Ma si può?

Non potete capire come mi sento oggi, quanto io faccia fatica a sentirmi scomodo nella nuova veste che ciò che mi è capitato in questi giorni mi ha cucito addosso. E dire che sono un sarto, anche se in pensione da un po’, e di aghi, fili, stoffe, spilli me ne intendo.
Sarto da uomo, esclusivamente da uomo; scelta obbligata da due fattori: Sartori, il mio maestro – e già il nome era tutto un programma – era un sarto da uomo e basta, quell’arte mi ha insegnato e nient’altro, e la mia incapacità a rapportarmi con il mondo femminile ha fatto il resto. Non che non mi piacciano le donne, é che non ci sono mai andato d’accordo: troppo impiccione, critiche, prodighe di consigli non richiesti e si sbagli a dir loro che gli vuoi bene si montano la testa, peggio di un generale romano eletto a imperatore, e ti comandano a bacchetta.
E poi io sono un abitudinario per scelta pragmatica: evito accuratamente qualsiasi complicazione. E lo so bene che la gente dice che sono un orso svegliato nel bel mezzo del letargo e dunque tempre incazzato e brontolone e mi va bene così, più la gente mi evita e meglio è.
Troppo complicati, fastidiosi e scomodi, i rapporti umani.
Ma vi dicevo della nuova veste scomoda, appunto, e per farlo devo spiegarmi, raccontarvi come e perché quella veste mi è stata, mio malgrado, cucita addosso.
Il destino ha scelto la stoffa la mattina del 24 dicembre. Non che io sapessi che giorno fosse, da quando sono in pensione non lo so mai. Lo so adesso. Come sempre mi ero svegliato alle otto e dopo essere passato dal bagno e vestito sono uscito, ho attraversato il parco pubblico davanti casa per recarmi dal tabaccaio-giornalaio che sta sul lato opposto del suddetto e, sigaretta in bocca e giornale sotto al braccio, stavo tornando verso casa quando il destino bastardo ci ha messo lo zampino.
Di solito, a meno che non faccia troppo freddo, e quella mattina soffiava caldo lo scirocco, mi fermo a meta giardini, sempre sulla stessa panchina, e, finendo la prima sigaretta della giornata, leggo i titoli degli articoli del giornale. Il resto dopo, a casa, con comodo.
Negli anni non avevo mai trovato la panchina occupata, ma quel giorno si. Certo non è l’unica panchina del parco, ma come ho già detto io sono un orso abitudinario e ho sempre considerato mia quella determinata panchina e trovarla occupata mi ha irritato.
La mia sosta era occupata da una giovane donna bionda, ben imbacuccata nel suo piumone bianco, un sciarpa e un cappello di lana, sempre bianchi, pantaloni e stivali neri. Seduta accanto a lei un bimba, tutta ricci neri, giaccone blu, stivali di gomma rossi e gambette gialle a penzoloni dalla panchina.
Stavo decidendo di passare oltre – mica potevo farle sloggiare, che per farlo mi sarebbe toccato parlare, comunicare, instaurare un rapporto, anche se conflittuale – quando le due occupanti abusive si sono alzate in tutta fretta e se ne sono andate. Meglio così, ho pensato, si torna alla normalità.
Preso possesso del mio scranno quotidiano ho aperto il giornale: politici che litigano, gente che si ammazza, profughi malvisti da chi è appena più ricco di loro, ricchi mal visti da chi è appena più povero di loro. Tutto nella norma, insomma. Come disse l’ammiraglio Nelson “No news is good news”.
Sollevato dalla catastrofica normalità del quotidiano terraqueo ho chiuso il giornale e me ne stavo andando quando mi sono accorto che sulla panchina era stata dimenticata una bambola di pezza.
Sicuramente l’aveva dimenticata la bambina di prima. Sarebbe stata anche carina, la bambola, se non le fosse mancato un occhio, che poi era un piccolo bottone blu, non avesse il vestitino di un rosso stinto e le cuciture, Dio mio, quelle inguardabili cuciture e l’altrettanto inguardabile rammendo sul ginocchio della gambina destra.
Non so cosa mi sia preso, deformazione professionale, credo, ma a quell’obbrobrio di cuciture e rattoppi non ho resistito, non poteva esistere, era un insulto all’arte della sartoria, al mio mestiere, a me, personalmente.
Senza pormi domande ho raccolto la bambola con l’intenzione di riparare l’offesa alla mia arte. Di cosa ne avrei fatto della bambola dopo averla ricucita a dovere non ci ho pensato minimamente, era una complicazione e dunque…
Arrivato a casa ho cercato nei cassetti, nelle statole di cartone che tengo sopra all’armadio della camera e un po’ ovunque i miei ferri del mestiere e gli scampoli: lana pettinata, misto lana, seta, misto seta, chinè, cotone, colori, righe, quadri, coste, pelle, finta pelle e così via. Tengo sempre tutto e dieci minuti dopo quel tutto era sparso sul tavolo di cucina. Non avendo più la sartoria non ho più il mio bel banco dove misurare e tagliare le stoffe, ma tanto il lavoro che volevo fare non richiedeva tutto quello spazio. Un tavolo e una sedia bastavano. E anche di tempo, pensavo, di averne. Non avevo fatto i conti con la mia vista balorda che ogni anno peggiora, senza contare che anche l’agilità delle mie mani non è più quella di un tempo. E poi mi ero avventatamente lanciato in un campo sconosciuto: un abito da donna, da bambola, insomma da femmina. Mica sono una modista. Fortunatamente avevo nell’abito consunto e macchiato della bambola il modello. Scucirlo per studiarlo è stato un tormento; tutti quei punti fatti male, mal distanziati, che tiravano ora di qua ora di la m’innervosivano. Ma alla fine avevo il mio modello. Ma non mi piaceva per niente. Purtroppo fra tutti quegli scampoli non c’era nemmeno un foglio per confezionare un cartamodello e così per farne uno ho usato le pagine del giornale che ancora non avevo letto. Ne ho usate parecchie di pagine prima d’essere soddisfatto del nuovo modello, la mia creazione. Creazione che in verità non era poi tanto diversa dall’originale, solo tagliato un po’ meglio. Prima di confezionare l’abito ho pensato al rammento, tutto da rifare, sul ginocchio della gamba destra della bambola. Trovata la giusta la tonalità di rosa carne fra i miei rocchetti di filo mi sono messo all’opera. Perfetto. La differenza si notava appena per via che il mio filo era nuovo e il tessuto della gamba doveva avere diversi anni. Forse la bambola era stato della madre della piccola. Mentre rammendavo mi sono accorto che il colore dei piedi era migliore, meno sbiadito, del resto; ne ho dedotto che un tempo quei piedini calzavo delle scarpe e per quel motivo i piedi erano meno sbiaditi: meno sole, meno sporco. E così, contrariamente al mio solito, mi sono complicato la vita cucendo due scarpine semplici con della finta pelle rossa che avevo lì. Anche la bimba, ricordai in quel momento, calzava degli stivali di gomma rossi, prima, quella mattina.
Si perché nel frattempo le ore erano passate, doveva essere già pomeriggio e non avevo pranzato. Non avevo voglia di sbaraccare il tavolo, mettere la tovaglia e il resto per pranzare, e così mi sono fatto un panino in piedi con un paio di bicchieri di vino, che non dovrei bere, ma al diavolo.
Lavorare mi sta bene, ma stravolgere le mie abitudini no. Dopo pranzo dormo sempre una mezzora e volte di più: Mangio male? digestione lenta? Va bene così. La mezz’ora è diventata due ore buone per via del vino e quando mi sono svegliato ho trovato la bambola nuda sul tavolo e lo stesso quasi sgombro. La mia gatta Matilde aveva sparso per mezza casa scampoli e rocchetti di filo. È vecchia Matilde, di solito mangia, dorme e non la si sente, ma tutte quelle cose colorate e fruscianti sul tavolo devono averle risvegliato l’istinto da cacciatrice. Raccolto il tutto ho iniziato con il vestito. Camicetta bianca in popeline, Gonna gonfia e giacchetta rosse di cotone, scialle bianco di lana con il bordo dorato e le scarpine rosse che avevo fatto prima di pranzo. Non ho trovato un bottone uguale a quello che le era rimasto per occhio e allora li ho sostituti entrambi con due bottoncini azzurri di vetro.
E si era fatta sera. Non sono più abituato a lavorare e dunque ero bello stanco. Non ho nemmeno cenato. Mi sono messo a letto a leggere un vecchio libro di Carlo Cassola – Tempi memorabili – che avevo trovato giorni fa, ristampato in edizione super economica, dal giornalaio. Non avevo mai letto niente di Cassola ma ne conoscevo nome e fama.
Marina di Cecina, l’estate, il mare, poche pagine e buona notte.
La mattina dopo mi sono svegliato stranamente tardi, e si che avevo anche fame e in casa non avevo niente; mi capita abbastanza di frequente di perdermi e dimenticare di fare la spesa. Come se avessi da fare chissà che. Fortuna che le scatolette per Matilde le compro venti o trenta alla volta. Il supermercato è lontano e ci passo solo una volta al mese: detersivi, scatolame per me e per Matilde. Ah no, anche la sabbia per la lettiera e la carta igienica. È lei, la carta igienica, con l’ultimo rotolo a ricordarmi che le scorte stanno finendo e un allarme simile non lo si può ignorare.
Ho deciso che per una volta avrei fatto colazione al bar, ma non prima di aver riportato la bambola sulla panchina. Mica era mia, qualcuno sarebbe tornato a cercarla. E poi va bene passare da orso ma da ladro no. Ci mancherebbe.
Vestito come al solito sono sceso in strada e lì il destino ha calato la seconda carta: un metro di candida e intonsa neve. Un metro! Erano quasi trent’anni che non vedevo così tanta neve e la neve non fa rumore, anzi zittisce tutti i suoni. Ecco perché mi ero svegliato tardi.
Ero lì impalato come un baccalà, infreddolito perché ero vestito troppo leggero, con la bambola in mano, quando Teresa è comparsa al mio fianco, mi ha sorriso come fa sempre e notando la bambola non è riuscita a farsi gli affaracci suoi e dunque: “Che ci fai con quella bambola. Ma come ti sei vestito, non ti sei accorto che ha nevicato e che neve? Ma stai tremando, ti ci va un caffè, qualcosa di caldo. Una grappa? Su su andiamo qui dietro al bar che ti riprendi.”
Ora dovete sapere che Teresa mi conosce da sempre, dalle medie, e che è una di quelle persone gentili e premurose – anche appiccicose – che non le smonti o le fai arrabbiare qualsiasi cosa tu dica o faccia. Di una gentilezza patologica. È anche l’unica bella donna che abbia quasi provato a portarmi all’altare, ma questo tanto tempo fa, si era giovani. Memore dei trascorsi non ho saputo dirle di no. Sempre i trascorsi mi hanno fatto dimenticare che l’interrogatorio sarebbe continuato al bar e io non sapevo cosa inventarmi per giustificare la bambola.
Il bar dove mi ha portato Teresa sta appena dietro l’angolo del mio palazzo. Non c’ero mai entrato. Veramente non entro da tempo in nessun bar, tocca aprir bocca e c’è sempre qualcuno che non mi conosce che attacca bottone con un pretesto qualsiasi. Quel nuovo bar – nuovo per me – era molto femminile. A partire dai centrini sui tavoli a decine e decine di cuori colorati, ricamati, traforati, corredati di scritte mielose, fatti con rametti intrecciati, infiocchettati. Dietro al bancone c’era una donna che ha salutato cordialmente Teresa e squadrato me da capo a piedi, senza però commentare. Un’occhiata di Teresa le ha detto che poi dopo… E lì, con il caffè davanti, l’interrogatorio è ripreso.
La verità, nient’altro che la verità, era la mia sola salvezza, anche se dovevo ammettere la stranezza del mio comportamento. Ne è venuto fuori che Teresa conosce quella madre e la bambina – e ti pareva se Teresa non sa tutto di tutti e conosce tutti – e che la famigliola, senza però il padre che lavora all’estero per una grossa ditta che non ricordo cosa faccia, povera signora Alina, che non è neanche italiana, d’origine, solo d’origine, che sono tanti anni che vive qui, ancor prima che si sposasse con quel bravo figliolo di Donato, proprio un bell’uomo, abita lì, proprio sopra al bar.
Bar che io non avevo mai neanche notato.
Come faccia Teresa ad infilare tutte quelle parole senza prendere fiato è un mistero.
Così si è deciso – Teresa ha deciso – che visto che eravamo lì saremmo saliti dalla signora Alina e la bambina che sarebbe stata sicuramente molto contenta di riavere la sua bambola, oltretutto rimessa a nuovo. E poi era Natale. Perfetto. “È il giorno perfetto per la bambola.”
Il giorno perfetto per la bambola?, mi sono chiesto non capendo il sottile ragionamento di Teresa.
E sia, ormai non potevo più tirarmi indietro e siamo saliti.
Ora direte: ok sei salito, hai ridato la bambola a una bambina felicissima, la madre ti ha ringraziato mille volte, hai salutato Teresa e, finalmente sei tornato a casa. Casa dolce casa silenziosa, senza nessuno intorno, solo tu e Matilde.
Magari fosse andata così. Magari.
Di tre femmine così non te ne puoi liberare facilmente, si coalizzano, ti coinvolgono tuo malgrado, ti ricattano, fanno le finte offese se solo provi a svicolare, la più piccola ti si arrampicava addosso, la madre ti presenta come un vecchio zio, alla matura scende una lacrimuccia a vederti con la bambina in braccio e sei fregato. In men che non si dica hanno organizzato il pranzo di Natale, tu lì a coccolare la piccola ascoltando le mille avventure della sua bambola e loro a spentolare in cucina.
Torniamo al vestito, quello cucitomi addosso dal destino.
Grazie a Teresa questa storia della bambola farà il giro della città e mi toccherà sopportare le belle parole di un sacco di gente che magari nemmeno conosco, manco di vista, e poi il nome, il nomignolo che mi ha affibbiato Giulia, la bambina, Dio mio.
Zio Natale.
Ma si può?