SILENZIOSE TESTIMONIANZE
Sul balcone della casa dei Valduga fiorivano il geranio e il basilico, mentre la gabbietta vuota con la porticina spalancata, reiterava agli invisibili viandanti dell’aria la sua ospitale offerta.
Questo era ciò che alzando lo sguardo si vedeva. Niente trapelava, invece, dall’interno buio della casa. Mentre era facile, però, di mattina presto, vedere Maria Verena, o chiunque altra fosse, al balconcino, intenta a spazzolarsi i capelli.

«E’ una donna in carne e ossa.»
«Se ha messo in fuga il prete con tutte le sue protezioni altolocate, non può essere che un fantasma.»
«Di quali protezioni parli? quelle di Dio o del prefetto?»
«Orso dice che la figlia dei Valduga è morta partigiana.»
«Quello sarebbe disposto ad inventare qualunque storia in cambio di una bevuta.»
«Per come la vedo io racconta più verità lui da ubriaco che il prete da sobrio.»
«Ma pure se lei fosse un fantasma  non mi suscita lo stesso terrore che m’incute mia moglie.»
E quest’affermazione scatena l’ilarità generale.
«Eppure un modo ci sarebbe per accertarsi della verità, una verifica sul posto quando lei non c’è.»

ALLA RICERCA DELLA VERITÀ
Questa proposta, bocciata dalla maggioranza come atto lesivo della proprietà privata, era stata invece accolta con entusiasmo dalle solite teste calde, più per il gusto dell’avventura che per una ricerca della verità
…e già s’era delineato un piano molto semplice e all’apparenza privo di rischi, che per scassinare il portoncino d’entrata, corroso dal tempo e dalla ruggine, sarebbe stata sufficiente una piccola leva, e per tutto il resto, invece, buona vista e agilità di gambe se la situazione fosse precipitata.

Qualcuno dei presenti aveva tentato di dissuaderli da quell’impresa, ma a dir la verità con argomenti blandi e senza troppo fervore, subissati dagli incitamenti di quelli che invece li spronavano all’impresa, cosicché il gruppetto si sentì autorizzato a procedere nel suo piano.

…così, quando la donna era uscita col suo cane, il manipolo s’era subito messo all’opera per forzare il portoncino d’ingresso, che pure facilmente s’era aperto su un interno completamente buio, e dopo aver imprecato sulla dimenticanza di una torcia elettrica che avrebbe illuminato la scala sconnessa che recava alle stanze del primo piano, s’erano accinti a salire. Procedevano con cautela, celiando per farsi coraggio ma con i sensi tesi, pronti ad indietreggiare alla prima avvisaglia di pericolo quando, con scenografico tempismo, un rosso raggio di luce, filtrato da una crepa, si era posato sulla sagoma penzolante dal soffitto.

Il corpo di una donna, come testimoniava la lunga veste che dall’alto pendeva.

Ed eccoli gridare, a quello che faceva da palo, di chiamare soccorsi, che lì c’era il cadavere di un’impiccata.
…e già un ragazzetto correva a perdifiato lungo la strada del commissariato, e un drappello di volontari s’era posto sulle tracce di Maria Verena, mentre il dottore, che pure era nei paraggi, prese il controllo dell’operazione, impedendo l’accesso ai curiosi per non inquinare la scena del delitto.

 Ma non è una donna, è don Rigamonti, l’impiccato.
Aveva tratto in inganno la  tonaca, nel buio scambiata per un abito da donna.

«Ecco dunque che fine ha fatto il prete!»
«Mai partito, è sempre stato qui.»
«Lo ha ucciso lei!»
«Ma con l’aiuto di un complice, che quello era un omone e da una donna avrebbe ben saputo difendersi.»
«Gli avrà teso un tranello. Certe ne sanno una più del diavolo.»
«Ha fatto perdere le tracce. Volatilizzata. Aveva tutto programmato.»
«Eh si, non si sparisce così da un momento all’altro, qui c’è un piano ed un complice.»
«Ma il movente di questo delitto?»
«Una storia vecchia, di convento e di partigiani. Una vendetta.»

«O magari una giustizia.» Interloquisce Orso
«Tu ne sai qualcosa? Magari c’è anche il tuo zampino!»
«A  questo zampino ti riferisci?» E, con una risata roca, mostra il moncherino. «Sono un invalido ed un ubriacone, non riesco nemmeno ad allacciarmi le scarpe… figurati uccidere un uomo.»
«Ma tu la conosci quella donna.»
«Quella che conoscevo è morta, sepolta in montagna con tutti gli altri partigiani.»
«E allora basta scavare dov’è sepolta per confermare la tua verità.»
«Ho la memoria labile, conseguenza delle sbronze, perfino quando sono sobrio vedo insetti sulle pareti. Non saprei dove condurvi.»

«Io invece scommetto che lo sai. Certe cose non si dimenticano. Lo hai detto tu.» La voce del dottore sovrasta le altre.
«Ah, dottore, giungi sempre alle spalle!» E di nuovo quella risata cupa, senza allegria
«La verità, Orso, porterebbe giustizia anche nei confronti di quella donna, se un torto ha subito.»
«La verità non ha mai portato giustizia, dottore, almeno per quello che mi riguarda e per quello che ho visto. Limitati a curare i corpi, che è il tuo mestiere, perché a curare le anime ci pensano i preti.» Conclude, scolando il bicchiere.


LE VERITÀ SEPOLTE

Di  Maria Verena, o chiunque quella donna fosse, s’erano perse le tracce. La casa stessa sembrava essere sempre stata disabitata, con il mobilio coperto dai teli impolverati e le finestre sprangate.
…ma sul balconcino, però, erano rimasti a testimoniare della sua presenza i vasi del geranio e del basilico, e la gabbietta vuota.

«Non può essere andata poi così lontano a piedi.»
«Di certo avrà avuto un complice.»
«Che tempismo però, fuggita il giorno stesso del ritrovamento del cadavere dl prete.»
«Dici che qualcuno l’ha avvertita?»
«Che altra spiegazione può esserci?»
«Già…e neppure troppo difficile sospettare chi.»
«Orso?»
«Sicuramente.»

Dopo un estenuante interrogatorio, l’ex partigiano, però, venne rilasciato, che nessun reato si poteva ascrivere a suo carico, seppure s’era maturata la convinzione che fosse lui quel potenziale complice, non lo si poteva accusare di nulla, neppure di non ricordare l’ubicazione della fossa comune dove aveva raccontato di aver sepolto, con l’ausilio di Lupo, Maria Verena e gli altri partigiani.
Lupo era morto ormai da anni, portandosi nella tomba le sue verità, e scavare l’intera montagna per dare conferma alla storia di Orso, era quanto meno impossibile.
…e quanto attendibili avrebbero potuto essere considerate le dichiarazioni di un testimone come lui, alcolista all’ultimo stadio che nel corso dell’interrogatorio era caduto più volte in contraddizione smentendo ciò che l’attimo prima aveva dichiarato?
Quanto intenzionalmente?
Incriminarlo per reticenza e depistaggio quando, invece, si puntava al favoreggiamento?
Ma era un osso duro, Orso, e il suo gioco aveva saputo condurlo
… e così, alla fine, era stato rilasciato.

«E’ un uomo intelligentissimo, commissario, quello sa come sono andate le cose, ma gioca la carta dell’ubriaco.» Aveva asserito con convinzione il dottore.
«Ne sono certo anch’io, ma non possiamo muovergli nessuna accusa, almeno per ora, in attesa dei riscontri con la testimonianza di Bartolomeo Valduga, zio paterno di Maria Verena e unico parente ancora in vita.»

DESTINI IN AGGUATO
Appena arrivato, e contro ogni aspettativa, Bartolomeo Valduga, s’è da subito concesso alla curiosità pubblica scendendo dalla lussuosa berlina con l’ausilio del bastone e dello chaffeur, per una sosta ristoratrice nella bettola di quel piccolo avamposto dove un tempo ci aveva vissuto da padrone e dove ora vi aveva fatto ritorno da forestiero.
Poi, è risalito in macchina diretto alla volta del commissariato.

Un uomo dall’ossatura fragile e dal cuore impenetrabile: questa l’impressione che ne ricava il commissario, già dal primo scambio di battute, nonostante Bartolomeo Valduga si fosse mostrato affabilmente collaborativo.
«C’era stato quel progetto di matrimonio tra Maria Verena e il principe Giovanni Cuza Sigmaringen. Matrimonio combinato tra le due famiglie e conveniente per entrambe, perché quell’unione avrebbe portato nuova ricchezza nelle casse esangui del casato principesco in cambio di quel tanto agognato titolo nobiliare, ambiziosamente perseguito da mio fratello. In prospettiva di quelle nozze s’erano strette relazioni d’affari e consolidate intese politiche, soprattutto in seno al nascente partito nazista tedesco di cui il casato Sigmaringen era fervido sostenitore. Poi, a ribaltare i destini, c’era stata la morte prematura del principe Giovanni, promesso sposo di Maria Verena, che aveva prodotto nefaste conseguenze all’interno della sua stessa  famiglia, col suicidio della principessa madre, e poi con la rottura dei rapporti coi parenti di lei, di tutt’altre vedute politiche. Ma l’intesa dei Sigmaringen con la famiglia Valduga continuava ad essere stabile, addirittura il principe s’era proposto, con trattative ufficiose, di sposare lui stesso, ormai vedovo, Maria Verena.»

Bartolomeo Valduga s’è interrotto, fissando con lo sguardo acquoso dei vecchi un punto remoto, circoscritto nella memoria. Poi come riemergendo da quel lontano passato, riprende il suo racconto: «In realtà quella mia nipote è sempre stata una testa calda, ostinata e irragionevole, come possono esserlo le cosi dette ragazze moderne, che invece ai miei tempi, commissario, quando ero giovane io, sottostavano senza discutere, alla volontà di Dio e a quella dei genitori. E proprio per far capire a Maria Verena questo principio che venne chiesto l’ausilio di padre Rigamonti che molto si prodigò per il bene di tutti noi, ricevendo in cambio, da mia nipote, solo dileggio e  accuse infamanti, tra i quali quella di un tentativo di violenza carnale. Come si poteva credere a lei che scappava di notte, nonostante i chiavistelli e i cani alle porte, per raggiungere il campo degli zingari e comportarsi come una donnaccia? Uno scandalo che a mala pena riuscimmo a contenere, seppur qualcosa alle orecchie del principe era pervenuto, e così di matrimonio non se ne parlò più, perché si sa che il dubbio scava fossati e distrugge reputazioni, e questo determinò una rottura fra le nostre famiglie, perché il principe era un fervente hitleriano e lei s’era contaminata con gli impuri. Un piano ben orchestrato, da quella scapestrata, per far sfumare il matrimonio. Lei fuggì con uno di loro, ma a casa non viveva già più, che mio fratello l’aveva cacciata via, e neppure ha voluto si cercasse. La storia di Maria Verena in convento è stata un’idea di padre Rigamonti per far zittire le malelingue. Di mia nipote non abbiamo voluto sapere più niente, e a maggior ragione, quindi, non saprei dirvi se la donna vista nel nostro antico palazzo sia davvero lei o un’impostora.» Guarda il commissario negli occhi, e in tono severo chiede: «Perché nessuno è andato a farle visita, almeno per sincerarsi che non fosse un’abusiva nella nostra dimora?»

Il commissario assente, imbarazzato: «Si è dato per scontato che fosse lei… ma ha ragione, avremmo dovuto almeno verificare la sua identità dal momento che c’è qualcuno pronto a giurare che Maria Verena, che s’era fatta partigiana fu poi uccisa in un agguato e sepolta in montagna, in una fossa comune.» Spiega il commissario, offrendo al vecchio una delle sue sigarette, che lui cortesemente respinge: «Grazie, ma resto fedele alla presa di tabacco.» Dice, cavando di tasca un’elegante scatola d’argento, da cui pizzica una piccola presa da fiutare. Poi, in tono sottilmente caustico  suggerisce: «Per accertarsene basterà scavare nel luogo della sepoltura.»
«Sono passati tanti anni e il testimone non ricorda dove, e non è possibile sterrare un’intera montagna.»
«Per noi Maria Verena è morta da quando è fuggita con quello zingaro: una storia chiusa. Non l’abbiamo cercata allora, non intendiamo farlo adesso. Lei non fa più parte della nostra famiglia. Vi ho raccontato tutto, non c’è altro. Spero solo che troviate l’assassino di padre Rigamonti, un uomo di Dio che ha sempre perseguito il bene.»
E già gli porge la mano per accomiatarsi, quando il commissario lo ferma con un’ultima domanda: « Vi ricordate di Dante Cipriani, detto Orso?»
Bartolomeo Valduga scuote la testa in segno di diniego: «Non conosco nessuno con questo nome.»
«Non ricorda o non conosce?» Lo sollecita il commissario.
«Non conosco.» Risponde deciso il vecchio, stringendogli la mano prima di uscire.
Nel cortile la macchina lo attende col motore acceso.