Che se avessi saputo che nel mio ventre albergava una belva, anziché un uomo, lo avrei seppellito vivo nel profondo dei visceri, negandogli da subito la vita.
Che niente giustifica la furia e l’oltraggio, la violenza cattiva su un’altra creatura.
E poco più che creatura era, coi fianchi stretti di bambina e due mammelline inconsistenti, e la sottanina spalancata su quello squarcio vivo, sanguinante tra le gambe.
E mentre lei urlava, invocando la madre terrena e quella celeste, lui la inchiodava a terra.
E ancora non si dava pace la piccina.
Crocefissa al suolo, invano pregava, supplicava, piangeva.
Sta zitta o t’ammazzo.
E lei provava a non chiedere più niente, ma il male era tanto.
E la paura ancora più grande.
Una farfalla infilzata al suolo.
E lui continuava a minacciare, zitta o t’ammazzo, dilaniandola col suo grosso pene sporco di terra e di sangue.
Zitta o t’ammazzo.
E non vedeva quanto inutili erano le sue minacce perché lei stava già morendo.
L’anima non l’aveva più. Portata via dal vento freddo e nero.
E la voce per piangere e per invocare, risucchiata nella gola, scivolata via col sangue tra le gambe.
Una cosina minuta, sotto l’uomo ebbro di sperma.
Un minotauro impazzito. Che non mi viene da definire in altro modo.
Mai vista tanta malvagità.
Che se avessi saputo, quando l’ho partorito, che nel mio ventre albergava una belva lo avrei seppellito vivo nel profondo dei visceri, negandogli da subito la luce.
Quel pugno di carne che avevo custodito nel grembo per nove mesi, e poi nutrito di latte e d’amore.
E cullato coi racconti di angeli e di fate.
Quel cucciolo caldo che pensavo sarebbe nato uomo e non belva.
Uomo e non Minotauro.
Avrei dovuto negargli l’aria prima che risucchiasse l’anima di questa piccina.
Ma non potevo sapere.
Non potevo.
Perdonatemi, per avergli dato quel giorno la vita.