In principio era il verbo, il logos, la parola.
Dobbiamo riflettere su questo primo verso del Vangelo di Giovanni, perché oltre a rappresentare il primo tentativo di sistematizzazione filosofica del nascente Cristianesimo ci dice molto sul rapporto tra l’Uomo e la sua capacità di esprimersi.
Non è stata la scrittura la prima modalità espressiva dell’essere umano ma la parola: è stato il
cantastorie il primo uomo che ha creato il racconto e la sua opera è stata ad un tempo trasmissione orale e teatro prima che le arti si separassero.
In epoca omerica era questa figura a portare per i villaggi e le città i miti dell’umanità, e senza andare a cercare le radici della conoscenza nelle profondità della mente bicamerale (Julian Jaynes, 1976) dobbiamo riconoscere che non è il segno scritto l’esclusività delle espressività umana. Con buona pace della nostra sensibilità di artisti le prime scritture, stante ai ritrovamenti, non ono stati poemi epici o racconti ma semplici liste di archivi o poco più che note della spesa che gli antichi caldei scrivevano nel loro difficile idioma cuneiforme. Proprio le difficoltà a tradurre in segno il complesso mondo del parlato e la conseguente appartenenza degli eruditi ad una ristretta elite probabilmente è stato il motivo per cui erano i cantastorie che imparavano a memoria i poemi e li raccontavano al loro pubblico entusiasta.
Già allora era importante sicuramente la memoria e la capacità interpretativa del bardo, ma quello che veramente contava era la forza della storia stessa, quella forza che al giorno d’oggi rischiamo di voler ignorare, rapiti dalla preziosità dell linguaggio scritto o il suo alter ego nel linguaggio cinematografico che sono gli effetti speciali.
Noi siamo figli della parola scritta, un fenomeno che viene datato con la nascita della stampa a caratteri mobili (Gutenberg, 1455, in Asia già presente dal 1041 per opera di Bi Sheng) ma si può dire che il pieno sviluppo della civiltà della scrittura sia avvenuto intorno al XVIII secolo con l’affermazione borghese dell’universalità dell’alfabetizzazione, per avere il suo massimo sviluppo nel XX secolo, tanto che solo intorno al 1920 ci si è preoccupati di trascrivere fedelmente i racconti fino ad allora tramandati oralmente.
Quello che dobbiamo domandarci è cosa c’è stato prima e cosa ci sarà dopo la scrittura: la risposta non è difficile ed è sempre la stessa, sia pure in forme diverse: l’oralità, intesa come conservazione della parola nel tempo per mezzo di strumenti mnemotecnici (studio a memoria, recitazione di gruppo) dagli albori dell’umanità e come diffusione dell’informazione attraverso i nuovi sistemi audiovisivi approssimativamente a partire dal 1960). L’entrata nell’era dell’informatica ha nuovamente mutato le forme di comunicazione e di conseguenza anche i modi di usare la scrittura.
È su questo che dovremmo focalizzarci quando parliamo di analisi delle forme di scrittura creativa: non sulle tecniche tout-court che non rappresentano altro che un aspetto contingente del movimento ma sul concetto di comunicazione e su come si è evoluto attraverso i millenni.
Cosa accomuna il cantastorie omerico, il menestrello medievale, il romanziere ottocentesco, lo sceneggiatore cinematografico e i tecnici della nuova informazione via web? Non lo strumento, che è ovviamente mutevole, non il messaggio, che è soggetto ai tempi anche se, come vedremo, è destinato a ripercorrere in forme nuove antichi paradigmi, ma il significante, estendendo il concetto di de Saussure all’insieme della forma comunicativa dell’essere umano.
Qual’è il significante che unisce cantastorie, romanziere e sceneggiatore? Semplice: è la storia, e tutta questa premessa è servita a spiegare perché è della storia all’interno dell’opera scritta che ci occuperemo, delle sue caratteristiche, dei suoi aspetti più e meno evidenti, delle sue stratificazioni e dei suoi messaggi.
Più semplicemente parleremo di come una storia debba essere strutturata per appassionare e coinvolgere il lettore, quali elementi deve sviluppare per avere una coerenza interna, quando e dove sistemare gli elementi che la caratterizzano, i suoi tempi, il concetto di incidente scatenante, il suo aspetto tematico, la semina degli ancoraggi destinati a raccordare i vari punti di svolta, il, anzi, «i» climax, i tipi di trame, i finali, i personaggi, gli aspetti tematici e i conflitti, esterno, interno e di relazione, il fatal flow e l’articolazione dei plot e dei subplot all’interno delle scene, dei beat, delle sequenze e degli atti in cui sarà suddivisa la nostra opera.
Nel fare questo ci troveremo all’interno del viaggio dell’eroe secondo Campbell e Vogler, ed esploreremo gli archetipi (o i paradigmi, se preferite) che secondo Carol S. Pearson appartengono all’eroe che è dentro ognuno di noi e che accomunano ogni essere umano, probabilmente dal misterioso avvento dell’autocoscienza nel primo uomo della Storia.
Tutto questo non ci porterà a scrivere dei bei libri: secondo l’americano Marco P. Massai per scrivere ci vogliono Idea, Tecnica, Lavoro, Talento, Stile, il che significa, in parole povere, che scrivere non è matematica ma magia, come d’altra parte tutte le altre forme d’arte, ma sicuramente ci aiuterà a capire perché certe storie non funzionano, certi libri (o film) risultano noiosi, poco convincenti, anche se l’idea nel suo insieme non sembra male, perché certi personaggi sono statici e sembra che non vadano da nessuna parte, perché invece di parteggiare per le vicende del protagonista ne rimaniamo indifferenti.
In altre parole, se non ci farà scrivere la versione del XXI secolo dei Promessi Sposi o dei Miserabili almeno ci aiuterà a capire quando non è il caso di cercare di pubblicare un libro che non ha nessun significato, e questo nel contesto attuale dell’editoria sarebbe già un bel risultato.