Marco e Marta.
(terza parte)
Arrivato alla vecchia casa, aprì il portone della rimessa e fu investito dall’odore di nafta e benzina. Il trattore e le macchine agricole non c’erano più ma i bidoni vuoti dei carburanti erano sempre lì, addossati alle pareti e sempre più rugginosi. Era passata l’epoca nella quale quella rimessa era un fermento di attività e pullulava di vita. Spinse dentro la moto e la parcheggiò all’ombra lasciando il portone spalancato. Davanti al portone c’era uno strato di guano di piccione e dovette pulirsi le scarpette su una vecchia pezza impolverata abbandonata lì per terra.
«Merda nella merda!» imprecò.
Entrò in casa dal portoncino. Il sentore di chiuso e di stantio era forte ma l’odore di cenere e di focolare che impregnava quella casa gli piaceva e lo respirò a pieni polmoni mentre apriva finestre, tapparelle e porte. Davanti al focolare in cucina era pieno di frammenti di fuliggine caduti dall’alto del camino e schizzati sul pavimento a scacchi bianchi e neri.
«Quando mai avrò il tempo di chiamare uno spazzacamino?»
Tornò nella rimessa ed aprì l’intercetta dell’acqua, andò sul pianerottolo delle scale e riattaccò la luce. Accese le scaldabagno del pian terreno e fece scorrere l’acqua in tutti gli elementi del bagno finché non sparì del tutto il colore rugginoso dall’acqua.
«Ah se solo avessi potuto portarmi dietro Marta», pensò sospirando.
Si imponeva di pensare ad Anna e si ritrovava con Marta.
«Esattamente come dieci anni fa ho ancora la convinzione che mi ami. Ma… è finita, finita, che importa? Quanto sarò scemo? A sperare che potesse accadere un miracolo sono stato soltanto un pazzo».
«Ma possibile che dopo dieci anni mi è bastato rivederla per riaprire la ferita? Ed è possibile che sia così meraviglioso sognarla? Oh, Marta! Come farò ora ad uscire da questo garbuglio di bellezza e di pena? E come farò a non fare del male ad Anna ed a me stesso?»
«Però devo vivere, in qualche modo devo vivere. Mi passerà, in qualche modo farò».
Scartò la pubblicità che intasava la cassetta della posta e sistemò la corrispondenza. Spazzò per rimuovere il guano di fronte al portone della rimessa. Tolse la fuliggine dal pavimento della cucina, uscì nel cortile, lo spazzò ed estirpò l’erba secca che intasava il vaso del cactus. Salì al piano di sopra ed aprì tutti i rubinetti del bagno per spurgare i tubi anche lì.
Tornò giù, prese un accappatoio pulito dal comò e fece una doccia.
Si era fatta quasi l’ora di pranzo, prese le bollette ed andò all’ufficio postale per pagarle. Andò a casa della sorella e, pranzando e chiacchierando, il pensiero era sempre a Marta.
Ad un tratto ebbe una fitta al cuore e si portò le mani al petto.
«Oh! Che ti succede?» si allarmò la sorella.
«Non lo so, una piccola fitta, non è niente».
«Bevi un po’ d’acqua, chiamo subito il dottore».
«No, no! Non ho niente, è già passata».
Dopo pranzo si riposò un’oretta sul divano a casa della sorella.
Nel pomeriggio tornò alla vecchia casa, salì in cima alla lamia per dare una controllata, scese sul terrazzo del magazzino e spazzò le foglie secche portate dal vento. Visitò il vicinato, fece il giro dei parenti, salutò per strada vari conoscenti e andò a visitare il cimitero.
Dei vecchi amici in paese manco l’ombra: chi in vacanza, chi sparpagliato in Italia e chi a vivere sogni di vita in capo al mondo. Gli unici amici che incontrò e salutò furono quelli che riposavano al cimitero.
Tornò a casa, chiuse l’acqua, tolse la luce, chiuse le finestre, abbassò le tapparelle e prima di uscire per tornarsene a Leuca lo assalì nuovamente Marta. Per scacciarla aprì il cellulare e mandò un messaggio ad Anna su whatsapp:
«Sbrigate faccende. Stamani ho incontrato una vecchia compagna di classe, poi ti dirò. Ci vediamo tra un paio d’ore. Avete organizzato qualcosa per stasera? Dove vi trovo?»
Stava per uscire da casa ma riaprì la finestra, tornò indietro e si mise a rovistare nei cassetti della scrivania. Era un rito.
Vecchie carte, diplomi, antiche pagelle, lettere, attestati militari di promozione e di buona condotta. Decine di fotografie in bianco e nero. Diversi librettini di preghiere alcuni dei quali con copertina in simil-madreperla. Santini vari, un rosario.
I ricordi di sua madre lo emozionavano.
Dischi in vinile, musicassette, un vecchio walkman. Vocabolarietti mignon di inglese e francese. Una collezione di francobolli e una di assegni stampati dalle banche per supplire alla penuria di moneta circolante negli anni settanta. Una macchina fotografica russa degli anni venti che suo padre si era portato dietro al ritorno dalla campagna di Russia. Occhiali in disuso. Tre vecchi orologi.
Ricordi. Gioie, dolori, risate, gridate, nonni, parenti, amici, giochi. Prime comunioni, cresime, matrimoni. Occasioni perse. Affetti nascosti, repressi, non manifestati e non goduti. Sofferenze segrete. Errori commessi. La schiena diritta. L’ommo è ommo, non si emoziona e se succede non manifesta la sua debolezza. Abbracci agognati e mai arrivati, baci non dati, carezze ed abbracci negati, sensi di colpa. Momenti bui. I pianti di sua madre. Pianti, disperazione, tragedie, funerali.
«Bastaaa!» sbottò urlando con tutta la sua forza.
Dalle scale l’eco dell’urlo ritornò dal piano di sopra accavallandosi al rimbombo nel salone della scrivania.
«Meglio andare», pensò.
Nel walkman era inserita una cassetta, pigiò il tasto “on” ed incredibilmente si ritrovò ad ascoltare Venditti. Spense. Aprì il portellino delle pile e vide che non erano ancora esplose. Prese il walkman e gli auricolari, prese altre due musicassette, chiuse i cassetti, chiuse casa, indossò il casco, inforcò la Kawa, partì e, uscito dal paese, imboccò la statale in direzione Santa Maria di Leuca.
A Montesano si fermò per fare benzina e, prima di ripartire, si sistemò col walkman e con gli auricolari per ascoltare un po’ di vecchie canzoni durante il rimanente tragitto.
Il sole andava avvicinandosi all’orizzonte ed a tratti ebbe una qualche difficoltà trovandoselo di fronte. Ascoltando Venditti, il canto della Kawa diventò un sottofondo quasi impercettibile. Marco scacciava Marta per far posto ad Anna e si ritrovava con Marta. Metteva Anna seduta dietro di lui sulla moto, le chiedeva di abbracciarlo per assicurarsi a lui e sentiva invece l’abbraccio, il contatto e il profumo di Marta.
«Oh, Signore! Come devo fare?»
Ascoltando ‘Sotto la Pioggia’ si ritrovò ragazzo abbracciato a Marta mentre insieme guardavano la colomba ai piedi della statua.
«Maledizione!» si ritrovò a imprecare cercando di concentrarsi su Anna. Ma lui e Marta si abbracciavano ed insieme scaldavano e riempivano di speranza la colomba che volava alta sugli oceani, sulle nazioni, sulle bandiere, sulle frontiere, sugli steccati, sui cannoni dei carri armati, sulle bombe, sulle guerre, sulle alte ciminiere di Aushwitz, dei campi di concentramento, dei lager, delle persecuzioni razziali, delle vergogne dell’umanità. Pioveva ma lui e Marta non si bagnavano e Pertini era lì, il Presidente era lì che li osservava pensando agli operai e fumando la pipa dietro ai vetri appannati.
Si sorprese con gli occhi lacrimanti.
Accelerò per scuotersi dall’abbraccio di Marta e da quello struggimento. Con gli occhi troppo umidi riuscì a sbirciare il tachimetro senza distrarsi troppo e vide che segnava oltre i 150 ben sapendo che il limite era 90. Alzando gli occhi dal tachimetro decelerò e si ritrovò a sbottare ad alta voce: «maledizione!»
Il vento, nonostante la visiera, gli riempì prepotentemente la bocca fin quasi a spalancargliela. Conosceva bene quel fenomeno ed in un flash istantaneo realizzò che si stava distraendo; avendo visto il tachimetro segnare oltre i 150, non avrebbe dovuto aprire la bocca. Pensò che distrarsi e correre così su quella statale era da criminali e che non bastasse decelerare ma occorresse pure frenare anche se a quella velocità il freno occorresse dosarlo con dolcezza per non combinare guai.
«Stringiti forte a me, Marta», sognò.
Cominciò a dosare il freno, riguardò il tachimetro, vide che era sceso a 110 ma, rialzando gli occhi, a non più di cento metri davanti a lui vide un apino che attraversava lentamente la statale all’altezza di un incrocio a mezzo chilometro dall’ingresso di Alessano. Doveva evitare l’incidente, ebbe un attimo di terrore per Marta e strinse eccessivamente la leva del freno. L’ABS fece vibrare la moto ed impedì il bloccaggio delle ruote ma quando era certo di aver salvato Marta scongiurando il rischio di impattare sull’apino, la ruota posteriore perse aderenza su un piccolo dosso, la moto derapò, scivolò di traverso sull’asfalto e Marco fu costretto a mollarla.
«Martaaa!» urlò volando.
La moto colpì l’apino sull’estremo posteriore sinistro del cassoncino e proseguì scivolando sull’asfalto per un po’ di metri. L’apino fece un quarto di giro e rimase orientato contro-marcia sulla corsia. Marco, mollata la moto, cercò di scivolare mantenendosi in equilibrio in piedi sull’asfalto ma la gomma delle scarpette si aggrappò all’asfalto e Marco, cadendo giù, si rannicchiò, strisciò sull’asfalto, rotolò per una decina di metri e si fermò con un piccolo urto del fianco destro sulla cabina dell’apino. Rimase fermo per tre secondi, tirò un sospiro di sollievo, ringraziò il Signore di essere ancora vivo, si alzò e si tolse il casco. Si guardò intorno cercando Marta, realizzò che la stava solo sognando e tirò un sospiro di sollievo.
Era dolorante, con qualche abrasione e diverse contusioni ma non avvertiva traumi o ossa rotte.
Dall’apino scese un ottantenne tremante e bruciato dal sole; non aveva subito alcun danno né lui e né l’apino. Marco, giallo di paura, lo guardò; sotto le sue folte sopracciglia bianche intravide degli occhi azzurri terrorizzati e dolcissimi che gli ricordarono suo padre.
Marco si emozionò.
«No t’aggiu vistu propriu fiju meu, Madonna mia beddhra! E mo comu imu ‘ffare! Oh Signore meu beddhru! Comu stai, ci t’hai fattu? ‘Nchiana quai sullu cassone ca te portu allu dottore, fiju meu beddhru!» disse tremando l’uomo.
Marco, zoppicante e dolorante, si asciugò le lacrime con l’avambraccio destro che reggeva il casco e col braccio sinistro abbracciò l’uomo.
«Non si preoccupi signore, ho un po’ di botte e di graffi ma non mi pare di avere ossa rotte. Lei non mi ha visto e io correvo troppo. L’apino mi sembra che non abbia subito danni. Lei si è fatto qualche danno?»
«No fiju meu, crazie a Diu stau bonu, no m’aggiu fatti gnenzi, mancu na bottareddhra aggiu pijata! Crazie allu Signore e alla Madonna mia beddhra no m’aggiu fattu gnenzi».
«Grazie a Dio e alla Madonna davvero! L’importante è che lei stia bene. Io ho un po’ di abrasioni e contusioni ma non vorrei star qui a chiamare ambulanze, vigili o altro. Se lei è d’accordo ci scambiamo solo gli indirizzi ed i numeri di telefono, non si sa mai che ci servano, e ci salutiamo. Andrò poi da qualche parte per farmi medicare»
«Va ‘bbene, fiju meu beddhru! U Signore cu ‘tte iuta!»
Marco tirò fuori dal marsupio un biglietto da visita, lo diede all’uomo, gli chiese nome, indirizzo e numero di telefono, scrisse ogni cosa su One Note e cercò di congedarsi dall’uomo.
«A ru vai fiju! ‘Nchiana quai sullu cassone ca te ‘ccumpagnu allu dottore».
«No, grazie, andrò da solo da qualche parte e mi farò medicare. La moto non dovrebbe aver subito grossi danni…»
«Marco Maruggi,» si sentì chiamare «ci conosciamo, vieni ti accompagno al pronto soccorso. Sono Antonio Vantaggiato, sono di Botrugno, ti ricordi di me?»
Marco si girò, guardò l’uomo e solo allora si rese conto della folla che si era già formata e delle file di auto ferme in entrambe le direzioni di marcia.
Riguardò l’uomo.
«Antonio Vantaggiato di Botrugno. E certo che ti riconosco! Sei un anno più piccolo di me, frequentavi il Capece di Maglie e ci vedevamo quasi ogni giorno sulla corriera. Guarda, se non disturbo troppo, sei una manna che cala dal cielo, ti ringrazio. Sì, fammi solo parcheggiare la moto».
«Ma scherzi? Quale disturbo? Ti aiuto io con la moto. Stavo appunto andando all’ospedale di Gagliano, ti accompagnerò lì al pronto soccorso. Oltre a farti medicare hai bisogno di un minimo di accertamenti».
Marco gli strinse la mano, non seppe trattenersi e finì con l’abbracciarlo.
«Sei davvero gentile, grazie».
«Non scherziamo! Ci conosciamo, siamo quasi paesani. Andiamo», rispose Antonio Vantaggiato.
Tolsero la moto dalla strada ed il traffico ricominciò subito a scorrere. La Z750 era scheggiata e graffiata in più punti, aveva il faro fracassato ma ripartì al primo tentativo; Marco la parcheggiò su una piazzola poco distante. Cominciava a imbrunire e col faro in quelle condizioni non avrebbe comunque potuto andare lontano.
Antonio nel frattempo aveva ripreso la sua auto e si era avvicinato alla piazzola. Marco salì in macchina e partirono verso Gagliano.
RP01/10/2020
(continua)
Foto: Sopra la città – Marc Chagall