Come ogni mattina, da quando sono tornata a vivere a New York, più o meno all’alba, indosso un abito elegante e a bordo di un taxi raggiungo l’angolo tra la 57 th Street e Fifth Avenue fino davanti le vetrine di Tyffany traboccanti di gioielli preziosi, del tutto simili a quelli che un tempo possedevo anch’io. Osservo quelle meraviglie mentre bevo un caffè americano accompagnato da un croissant. La verità è che mi piace ancora fare la signora. Quello di venire da Tyffany è diventato un rito, anche un po’ costoso a causa del taxi, ma non ci posso fare niente. Ho bisogno di questa passeggiata mattutina. Sarà una pazzia o si tratta solo di una grande nostalgia dei tempi in cui godevo di un notevole benessere? Facendo un bilancio della vita che conduco credo si tratti di quest’ultima ipotesi. Di solito dopo aver osservato a lungo le vetrine torno a casa a piedi. Mi infilo sotto la doccia, mi cambio d’abito e sono pronta per raggiungere l’atelier di moda dove lavoro come indossatrice di abiti da sposa. Ma sono alle prime armi così guadagno quei pochi dollari che mi bastano appena a pagare l’affitto della stanza e un po’ da mangiare. E spesso non sono sufficienti neanche per questo. Oggi non ho voglia di andare a lavorare. Voglio restare accucciata nella mia piccola camera con la tinta alle pareti un po’ scolorita ma molto accogliente, merito anche della mia gattina alla quale non ho ancora dato un nome ma che mi fa molta compagnia. Così mi metto comoda sul divano e mentre la gatta mi fa le fusa mi abbandono ai ricordi.
Rivedo Roma, la città che qualche anno fa avevo scelto come meta per le mie vacanze e poi vedo Cristiano, alto, scuro di capelli e bellissimo. Era un architetto, molto quotato. Ci conoscemmo a un party e ci sposammo dopo un anno appena e così mi trasferii a Roma. Grazie ai suoi cospicui guadagni ci potemmo permettere una bella casa ai Parioli proprio vicino a villa Glori.
Era un appartamento ampio e soleggiato.
A quei tempi mi potevo permettere di non lavorare. La mattina andavo a villa Glori a correre. Poi a casa facevo la cyclette e nel pomeriggio mi dedicavo allo shopping. Cristiano era un grande sportivo. D’inverno era d’obbligo la vacanza a Cortina e d’estate si andava a pescare con la nostra barca a Porto Ercole, Porto S. Stefano, all’Isola d’Elba e all’isola del Giglio. Nonostante questa vita da sogno arrivò la crisi. Attraversai un lungo periodo di depressione perché… mi annoiavo. Ero stanca di essere un’appendice di Cristiano. Volevo anch’io un lavoro per sentirmi realizzata. Così un giorno lessi un annuncio dove cercavano una lavorante in una bottega di ceramiche in Trastevere. E io, in questo settore, ero un’esperta perché da ragazzina in America avevo fatto un corso per imparare a dipingere la ceramica. Così mi apprestai a telefonare. Mi rispose un uomo dalla voce un po’ rauca che mi disse:
“Qui è la Bottega delle Fate. Cosa desidera?”
“Ho letto l’annuncio, sto cercando un lavoro. Potrei venire a lavorare, anche solo part time, alla sua bottega?”
“Venga anche domani, l’aspetto.”
Così la mattina dopo, piena di entusiasmo, raggiunsi la bottega in Trastevere dove mi accolse un uomo anziano di nome Silvio, che si dimostrò compiaciuto del fatto che io fossi americana. Mi mise subito alla prova e nel giro di qualche tempo mi resi conto che quel lavoro, così creativo, mi divertiva, mi faceva sentire più sicura e più soddisfatta di me. Ma a Cristiano il cambiamento non piacque. Si dimostrò egoista. Appresi con sgomento che a lui piaceva avere intorno una donna vuota, una bambola, e la mia trasformazione in donna attiva e impegnata lo destabilizzava. Così ogni sera mi teneva il broncio, mentre io leggevo rancore nei suoi occhi. Questa situazione di stallo durò parecchi mesi. Poi una sera ci ritrovammo insieme nel soggiorno. Io ero al tavolo a decorare le mie ceramiche, lui a guardare la televisione. Ma l’atmosfera era tesa, lui molto cupo e anche io molto arrabbiata. Non mi trattenni più.
“Sei uno stronzo”, esplosi, “perché non me lo dici in faccia che non accetti il mio lavoro?”
“Holly che bisogno c’era di andare a lavorare a bottega? Mi sembra che ti ho fatto fare la signora”
“E’ proprio questo il punto. Non mi garba più fare la vita che mi offri”
“Ti dimostri per quello che sei sempre stata, un’ ingrata con tanti grilli per la testa”
“Tu, invece, un maschilista completamente fuori dai nostri tempi. Sai che ti dico, Cristiano? Io torno a New York”
“Fai come vuoi” disse Cristiano
Quella sera dormii nel soggiorno e la mattina dopo iniziai ad aprire le ante dell’armadio e a trafficare con le valige. Dopo qualche ora presi il primo aereo per New York.
Il suono del citofono mi distoglie dai ricordi. Vado ad aprire e aspetto sulla soglia di casa. Un uomo non molto alto, biondo con due grandi occhi azzurri sta salendo al piano. Ha il corpo di un atleta. Sembra il tipico americano. Mi dice:
“Scusi sono il nuovo vicino di casa. Non mi hanno ancora dato la chiave del portone”
“Non si preoccupi. Vuole entrare un attimo?”
Un po’ esitante accetta l’invito. Mi sorride e mi dice in tono confidenziale:
“Come ti chiami?”
“Holly Golightly, e tu?”
“Paul Variak, sono di New York. Mi sono separato da poco così sono venuto ad abitare in questo palazzo”
“Mi dispiace…”
“Non ti dispiacere. Me ne ha fatte passare di tutti i colori. E tu?”
Anche se lo conosco da non più di dieci minuti gli racconto tutta la mia storia.
“Che carattere! Adesso che lavoro fai?”
Faccio la modella per un atelier di abiti da sposa. Che sorte! Ma guadagno pochissimo perché sono agli inizi della carriera. E tu, invece, che lavoro fai?”
“Mi occupo di banche”
Ma non si spiega molto e io non indago.
Dopo aver preso una tisana insieme e coccolato la mia gatta va via.
I giorni seguenti ci incontriamo spesso e iniziamo a frequentarci assiduamente. Insieme trascorriamo delle ore piacevoli. Ascoltiamo la musica poi Paul è un bravo cuoco e riesce a improvvisare cene squisite con il poco che ho e ci amiamo appassionatamente. Abbiamo scoperto di avere una buona intesa sessuale. Ma Paul , con me, è carino anche fuori dal letto. Sapendo che amo guardare la vetrina di Tiffany mi sorprende con regali frequenti: un giorno mi porta un paio di orecchini, un giorno un orologio e un altro una collana. A me non sembra vero di aver ritrovato un notevole benessere. Mi sento al settimo cielo, coccolata e amata, ma indipendente allo stesso tempo.
Una mattina, affacciata alla finestra della cucina, vedo Paul con indosso un parka con il cappuccio, una borsa grande e una sacca da palestra. Mi insospettisco e mi inquieto.
“Possibile che vada in palestra a quest’ora? Come mai non è al lavoro? Mi ha sempre detto che fa il turno di mattina”
Quella sera cerco di indagare. Lui mi accarezza il viso e mi dice:
“Holly. Io lavoro per le banche perché le rapino. Non è solo una questione di soldi. C’è che ho bisogno di provare questo brivido. Mi piace costringere i presenti ad una condizione di sottomissione, arraffare quanto è contenuto nelle casse e nella cassaforte. Sono azioni che consentono delle vere e proprie scariche di adrenalina. Sono come un drogato, Holly.
Non riesco a trattenere le lacrime anche perché mi rendo conto che sono innamorata di lui.
“Tranquilla!”, mi dice, “Da quando ti ho conosciuta voglio cambiare vita”
“Non è vero, sei un bandito”
Paul cerca di abbracciarmi ma io mi divincolo dalla sua presa e scendo in strada anche se piove molto. Disperata fermo un taxi ma Paul mi raggiunge e sale dopo di me con in braccio il mio gatto. Iniziamo a discutere e a un certo punto per rabbia, Paul lancia il mio gatto fuori dal finestrino del taxi. Io fermo l’autovettura e sotto la pioggia, alla periferia di New York, inizio a cercare il mio gatto tra i bidoni della spazzatura. Urlo: “Gatto, gatto!”
Ma non ci sono cenni di vita. Poi a un certo punto, mentre sto per andarmene, sento un miagolio e vedo il mio gatto che esce da un bidone della spazzatura, fradicio ed infreddolito. Lo prendo in braccio e lo coccolo. Quando alzo lo sguardo vedo Paul venirmi incontro per abbracciarmi e così ci baciamo sotto la pioggia. Poi lui mi promette di nuovo che cambierà vita per amore mio e io presa dall’euforia continuo a bagnarmi sotto l’acqua che cade incessante, senza cercare alcun riparo.