Il colpo secco e forte del tuono mi fece sobbalzare sul letto. Mi stropicciai gli occhi e cercai con lo sguardo l’orologio digitale sulla cassettiera di fronte. Sul quadrante rettangolare nero due punti rossi lampeggiavano ad intermittenza regolare a segnare lo scorrere inesorabile del tempo ed i lombrichi, anch’essi rossi, si accendevano o si spegnevano, comandati da interruttori invisibili, per formare i numeri delle ore e dei minuti. 6:48 si leggeva sul quadrante e 1 lombrico si spense per tramutare l’8 in 9 mentre fissavo l’orologio cercando di riordinare le idee.

Avevo dormito come un sasso per quasi 7 ore, cosa inusuale per me, da quando la sera prima, scalciati i mocassini e gettati i vestiti sulla poltrona rossa lì nell’angolo, mi ero infilato sotto il caldo piumone del grande letto in ferro battuto.

Mi piaceva la casa di Antonio per svariati motivi. Anzitutto perché era a due passi dal mare, infatti bastava scendere i tre scalini dall’ampio portico in legno coperto da una tettoia con le tegole verdi, per affondare i piedi nella sabbia bianca di Capo Comino e dopo neanche una cinquantina di metri si era nell’acqua fresca e chiara del mare della Sardegna. La casa non era alta abbastanza da avere due piani, ma sufficiente per aver permesso di ricavarvi un soppalco in legno, a cui si accedeva con una stretta scala a chiocciola e dove troneggiava quell’enorme letto in ferro battuto. La  vetrata che richiudeva il tratto a mare del salone e che si estendeva per tutta la lunghezza del portico, era il secondo motivo che rendeva quella casa attraente ai miei occhi. Amavo accostarvi la poltrona, lasciare socchiusa l’apertura che dava sul patio e stare lì seduto ad ascoltare la rilassante armonia della risacca ed ad annusare con avidità lo iodio che producevano le onde, infrangendosi sulla scogliera rossastra che si protendeva verso il mare sulla destra del portico. Completavano la casa un ampio soggiorno, un cucinino ed un bagno con la terza attrattiva, per me, della casa: un’ampia doccia in muratura tutta piastrellata con maioliche di un blu intenso e con su dipinto un fondale da mare tropicale, con quei coralli dai colori vividi e di una bellezza indescrivibile. Una porta di vetro, anch’esso blu, chiudeva l’ambiente e l’acqua che ti arrivava addosso non solo dal grande soffione appeso al centro del soffitto ma anche da altri ugelli posti, a varie altezze, sulle pareti laterali, contribuiva a fornire un senso di gradevole piacere. La fastidiosa sensazione della plastica della tenda che mi si appiccicava sulla schiena nella doccia di casa mia era solo un remoto ricordo.

Alla casa si accedeva dalla strada statale attraverso una stretta carrareccia ricavata nella pineta e la cui tortuosità sembrava fosse stata fatta col chiaro intento di abbattere il minor numero possibile di pini. Non vi erano altre case nei dintorni. A poco più di un chilometro, in direzione Olbia, c’era un agglomerato di case, che non so se si potesse definire un paese, ma aveva quanto bastava a soddisfare le mie esigenze:  un piccolo negozio di generi alimentari ed un bar-trattoria gestito da Luca e da sua moglie Rosa, amici da lunga data di Antonio ed ora anche miei.

Antonio aveva ereditato il rudere, come lo chiamava lui, dal padre e ci aveva messo un po’ di anni per ristrutturarlo e trasformarlo in quella piacevole dimora che era ora dotata anche di climatizzatori inverter che la rendevano confortevole sotto l’aspetto climatico. Lui ci andava solo durante il periodo estivo ed aveva insistito che io avessi una copia delle chiavi per poterci andare quando ne avessi avuto voglia; bastava solo che lo avvertissi con una telefonata in modo che lui facesse sapere, non mi ha mai detto a chi, che in casa c’erano amici, non ladri.

Ed è così che dopo che il “mostro” si era portata via la mia compagna, quando mi assaliva la voglia di starmene per i fatti miei, lontano dalle affettuose offerte di distrazioni da parte di amici premurosi, mi imbarcavo sul traghetto veloce e raggiungevo quell’eremo dorato, dove, guarda caso, non c’era la TV e neanche campo per usare il cellulare, anche se solo Antonio, oltre me, sapeva come ciò non fosse del tutto vero.

Ed era lì che ero corso a rintanarmi il pomeriggio del giorno prima, pur sapendo che non avrei trovato un tempo favorevole, – “Una perturbazione in arrivo da ovest  interesserà la Sardegna prima e il centro Italia dopo, durante il fine settimana” – aveva annunciato il meteorologo di LA7 il giovedì mattina.

Un forte bagliore, che attraverso la vetrata sottostante raggiunse il soppalco, annunciò un altro tuono che puntualmente arrivò, non con un colpo secco questa volta, ma con un prolungato e forte crepitio, seguito a ruota dal rumore della pioggia che si infrangeva sulle tegole del patio. Mi infilai le scarpe ed una tuta che presi dalla sacca che giaceva ancora chiusa ai piedi del letto e scesi di sotto per godermi lo spettacolo della natura. Le nuvole nere ricoprivano tutto il cielo fino all’orizzonte dove si mescolavano con il mare e con le prime luci del giorno. Quando i lampi squarciavano le nubi illuminavano uno scenario fatto solo dall’acqua del mare, ormai dello stesso colore del cielo e dalle gocce di pioggia che cadendo veloci si infrangevano sulla superficie increspata del mare sollevando schizzi bianchi. In primo piano, invece, la sabbia sembrava prendere vita sotto gli schiaffi della pioggia, abbassandosi come per difendersi in certi punti per sollevarsi invece in altri, quasi in un’azione di contrattacco. Nessuna presenza umana ad interferire con questa manifestazione di potenza della natura.

Dopo qualche minuto la pioggia diminuì di intensità, per poi cessare del tutto e rimasero ancora per un po’, in lontananza, soltanto il bagliore di qualche lampo ed il brontolio sordo, ma ormai in dissolvenza, dei tuoni. Il vento ripulì il cielo dalle nubi, ma sapevo che si trattava solo di una tregua momentanea, perché altre nubi, seppure non ancora minacciose, andavano ad addensarsi all’orizzonte.

Era ormai quasi l’imbrunire quando presi dal frigo una bottiglia di birra e, spenta la luce, mi sedetti sulla poltrona vicino alla vetrata per godermi il temporale numero due della giornata, ormai in arrivo. Ma questa volta un solo lampo seguito da un tuono neanche poi tanto forte, diede il via alla pioggia che incominciò a cadere con una certa intensità. Quasi mi versai la birra addosso quando la figura che scavalcò agilmente la bassa staccionata che delimitava il patio alla mia sinistra, mi fece sobbalzare. Stavo per urlare, quando il mio sguardo, mettendo a fuoco una gonna e dei capelli lunghi che erano comparsi al posto del cappuccio della giacca a vento, rimosso da una mano bianca ed affusolata, impose alla bocca di tacere: non poteva proprio trattarsi di un ladro, ma di qualcuno che stava cercando riparo dalla pioggia. La donna si riavviò i capelli con una mano e si spostò verso il centro del patio, ignara della mia presenza. Sperai proprio che non si mettesse ad urlare o facesse qualcosa di peggio, quando mi alzai e mi avvicinai alla porta socchiusa della vetrata e dissi –“ Buonasera”– cercando di usare un tono calmo e rassicurante.

La donna si voltò verso di me portandosi la mano alla bocca, come a soffocare un grido che però non uscì mai. Invece, subito dopo, la mano si ritirò per scoprire un sorriso spontaneo, sicuro e deciso, il viso si rilassò dalla tensione e, avvicinandosi di un passo –“Buonasera – disse – mi perdoni ma la pioggia mi ha sorpreso mentre passeggiavo qui sull’arenile ed ho cercato riparo nel primo posto utile che ho visto! Mi chiamo Nicole “ – aggiunse tendendomi la mano.

“Piacere, Franco,” – dissi prendendo quella mano bianca e affusolata e bagnata dalla pioggia – “perché non entra ad aspettare che spiova?”– aggiunsi mentre facevo strada nel soggiorno, accendevo la luce ed andavo nel bagno per prendere un asciugamani pulito.

Quando tornai nel salone Nicole aveva tolto la giacca a vento e stava richiudendo la porta della vetrata dopo aver lasciato fuori le scarpe da tennis sporche di sabbia bagnata. Si girò verso di me sorridendo, mentre prendeva l’asciugamano che le porgevo e mi diceva che – Sì – avrebbe gradito il caffè che le offrivo. Ci misi qualche secondo a girarmi per andare verso il cucinino, incantato a guardare quei grandi occhi verdi, profondi, non tristi ma neanche allegri, quasi rassegnati di fronte ad un qualche ineluttabile evento della vita. Mormorai un flebile – “Mi scusi “– mentre mi avviavo a mettere la moka sul fuoco e Nicole iniziava a strofinarsi energicamente i capelli con l’asciugamani rosso.

Mentre ascoltavo il gorgoglio del caffe che si faceva strada attraverso il beccuccio della moka, la mente riandava a quei capelli tra le pieghe dell’asciugamani rosso. Non riuscivo a definirne il colore, non erano sicuramente scuri, ma neanche biondi, il fatto che fossero bagnati mi confondeva, bagnati, sì erano proprio dello stesso colore della sabbia bianca bagnata.

Quando ritornai reggendo il vassoio con le due tazzine, la moka e la zuccheriera, Nicole sedeva sul divano con le gambe raccolte sotto di sé. Non era molto alta, né magra, decisamente ben formata, giustamente piena nei punti giusti, per dirla alla maschietto. I capelli, decisamente di color cenere erano quelli che dicevano, insieme a qualche ruga che solcava il viso senza trucco e decisamente in contrasto con il resto della figura, che Nicole doveva aver passato la cinquantina. Sembrava decisamente in buona salute, quindi doveva esserci qualcosa di altro dietro quella rassegnazione che si leggeva in quei suoi profondi occhi verdi.

– “E’ un po’ che vengo da queste parti – disse mentre sorseggiava il caffè senza zucchero – “e non ti ho mai visto” – continuò passando tranquillamente al tu – “pensavo che questa casa fosse disabitata. Complimenti hai sistemato questo tuo nido con gusto: un arredamento semplice e caldo”–

Trovai spontaneo raccontarle di Antonio e della casa e dei motivi che mi portavano ad attraversare il mare per rifugiarmi in quel “nido”. Nicole mi ascoltò senza fare commenti e senza che l’espressione di serenità sul volto mutasse. I suoi occhi sembrava mi dicessero – “Grazie per esserti aperto raccontandomi di te”.

Quando tacqui Nicole disse un semplice – “Buono il caffè! Grazie!”– e, posata la tazzina, iniziò a parlarmi di sé.

Era nata 52 anni fa in Corsica, per sbaglio precisò, in quanto i suoi genitori, incuranti dei consigli del ginecologo, non avevano voluto rinunciare a quella vacanza nella patria del trekking, la loro passione. Il padre, geologo, aveva lavorato per parecchi anni in Sardegna dove aveva comprato un casolare, ora di sua proprietà, sito a meno di 5 chilometri nell’entroterra ad ovest rispetto a dove eravamo noi, per poi accettare un’offerta di lavoro in Sudamerica, dove si era trasferito, con sua moglie, quando Nicole, ormai laureata in lingue, era stata assunta presso la Corte Europea di Strasburgo. Filippo, suo padre e Silvia, sua madre, avevano deciso di fermarsi lì in Perù, dopo che suo padre si era ritirato in pensione.

A Strasburgo Nicole aveva conosciuto Mauro, un avvocato di Torino, di pochi anni più grande di lei, non proprio un adone, ma sicuramente simpatico, arguto, spiritoso, amante della vita. Ci aveva messo un po’, reduce da una storia interrotta bruscamente, prima di accettare di uscire con lui ed aveva finito per innamorarsi di quel giovanotto, magari con pochi capelli, ma che sapeva strapparle sempre un sorriso e rendere piacevole e divertente qualunque cosa facessero. Aveva lasciato il suo lavoro alla Corte Europea per sposarlo ed andare a vivere nella sua casa sulle colline torinesi, iniziando a lavorare da casa alla traduzione di libri dall’inglese e dal francese. Non avevano avuto bambini e non avevano mai considerato l’idea di adottarne uno. D’estate si spostavano per una ventina di giorni in Sardegna, ma apprezzavano di più le scappate di qualche giorno in inverno, quando nell’isola non c’erano tanti turisti. Notai un cambiamento di espressione sul suo volto e soprattutto nei suoi occhi, quando iniziò a parlare dei tempi più recenti. Un paio di anni prima, Mauro aveva incominciato ad accusare leggeri dolori all’addome ed era comparsa anche qualche linea di febbre. Il loro medico di famiglia, padre di un compagno di università di Mauro, aveva prescritto alcuni esami specialistici i cui esiti gli avevano suggerito di consultare un oncologo e la diagnosi si era abbattuta su di loro come un macigno: cancro.

Era stato operato quasi subito e dopo un paio di cicli di chemioterapia la buona notizia: nessuna traccia del cancro, sembrava fosse svanito. Erano tornati a respirare la solita aria allegra e spensierata di una volta. Avevano intrapreso un lungo viaggio che li aveva portati prima in Perù a trovare Filippo e Silvia, poi in Australia dove avevano visitato i selvaggi territori dell’entroterra e la barriera corallina, per poi sostare un paio di settimane nell’incanto di Bali in Indonesia. Dopo una breve tappa in Tibet per toccare con mano la spiritualità dei monasteri buddisti, erano rientrati in Italia via Francoforte.

Mauro aveva voluto riprendere il suo lavoro nello studio legale e Nicole si era rituffata nelle sue traduzioni.

Poi sei mesi fa la seconda inaspettata mazzata, questa volta ancora più tremenda, perché entrambi sapevano quanto una recidività potesse essere pericolosa. Infatti, dopo un secondo intervento, le prospettive non erano affatto buone. I cicli di chemioterapia sembrava non avessero altro effetto se non quello di produrre nausea e i normali antidolorifici non riuscivano più ad attenuare i dolori sempre più lancinanti.

Avevano iniziato a iniettargli dosi di morfina, che servivano almeno a lenirgli un po’ i dolori e a consentirgli qualche ora di sonno.

Nicole aveva approfittato di questo periodo di tregua per venire in Sardegna a mettere in vendita il casolare, firmando la procura ad una agenzia e prendendo quelle cose che le ricordavano la sua infanzia ed i suoi genitori.

Sulla strada verso Olbia, dove aveva prenotato un posto sul traghetto di mezzanotte per Genova, da dove avrebbe poi raggiunto casa, aveva deciso, visto che mancavano ancora più di sei ore all’imbarco, di fermarsi, per fare due passi sulla sabbia di quella caletta dove veniva spesso, per provare a trarre dalla natura circostante la forza necessaria ad affrontare la situazione che la attendeva a casa e, soprattutto, disse abbassando la voce, quello che, Nicole ne era sicura, Mauro le avrebbe chiesto di fare.

Nicole fece un gesto con la mano, quello che si fa per scacciare una mosca che ti ronza fastidiosa intorno, come a voler spazzare via i suoi pensieri, sfilò i piedi da sotto di sé e si alzò guardando l’orologio.

– “ Non sono ancore le 20” – dissi, alzandomi anch’io – “hai ancora oltre quattro ore… e se facessi una carbonara?”.

Mi avviai verso il cucinino senza aspettare la sua risposta ed aprii una bottiglia di Monica Iselis rosso, ne  versai un po’ in due calici e ne porsi uno a Nicole, che, urtando leggermente il mio, lo portò alle labbra e, prendendone un piccolo sorso, mi chiese dove potesse trovare il necessario per apparecchiare. In un quarto d’ora la carbonara era pronta e ci sedemmo a mangiare, mentre fuori aveva ormai smesso di piovere e la luna, facendo capolino tra le nuvole, tracciava un sentiero bianco sul mare che, allargandosi, veniva a svanire sulla battigia, sospinto, nell’ultimo tratto verso la sabbia, dalla risacca.

Parlammo dei posti che avevamo visitato nel mondo, ridendo di episodi buffi capitati a lei o a me, mentre sorseggiavamo quel vino rosso, che contribuiva ad allontanare da noi problemi, preoccupazioni, ansie ed incertezze.

Si erano fatte ormai le dieci, quando Nicole decise che era ora che lei riprendesse la strada verso casa. Indossò la giacca a vento che le porgevo e dopo aver bevuto l’ultimo sorso di vino dal suo bicchiere, mi seguì verso la porta di ingresso e, una volta fuori, ci incamminammo in silenzio verso lo spiazzo in cui aveva lasciato la sua auto. Una volta lì, mi tese la mano e, ringraziandomi di tutto, si avviò verso la macchina. Ma dopo un paio di passi, si fermò, si voltò e corse verso di me abbracciandomi. Mi baciò sulla guancia e, tenendo il suo viso aderente al mio, mi sussurrò all’orecchio: – “Grazie per avermi regalato per qualche ora l’illusione di poter ancora tornare a godere della vita. Non lasciarti sopraffare dalla tristezza e dalla solitudine, Franco, vivi! Addio!”-

Non ebbi il tempo di dire nulla, Nicole salì rapidamente in macchina e, sgommando sul brecciolino, imboccò la statale verso Olbia e si allontanò nel buio, lasciandomi lì con la mano che si muoveva lenta in un saluto ed un nodo che mi saliva su per la gola: sapevo che non la avrei più rivista.

Lasciai la Sardegna il giorno dopo continuando a pensare, durante il viaggio a Nicole, a quello che mi aveva raccontato della sua vita, alle risate tra una forchettata e l’altra di carbonara e tra un sorso e l’altro di Monica Iselis, ma, soprattutto, mi riecheggiavano nella mente le parole che mi aveva sussurrato all’orecchio prima di svanire così velocemente come era comparsa.

Ritornai alla mia routine quotidiana, scoprendo però che stavo inconsciamente seguendo il consiglio di Nicole: incominciavo a frequentare di più gli amici e ad accettare i loro inviti e mi sentivo quasi pronto ad invitare a cena quella signora bruna che pareva interessarsi a me.

Passarono un paio di mesi ed ormai pensavo sempre meno a Nicole, quando una mattina il mio sguardo fu attirato da una foto sulla Stampa, posata lì su un tavolino del bar. Sotto il titolo “Coppia di coniugi trova la morte nell’auto precipitata da un viadotto dell’autostrada Torino – Savona”, c’erano due foto, quella di un uomo dal volto pallido e scavato ed ormai quasi calvo, e nell’altra Nicole, con il suo bel viso senza trucco incorniciato dai capelli color sabbia bagnata e su cui spiccavano quei grandi, profondi occhi verdi. Mi sembrò che quel senso di rassegnazione fosse scomparso; quegli occhi verdi erano ora vivi e brillanti come, immaginavo, dovessero essere stati un tempo.