Introduzione.
Chiusa dentro un camerino di prova di un negozio di abbigliamento intimo, Carolina si sente soffocare.
La guepière di pizzo nero che sta cercando d’indossare la stritola come un’armatura; armeggia con gli ultimi gancetti, trattenendo il fiato mentre il suo seno troneggia spavaldo sopra la scollatura generosa a forma di cuore, tremolando come due cocomeri in gelatina ad ogni minimo movimento; due salsicciotti le escono prominenti dall’inguine sopra alle cosce.
Indossa un paio d’inconsistenti slip che sono spariti nelle voluttuose dune sensuali … o meglio, sono sprofondati nelle pieghe del grasso del basso ventre, infila i piedi in un paio di sandali neri alti almeno quindici centimetri e un senso di vertigine la coglie facendola barcollare; si appoggia alla precaria parete del minuscolo spogliatoio che traballa paurosamente.
Da fuori, una voce preoccupata dice:
«Signora, come va, serve aiuto?».
Trattiene il fiato qualche secondo prima di rispondere con voce strozzata all’indirizzo della sollecita commessa:
«Ehm, sì, forse è meglio …».
Era incominciato tutto qualche giorno prima, a casa, mentre Carolina aspettava il marito Osvaldo che, come il solito era in ritardo per la cena.

Parte prima.
«La prossima settimana è l’anniversario del nostro matrimonio», pensò Carolina, «ho in mente una “seratina” fantastica e dovrò sbrigarmi a inventare qualcosa di veramente unico e speciale».
La giornata era stata abbastanza noiosa, non avevano figli e, da quando era rimasta senza lavoro, si ritrovava a fare la casalinga a tempo pieno e a pensare a questo e a quello: non era un bene di sicuro.
«Devo trovare qualcosa per dare uno scossone al nostro matrimonio, prima che sia troppo tardi e mi si sgretoli tra le mani», mormorò, sedendosi sul divano e lasciandosi trasportare da dolci ricordi.
Pensò a quando e come si erano conosciuti, venticinque anni fa, a quando Osvaldo la corteggiava ed era pieno di attenzioni e premure; la invitava a cena, la aspettava sotto casa e si precipitava fuori dell’auto per aprirle la portiera e altrettanto per farla uscire, le aggiustava la sedia mentre si sedeva al tavolo del ristorante, le versava da bere e la guardava con occhi dolci e intensi mentre le raccontava tutto di lui tenendola per mano.
Le mandava grandi mazzi di rose rosse a ogni occasione, insomma, la trattava come una regina.
Dopo il matrimonio, poco a poco le cose erano cambiate. Erano aumentate le responsabilità sul lavoro, il bilancio di casa da fare quadrare, il mutuo della casa, l’auto da cambiare e… non aggiungiamo altro, è meglio.
«Sono i problemi quotidiani che rovinano la poesia», pensò.
«Adesso funziona così, se tardo a entrare in auto mi urla esasperato»:
«Allora!»
«Che fai, vuoi sbrigarti?» e, se tardo a uscire:
«Che c’è, ti muovi o no?».
Poi a voce alta esclamò:
«Addio cavalleria! D’altronde noi donne abbiamo lottato per ottenere la parità tra i sessi, l’abbiamo ottenuta e adesso “silenzio”, va bene così».
Si avviò verso la camera e osservò il suo aspetto nel grande specchio, con occhio critico: i capelli neri, che un tempo portava lunghi e lisci sulle spalle, erano tagliati più corti ed erano punteggiati da qualche filo bianco; la sua figura, un tempo snella e aggraziata, si era appesantita e il ventre piatto era stato sostituito da una pancetta poco eccitante.
«Non voglio dire che sono un mostro ma, insomma, non sono più quella di una volta», commentò girandosi e rigirandosi, trovando tutti i difetti possibili.
Certo è che, non essendo molto alta, un metro e cinquantacinque centimetri, per essere precisi, i chili di troppo si erano impossessati del giro vita, dei fianchi, delle cosce e … avevano arrotondato un po’ troppo la sua figura …
«Devo inventarmi qualcosa», disse pensando al marito che, a dire il vero, non era più il giovane aitante che aveva conosciuto, ma lei lo amava ancora come allora.
E’ vero, era diventato più distratto, la pancetta aveva preso il sopravvento, i capelli si erano diradati ed erano oramai tendenti al bianco, dimenticava spesso le ricorrenze e gli anniversari, ma lei sapeva che, nonostante le apparenze, la contraccambiata e questo le bastava (o forse no?).
Poi, stanca, se ne andò a letto senza aspettarlo e sorrise nel buio perché le erano venute in mente certe cosette …
L’indomani mattina, marito e moglie iniziarono la giornata come il solito e, dopo un caffè, si salutarono e Carolina, uscito il consorte, prese il telefono e fissò un appuntamento dalla parrucchiera, poi, si chiuse in bagno per depilarsi:
«Se avessi avuto più tempo, sarei andata dall’estetista, ma posso fare da sola», borbottò convinta cercando la ceretta nell’armadietto, affianco alla specchiera, dietro a mille cosucce, alcune assolutamente superflue e da buttare.
Mentre scaldava la cera, si spogliò canticchiando, poi, in slip e reggiseno, si sedette sul bordo della vasca con le gambe divaricate e cominciò a spalmare l’intruglio con l’apposita paletta; fece aderire bene il tutto alla pelle con lievi ed esperti colpetti, aspettò che si solidificasse poi, inspirando profondamente, dette uno strappo deciso.
Un dolore lancinante le attraversò il cervello, per poco non cadde all’indietro con il rischio di sfracellarsi, soffocò a stento un urlo alla “Tarzan”, si morse il labbro inferiore producendo altro dolore, si prese la testa tra le mani imprecando:
«Caxxo, che male!» e rimase accecata dalle lacrime e senza respiro per parecchi secondi.
Si riprese: «E una …», sospirò osservando l’inguine destro gonfio e arrossato, che pulsava lanciando appelli disperati di “al fuoco, al fuoco”.
Prima di ripetere l’operazione sulla parte sinistra, meditò a lungo, inspirò profondamente, liberò la mente dal corpo, tipo rilassamento yoga, poi altro “strappooo!”, altro dolore, altre lacrime …
«Si sa che per diventare attraenti qualche sacrificio bisogna farlo», s’incoraggiò rassegnata.
Il bruciore era intenso, cercò una crema anti arrossamento, calmante, decongestionante, insomma, anti tutto e, si spalmò uno strato generoso su ambo le parti; per le gambe e le ascelle, vista la tragica esperienza appena conclusa, prese la saggia decisione di depilarle con il rasoio.
Poi, muovendosi lentamente a gambe larghe, le ginocchia leggermente piegate, uscì dal bagno barcollando come uno zombi e si diresse verso il salotto sdraiandosi su una poltrona per riprendere fiato.
Durante i giorni successivi, sparse per la casa, nei luoghi “preferiti” da Osvaldo, significativi messaggi: un piccolo tanga “inesistente”, un reggiseno a balconcino di pizzo nero, una calza autoreggente …, per passare a oggetti ancora più espliciti: sul seggiolino di fronte al water, dove c’erano le sue riviste di auto, e dove lui “meditava” ogni mattina, posò il libro “Cinquanta sfumature di grigio”; sul suo tavolino da notte, accanto al letto, “Cinquanta sfumature di rosso” e, la penultima sera, “Cinquanta sfumature di nero”…
Risultato:
«Stai bene? Negli ultimi giorni ti vedo un po’ distratta e disordinata» e poi, senza alzare gli occhi dal giornale, mentre beveva il suo caffè mattutino:
«Cosa caspita ti sei messa a leggere?», disse ponendole sotto gli occhi la copia di “Cinquanta sfumature di rosso” che lei aveva appoggiato “sapientemente” sopra il giornale.
«Mah, allora non ha proprio capito un accidenti!», gli sussurrò il suo cervello avvilito.
«Così, niente, tanto per cambiare un po’», farfugliò lei con un leggero tono neutro.