Robert McKee nel suo Story afferma: Il dialogo non è conversazione.
Ma cosa significa questo?
Se ci fermiamo un attimo ad ascoltare una nostra conversazione vediamo che è una accozzaglia di frasi mozzate, esclamazioni, sospiri, dove anche la gestualità ha la sua parte: Ma in realtà cosa stiamo facendo quando conversiamo con un amico al bar? Semplicemente, è un modo di relazionarsi, dove la parte importante generalmente non è quello che si dice ma il fatto di stare insieme a dirlo, veicolando segnali generalmente positivi ma a volte anche negativi.
Questo significa che più del testo nel dialogo conta il sottotesto, quello che veramente vogliamo significare col nostro essere lì e parlare.
Il problema è metterlo sulla carta.
Mentre per lo sceneggiatore il problema si pone relativamente, perché il dialogo cinematografico è costretto ad esprimere il massimo nel minor numero di parole ed avere una sua direzionalità e uno scopo per evitare che la scena diventi insipida, e il commediografo può contare sul fatto che l’attenzione dello spettatore è concentrata all’ottanta per cento sull’ascolto, noi possiamo giocare sul fatto che la parola scritta permane e quindi permetterci dialoghi più complessi e sofisticati. Ma attenzione: mentre nel cinema e a teatro un monologo può reggersi sull’impatto emozionale della recitazione dell’attore, nel romanzo il monologo è una bestia molto pericolosa, quella che può far sì che il lettore alzi gli occhi dalla pagina e si domandi: e allora? Ma non finisce mai?
Come deve essere allora un dialogo in un romanzo o in un racconto? Tenendo conto che non esistono formule preconfezionate che vadano bene per tutti i casi potremmo dire: naturale, contestualizzato, progressivo.
Naturale perché il dialogo deve rappresentare il parlato dei nostri personaggi, e deve farlo in maniera credibile per il lettore, non per noi. Ricordando che una storia non è la vita ma una sua metafora, anche il dialogo scritto deve essere una metafora di quello parlato: rappresentarlo ma non copiarlo, perché diverso è il mezzo con cui viene percepito.
Contestualizzato perché ogni personaggio dovrà avere un suo modo di esprimersi, che dipenderà dalla situazione, dalla sua età, dalla sua educazione e anche dal momento. Un popolano non parlerà come un professore, anche se nella realtà potrebbe benissimo farlo, perché il lettore non riuscirebbe ad identificarlo e perderebbe i suoi riferimenti. Nello stesso tempo un bambino non avrà né il lessico né il modo di ragionare di un adulto, così come probabilmente una conversazione tra anziani non avrà lo stesso tenore di una fra teenagers. Nello stesso tempo bisogna assolutamente evitare gli stereotipi, le forzature dialettali perché “Camilleri lo fa“, le frasi fatte, i proverbi e tutto quello che, appunto, è fuori contesto.
Progressivo, infine, perché il dialogo deve portare avanti la storia, contribuire a caratterizzare i personaggi, fornire informazioni al lettore passandole sottobanco per non annoiarlo, fare da collegamento nello svolgersi dell’azione, contribuire all’approfondimento psicologico dei protagonisti.
Leggendo queste righe uno si domanderà: ma allora tutto il romanzo è dialogo? La risposta è no, ma in alcuni casi ci va molto vicino: provate a leggere i romanzi di Elmore o Crichton (cosa che consiglio caldamente di fare) e vedrete che oltre al dialogo non c’è molto, eppure – o probabilmente proprio per questo – scorrono che è una meraviglia e lasciano il lettore con il fiato sospeso anche dove la trama non è la fine del mondo. Non a caso entrambi sono essenzialmente degli sceneggiatori.
Due altri argomenti che ricorrono spesso nelle discussioni sui dialoghi sono i tempi e i verbi di attribuzione, quelle unità sintattiche che introducono le battute in un discorso diretto legato o in un discorso indiretto legato e che sono chiamati sintagmi di legamento.
Riguardo ai tempi quelli che si usano sono sostanzialmente due, il presente e il passato remoto, che a seconda del contesto rendono il dialogo veloce e puntuale, ma anche l’imperfetto e soprattutto il trapassato prossimo possono essere utilizzati quando si vuole dare un senso di continuità all’azione o nei collegamenti con i flashback, ma questo lo vedremo a suo tempo. Quello che è da evitare assolutamente è di usare il trapassato per tutto il dialogo, perché altrimenti le battute si trascinerebbero stancamente in una sostanziale immobilità e non avremmo né ritmo né progressione.
I verbi di attribuzione (i famosi “disse”, “rispose”, “fece” eccetera) non devono farci perdere il sonno, dobbiamo solo ricordarci di usarli il meno possibile e solo in due casi: quando potrebbe non essere chiaro chi sta parlando (soprattutto in un dialogo con più personaggi) e quando si vogliono utilizzare per descrivere o fare avanzare la scena, ma sempre facendo attenzione a non creare ripetizioni. Per esempio: «Marco entrò sbattendo con violenza la porta» non è un rafforzativo, è un errore: se sbatte la porta lo fa violentemente, quindi quel «con violenza» è superfluo e, se questo tipo di cose si ripete diventa facilmente fastidioso se non ridicolo.
Il semplice “disse” nel contesto del dialogo è praticamente trasparente, e “rispose” è un classico, ma “ribatté” comincia già a stridere, mentre un “esclamò” può essere utile per descrivere un particolare modo di esprimersi, come “sussurrò”, “balbettò” o anche “rantolò”, ma vanno tutti usati con parsimonia e nel giusto contesto. Evitare invece, a meno di non voler ottenere particolari effetti, verbi ricercati o aulici solo per paura delle ripetizioni.
Può tutto questo portare a scrivere dei bei dialoghi? Purtroppo no: questi consigli possono evitare degli errori ma per scrivere dialoghi ci vuole tecnica e anche predisposizione. La seconda nessuno può inventarla, ci sono eccezionali scrittori come Lovercraft che non hanno mai scritto bei dialoghi, ma la tecnica si può acquisire andando a leggere e a studiare i maestri di questa forma di scrittura: Elmore e Chrichton, come ho detto, ma anche Ellroy, Salinger, Lardner (chi lo conosce?), Webb (quello del Laureato), il grande Hemingway e, perché no? Bukowski.
Voglio infine proporre un dialogo tratto da La pista dell’orrore di Roger Zelazny, un romanzo di SF. Qui il protagonista viene catturato dopo un furioso inseguimento e portato da un politico che lo costringerà ad effettuare un viaggio probabilmente suicida. Siamo quindi all’inizio del libro e si può dire che questo sia l’incidente scatenante:
Dopo quindici minuti, si trovò contro una parete di roccia. Gli inseguitori lo circondavano a ventaglio. Molti imbracciavano i fucili e li puntavano in una direzione che non gli piaceva.
Lasciò cadere la catena che aveva in mano e alzò le braccia.
— Ce l’avete fatta, cittadini — disse. — Portatemi via.
E quelli fecero proprio così.
Gli misero le manette, lo riportarono verso il posto di blocco e lo spinsero sul sedile posteriore di una delle macchine. Due poliziotti gli si misero accanto. Un altro andò a prendere posto di fianco all’autista e si appoggiò sulle ginocchia un fucile a canna corta.
L’autista mise in moto, innestò la marcia, e tornò indietro lungo la Statale 101.
L’uomo col fucile si girò a osservare Tanner attraverso le grosse lenti bifocali che facevano un effetto curioso: tutte le volte che abbassava la testa, gli occhi sembravano due clessidre piene di sabbia verde.
Lo guardò per forse dieci secondi senza parlare, poi disse: — È stata una grossa stupidaggine.
Hell Tanner rimase a fissarlo finché l’altro ripeté: — È stata una grossa stupidaggine, Tanner.
— Oh! Non sapevo che parlaste con me.
— Sto guardando voi.
— E io guardo voi. Salve!
Poi l’autista, senza staccare gli occhi dalla strada, disse: — È un vero peccato consegnarlo in buone condizioni… dopo che ci ha fracassato l’altra macchina con la sua maledetta moto.
— In fondo, avrebbe potuto capitargli un incidente. Cadere, e rompersi un paio di costole, no? — disse il poliziotto alla sinistra di Tanner.
L’uomo di destra non disse niente, ma quello con il fucile scosse lentamente la testa.
— No. A meno che non cerchi di scappare. Quelli di Los Angeles lo vogliono in buone condizioni.
— Perché avete cercato di scappare, amico? Avreste dovuto capirlo che alla fine vi avremmo preso.
Tanner si strinse nelle spalle.
— Perché mi avete preso? Non ho fatto niente.
L’uomo al volante scoppiò a ridere.
— Proprio per questo — disse. — Non avete fatto niente. Invece c’era qualcosa che dovevate fare. Non ricordate?
— Io non devo niente a nessuno. Mi hanno dato il condono e mi hanno lasciato andare.
— Avete una pessima memoria, amico. Ieri, quando vi hanno lasciato andare, avete fatto una promessa allo Stato della California. Adesso sono passate le ventiquattro ore che avevate chiesto per sistemare i vostri affari. Potete benissimo dire un bel no. se volete, e vi vedrete revocare il condono. Nessuno vuole costringervi: vuol dire solo che passerete il resto della vita a trasformare le rocce in sassolini, senza problemi di vitto e alloggio. A noi non importa. Ho sentito dire che hanno già trovato un’altra persona adatta.
— Datemi una sigaretta — disse Tanner.
L’uomo che si trovava alla sua destra ne accese una e gliela diede.
Tanner sollevò le mani per prenderla. Fumò lasciando cadere la cenere sul pavimento della macchina.
Continuarono la corsa lungo la statale. Quando dovevano attraversare le città, o incontravano traffico, l’autista azionava la sirena, e la luce rossa sul tetto cominciava a girare. Quando succedeva questo, le sirene delle altre due macchine della polizia si univano al concerto.
Durante tutto il lungo viaggio fino a Los Angeles. il guidatore non toccò mai il freno e continuò a mantenersi in contatto radio con la Centrale a intervalli regolari di tre o quattro minuti.
Ci fu un suono simile a un rimbombo e una nuvola di polvere e di ghiaia piovve sulla macchina come grandine. Una piccola scheggiatura comparve nell’angolo inferiore destro del parabrezza antiproiettile; sassi grandi come chicchi d’uva rimbalzarono sul tetto della vettura. Le ruote stridettero e slittarono sulla ghiaia che si era sparsa sull’asfalto. La nuvola rimase sospesa come una fitta nebbia, ma dopo dieci secondo era scomparsa lontano.
Nella macchina gli uomini si piegarono in avanti e girarono la testa a guardare in alto.
Il cielo era diventato di porpora, e grosse linee nere lo attraversavano, muovendosi da ovest a est. Le linee si gonfiavano, si stringevano, si snodavano da una parte all’altra, unendosi a volte tra loro. Il guidatore accese i fari della macchina.
— Questa volta potrebbe essere qualcosa di brutto — disse l’uomo con il fucile.
Il guidatore fece un cenno affermativo.
— Pare che a nord sia anche peggio.
Una specie di gemito si levò in alto, nell’aria, e le fasce scure continuarono ad allargarsi. Il gemito aumentò di volume, perse la tonalità acuta, e divenne un boato continuo.
Le fasce si consolidarono, il cielo divenne nero come in una notte senza stelle e senza luna, e la polvere cominciò a cadere fitta. Di tanto in tanto, quando un frammento di pulviscolo più grosso colpiva la vettura, si sentiva un secco rumore metallico.
L’autista accese gli abbaglianti, mise in funzione la sirena, e accelerò. Nell’aria il boato e il sibilo della sirena entrarono in gara per superarsi, mentre lontano, a nord, un’aurora azzurra cominciava ad allargarsi, palpitando.
Tanner finì la sigaretta, e l’uomo al suo fianco gliene diede un’altra. In quel momento fumavano tutti.
— Sapete, è stata una fortuna per voi, che vi abbiamo preso — disse l’uomo alla sua sinistra. — Vi sarebbe piaciuto passare con la moto in mezzo a questo cataclisma?
— A me, sì — disse Tanner.
— Siete matto?
— No. Ce l’avrei fatta. Non sarebbe stata la prima volta.
Quando raggiunsero Los Angeles, l’aurora azzurra riempiva metà del cielo. Tinta adesso di sfumature rosa, protendeva verso sud striature giallastre simili a sottili zampe di ragno. Il frastuono era spaventoso: lacerava i timpani e faceva accapponare la pelle.
Quando scesero dalla macchina e attraversarono il parcheggio per raggiungere il grande edificio con le colonne che sostenevano i fregi della facciata, furono costretti a gridare per sentirsi tra loro.
— Per fortuna siamo arrivati in tempo — disse l’uomo col fucile. — Andate su, svelti.
Corsero verso la scalinata dell’ufficio.
— Può scatenarsi da un momento all’altro — gridò l’autista.
Quando si erano fermati nel parcheggio, l’edificio aveva l’aspetto di una scultura di ghiaccio. I cambiamenti di luce del cielo giocavano sulla facciata proiettando ombre fredde: adesso sembrava fatto di cera. pronto a sciogliersi a un’improvvisa vampata di calore.
Le facce e le mani degli uomini erano cadaveriche.
Salirono la scalinata di corsa, e l’agente della polizia di stato li fece entrare dalla piccola porta che si apriva a destra del pesante portale metallico, ingresso d’onore. Vedendo Tanner, la guardia aprì la fondina, chiuse la porta alle loro spalle, e fece scorrere il chiavistello.
— Da che parte? — chiese quello con il fucile.
— Secondo piano — disse la guardia, indicando la scala a destra. — L’ufficio grande, in fondo al corridoio.
— Grazie.
Lì dentro, il frastuono era considerevolmente attutito, e alla luce artificiale tutto aveva ripreso l’aspetto normale.
Salirono la scala circolare e percorsero il corridoio che portava sul retro dell’edificio. Quando raggiunsero la porta indicata, l’uomo col fucile fece un cenno all’autista.
— Bussa.
La donna che aprì fece per dire qualcosa, poi vide Tanner, e con un cenno della testa si scostò tenendo aperto il battente.
— Da questa parte — disse. Poi andò alla scrivania e premette un pulsante.
— Che c’è, signora Fiske? — chiese una voce.
— Sono arrivati con quell’uomo, signore.
— Fate entrare.
La donna andò ad aprire un’altra porta, a pannelli di legno scuro, sul fondo della stanza.
Entrarono. L’uomo corpulento che sedeva dietro la scrivania dal ripiano di vetro si appoggiò allo schienale della poltrona, intrecciò le corte dita sulla pancia e li guardò con occhi appena più scuri del grigio dei capelli.
La voce era bassa e leggermente rauca.
— Accomodatevi — disse a Tanner, poi si rivolse agli altri. — Aspettate fuori.
— Voglio ricordarvi che quest’uomo è pericoloso, signor Denton — disse l’uomo con il fucile, mentre Tanner si sedeva sulla poltrona a circa un metro dalla scrivania.
Persiane d’acciaio chiudevano le tre finestre della stanza e, per quanto non si potesse vedere cosa succedeva all’esterno, all’improvviso frastuono che echeggiò nella stanza, simile a un crepitare di mitragliatrice, tutti furono in grado d’immaginare quali furie si fossero scatenate.
— Lo so.
— Comunque ha le manette. Volete una pistola?
— Ne ho una.
— Bene. Aspettiamo fuori.
Lasciarono la stanza.
I due uomini rimasero a guardarsi finché la porta si chiuse, poi Denton disse: — Avete sistemato i vostri affari? — Tanner si strinse nelle spalle, e Denton continuò: — Qual è il vostro vero nome? Anche i documenti dicono…
— Hell — disse Tanner. — Mi chiamo proprio Hell. Sono l’ultimo di sette figli. Quando sono nato, l’infermiera che mi teneva in braccio ha chiesto a mio padre: «Che nome dobbiamo scrivere sul certificato di nascita?» Il vecchio ha risposto «Hell!», e se n’è andato. Così lei ha scritto quel nome. Così mi ha raccontato mio fratello. Non ho mai conosciuto mio padre e quindi non ho potuto chiedergli se era vero. Se ne è andato quello stesso giorno. Mi sembra, comunque, una spiegazione verosimile.
— Così, vostra madre vi ha allevati tutti e sette?
— No. È crepata qualche settimana dopo, e diversi parenti ci hanno preso con loro.
— Capisco — disse Denton. — Vi offriamo ancora la possibilità di scegliere. Volete tentare, o no?
— Prima di tutto, di che genere di lavoro si tratta? — chiese Tanner.
— Io sono ministro del Traffico nello Stato della California.
— Che c’entra questo?
— Sto organizzando tutto io. Poteva benissimo occuparsene il ministro della Sanità, o quello delle Poste, ma la faccenda rientra nella mia sfera di responsabilità. Conosco i mezzi meglio di tutti. E so quante sono le probabilità…
— Quante sono? — chiese Tanner.
Denton abbassò gli occhi per la prima volta.
— Ecco, è molto rischioso… — disse.
— Nessuno l’ha mai fatto, prima. Tranne quel pazzo che è corso qui a portare la notizia. Ed è morto. Come potete dire che esistono probabilità?
— Lo so — disse Denton, lentamente. — Pensate che sia un lavoro da suicidi, e forse avete ragione. Manderemo tre macchine con due persone in ognuna. Se qualcuno riesce ad avvicinarsi a sufficienza, i suoi segnali radio potranno fare da guida a un veicolo di Boston. Comunque potete rifiutare.
— Lo so. Sono libero di trascorrere il resto della mia vita in prigione.
— Avete ucciso tre persone. Potevate prendervi una condanna a morte.
— Non è andata così, quindi perché parlarne? Sentite, io non voglio morire, ma nemmeno tornare in galera.
— Guidare o non guidare. Non avete che da scegliere. Però, ricordate: se partite e riuscite nella missione, tutto verrà dimenticato e ve ne potrete andare per la vostra strada. Lo Stato della California pagherà perfino quella motocicletta che avete rubato e fracassato, per non parlare dei danni alla macchina della polizia.
— Grazie tante.
Fuori il vento continuava a fischiare, e il rumore vibrante delle persiane metalliche riempiva la stanza.
— Siete un ottimo guidatore — disse Denton, dopo un po’. — Avete guidato quasi tutti i tipi di veicoli esistenti. Avete partecipato anche a gare automobilistiche. Tempo addietro, quando facevate il contrabbando, eravate solito andare una volta al mese fino a Salt Lake City. Pochi avrebbero il coraggio di fare una cosa del genere, anche oggi.
Hell Tanner sorrise, ricordando qualcosa.
— …E nel solo lavoro legale che avete svolto, siete stato il primo uomo in grado di portare la posta fino ad Albuquerque. Dopo il vostro licenziamento, non è stato facile trovarne altri.
— Non è colpa mia.
— Siete anche stato il miglior corriere per Seattle — continuò Denton. — L’ha detto il vostro sovrintendente. Quello che voglio dire è che di tutte le persone selezionate, voi avete le maggiori probabilità di riuscita. Ecco perché siamo stati indulgenti con voi. Però non possiamo permetterci di aspettare più a lungo. Dovete dirmi subito sì o no. Se la risposta sarà un sì, partirete tra un’ora.
Tanner alzò le mani ammanettate e indicò la finestra.
— In mezzo a quella baraonda? — chiese.
— Le macchine sono in grado di affrontare la tempesta — disse Denton.
— Voi siete matto.
— Mentre parliamo, la gente continua a morire — aggiunse Denton.
— Uno più, uno meno, non ha molta importanza. Non possiamo aspettare fino a domani mattina?
— No. Un uomo ha sacrificato la sua vita per portarci la notizia! E noi dobbiamo attraversare il continente il più presto possibile, o sarà tutto inutile! Tempesta o non tempesta, le macchine partiranno fra un’ora. Data la situazione, quello che pensate voi al riguardo non ha la minima importanza. Tutto quello che voglio da voi, Hell, è una risposta.
— Vorrei qualcosa da mangiare. Non ho…
— I viveri sono nella macchina. Cosa rispondete?
Hell guardò le finestre buie.
— D’accordo — disse. — Percorrerò la pista dell’orrore. A ogni modo non parto senza avere in mano un pezzo di carta con sopra scritto qualcosa.
— È già pronto.
Denton aprì un cassetto e prese una grossa cartella da cui tolse un foglio protocollo con il sigillo dello Stato della California. Si alzò, fece il giro della scrivania e lo porse a Hell Tanner.
Hell studiò il documento per qualche minuto e alla fine disse: — C’è scritto che se raggiungo Boston mi verranno condonate tutte le azioni criminali che ho commesso entro i confini della California…
— Esatto.
— Comprende anche quelle di cui non siete a conoscenza, nel caso che in seguito qualcuno si sognasse di fare denuncia?
— Il documento dice tutte le azioni criminali,Hell.
— Bene, avete vinto, ciccione. Fatemi sciogliere questi braccialetti e mostratemi la macchina.
Denton rifece il giro della scrivania e tornò a sedersi sulla sua poltrona.
— Ancora una cosa, Hell. Se durante il viaggio vi venisse in mente di andarvene, gli altri guidatori hanno ordini precisi: vi spareranno, fino a ridurvi in cenere. Chiaro?
— Chiarissimo. Immagino di poter riservare loro lo stesso trattamento.
— Esatto.
— Molto bene. La cosa comincia a diventare interessante.
— Sapevo che vi sarebbe piaciuta.
— Ora, se mi togliete le manette, entrerò in scena.
— Prima voglio dirvi cosa penso di voi — disse Denton.
— Bene, se volete perdere tempo a coprirmi d’insulti, mentre la gente sta morendo…
Forte, vero? Qui Zelazny ha semplicemente usato il dialogo per far andare avanti al storia, con parsimonia e rigore, senza eccedere in virtuosismi. Ma quando uno è bravo…