosso un dito. Prima o poi tutti pagano il conto, però ora mi sento come svuotato e provo solo tanta tristezza per aver perso i miei anni migliori per colpa di certi individui».

Prese in mano i tre sassi e pensò: per loro è giunto il momento di ritornare a casa, non mi pesano più sul cuore.

Poi scrisse i tre indirizzi sopra a tre buste imbottite, infilò un sasso in ciascuna di esse unitamente ad un biglietto non firmato con su scritto a caratteri cubitali : “Non hai più la mia rabbia”.

Non importava se i destinatari avrebbero capito, probabilmente non lo avrebbero fatto. Quello era un atto liberatorio che faceva per sé.

Verso casa

Correva a velocità sostenuta sull’A14, solo ma accompagnato da mille pensieri.

«Conto di star fuori un paio di giorni, non di più » aveva detto a Teresa, e lei:

«Hai chiaro cosa fare e cosa cercare? Perché, vedi, in questi anni hai sempre evitato di spiegarmi come intendi affrontare la questione. Hai fatto come lo struzzo ed io ho paura che tu possa reagire male a ciò che troverai e ti possa cacciare nei guai».

«No, no, non temere. Ho il controllo della situazione. Pensa piuttosto a star bene tu e di conseguenza il bambino».

Così aveva messo un solo cambio di vestiti nella 24 ore che teneva nello sgabuzzino accanto al vecchio borsone con cui era arrivato a Bologna e di mattina presto era partito.

Cosa farò, non lo so, pensava, dipenderà tutto da ciò che troverò al momento. E mia madre, che ne sarà stato di lei? Cosa le dirò?

Anche lei aveva le sue colpe, certo.

Ogni volta che riceveva la sua dose di botte sapeva, pur non vedendola, che lei si sarebbe fermata un attimo, con la testa bassa e le mani agitate a torturare qualche strofinaccio. Ma sarebbe restata lì, zitta, facendo finta di niente e sperando che le cose non peggiorassero e andassero a posto da sole.

Ma anche lei era una vittima.

Tuttavia, ripensandoci, non sapeva se allora gli avessero fatto più male quegli schiaffi o quel silenzio.

Tra ricordi che ritornavano sotto forma di frammenti sempre più nitidi e frequenti, andava formulando ipotesi e soluzioni con ansia crescente man mano che la distanza da casa diminuiva.

Si fermò all’ultimo autogrill prima dell’uscita per un caffè e si guardò intorno.

Quei monti, quella vegetazione, quell’aria che ora respirava a pieni polmoni…

Si, erano casa sua.

Sentiva quasi una vibrazione nell’aria tutta intorno, coerente con il fluire del suo sangue ed il respiro. Lui era lì, con il suo cuore nudo e pieno d’ansia, apparteneva a quel vento e a quella luce.

Vi si immerse e per un attimo ci si perse, sciogliendo in sé ogni ritrosia e negazione.

Ma si stava facendo tardi ed era ora di ripartire.

Dopo una mezz’ora era arrivato a Latèri; poche curve, poche case ed era già in Piazza Garibaldi, l’unica del paese da cui una viuzza in salita portava al centro storico ove, in una fila di abitazioni adiacenti, c’era casa sua.

Parcheggiò accanto al bar “Los Gringos” gestito da Mario, grande estimatore di film spaghetti-western.

Come al solito davanti ad esso erano seduti per la consueta partita a briscola alcuni anziani e giovani in pausa dalle loro consuete attività.

Il suo arrivo era stato immediatamente notato, tanto che tutti e quattro i giocatori stavano osservandolo con sguardo indagatore.

Poi ecco ad un tratto una voce, un’esclamazione provenire forte da lì:

« Ma… ma… oh, che sorpresa! Ma non sei Vito?».

Certo, un inizio di calvizie e un po’ di pancetta fanno la differenza, ma quello era proprio Teodoro che si era alzato, gli era andato incontro ed ora lo stava abbracciando.

«Vito! Quanto tempo! Ma dove cazzo eri finito? Sei sparito senza dire niente. Sapessi quanto sono stato preoccupato per te».

Ed ora anche gli altri si stavano avvicinando per salutarlo e tempestarlo di domande.

Ma Vito aveva un groppo allo stomaco e finché non avesse affrontata la faccenda per cui era lì non aveva affatto voglia di saluti e convenevoli.

Ed in mezzo a tanta calorosa accoglienza riuscì solo a dire:

«I miei?». Già, i suoi .

Mentre procedeva in su per la stradina, Teodoro lo seguiva e continuava:

«Adesso lo dico anche agli altri e poi ci ritroviamo tutti a casa mia. Vieni? Ti aspetto, dai».

Ma Vito non ascoltava.

Il suo cuore era come impazzito mentre con lo sguardo seguiva le forme, i colori dei mattoni, ogni crepa e buca nei muri che conosceva a memoria.

Ecco, era arrivato alla porta, a quella porta di cui sentiva ancora nitido il rumore che aveva fatto quando l’aveva sbattuta andandosene.

Il quarto sasso

Suonò il campanello.

Una voce dall’alto : «Chi è ?»

Alzò lo sguardo, una giovane donna lo guardava ad occhi sgranati, meravigliata, dubbiosa, confusa.

E lui : «Ciao, sei Ines? Io sono Vito, mi riconosci?».

Ma la risposta non arrivò perché lei già stava scendendo veloce le scale.

Un attimo e già era lì che lo abbracciava piangendo e tremava.

« Vito, Vito, finalmente ti ritrovo! Dov’eri finito… perché… ?».

Mille domande che le uscivano rapide, quasi un’esplosione dopo tanto silenzio.

Certo lei non c’entra nulla in questa storia, pensò, E forse a quel tempo non aveva neppure capito fino in fondo cosa stessi passando oppure lo avrà dimenticato. Chissà, poi, quali verità le saranno state raccontate su di me.

Entrarono in casa anche per sottrarsi agli sguardi dei curiosi che si stavano fermando ad osservare.

Certe notizie ed i pettegolezzi corrono infatti assai veloci laddove ben poco accade.

«Ho dovuto andarmene, scappare perché stavo impazzendo ed ho rischiato di rovinarmi la vita con un gesto di reazione che oggi probabilmente non rifarei».

Si guardò intorno: i mobili erano stati sostituiti da altri più nuovi e moderni. Non c’erano più la madia, la credenza di legno verde con i vetri decorati, il tavolo in formica pure verde con quelle brutte sedie stile ospedaliero dai gambi in acciaio, i quadretti in coccio con motti e sentenze. Ne ricordava due in particolare che erano emblematici dello stile “cordiale” della casa.

Uno sentenziava: «Non mi date consigli, so sbagliare da me» e l’altro: «L’ospite è come il pesce, dopo tre giorni puzza».

«Ma dimmi, mamma dov’è?», chiese.

Seguì un silenzio eloquente che lo trafisse.

Poi Ines lo guardò negli occhi e con voce tremante gli disse:

«Mamma se n’è andata sei anni fa, non ha sofferto».

Sopraffatto dalla notizia, Vito si mise a sedere con la testa tra le mani.

«Com’è stato?» .

«Le è venuto un infarto durante una delle solite sfuriate di nostro padre, ma non so se era scritto che le dovesse capitare comunque o se l’ennesima pena inflittale le sia stata fatale».

Vito strinse le mani a pugno, serrò la mascella mentre tutta l’antica rabbia gli montava dalle viscere al cuore fino al cervello.

E pulsava, pulsava, pulsava, gonfiandosi in attesa di infrangersi con tutta la sua violenza contro suo padre.

A quanto sembrava, non aveva superato le sue angosce, le sue paure. Era tutto ancora lì quell’antico dolore .

«Dov’è quella bestia?».

«Sta di là, in camera».

S’era alzato di scatto per fiondarsi in camera e scagliarglisi contro, una volta per tutte.

«No! Aspetta, ti debbo dire…»,

Ma lui era già entrato nell’altra stanza.

Le persiane socchiuse facevano filtrare i raggi dorati del tramonto.

Nella penombra intravvide una sagoma contro la finestra.

Un cencio d’uomo in carrozzella era girato verso la finestra, un lieve tremore gli scuoteva il capo.

Le braccia appoggiate ai braccioli lasciavano ciondolare le mani ora inerti, quelle mani una volta così piene di schiaffi.

«Tu, brutta bestia, girati che ti spacco la faccia! Hai sentito, vigliacco? Rispondimi!».

E stava per scagliarglisi addosso quando Ines lo afferrò per una manica e gli disse:

«. Fermati, è inutile, non ti capisce ».

«. È successo che una sera di tre anni fa è tornato dal suo solito giro più sbronzo del solito. Aveva pure mangiato pesantemente a cena come faceva da un po’ dopo la morte di mamma che invece si premurava di tenerlo un po’ in ordine con l’alimentazione. Così quella notte ha avuto un ictus da cui è sopravvissuto ma che lo ha lasciato completamente paralizzato al lato sinistro. E per completare il quadro, è pure sopravvenuto l’Alzheimer che è stato diagnosticato essere ad uno stadio oramai avanzato. Perciò non comprende quello che gli viene detto e parla raramente e, se lo fa, lo fa a sproposito».

Vito gli si era avvicinato, improvvisamente placato da quelle parole.

Gli andò vicino e lo guardò fisso, ma lui non voltò neppure il capo.

Aveva occhi vacui, diafani, privi di luce e di espressione; sembrava guardare un indefinito punto laggiù all’orizzonte.

« Padre, padre, sono Vito» e poi ancora:

«Mi senti? Sono Vito».

Gli afferrò una mano che però restò inerte tra le sue.

Sentì un brivido gelido percorrergli la schiena.

Restò per un po’ lì, aspettando una reazione che non venne; l’uomo che lui cercava non c’era più.

Allora tirò fuori dalla tasca l’ultimo sasso rimasto, quello più pesante e spigoloso, e lo depose sul davanzale della finestra dicendogli: «Padre, ecco, la mia rabbia è svanita. Addio».

Sulla soglia si voltò per un ultimo sguardo e gli sembrò che sotto i raggi che filtravano dalla persiana qualcosa brillasse nei suoi occhi e lentamente gli scendesse sulle gote.

È certamente un gioco della luce al tramonto, pensò.