Hai mangiato?”

“Perché mi fai sempre la stessa domanda quando conosci già la risposta? Sì ho mangiato. Anche questa mattina ho fatto il mio solito giro dei bar. Nel primo ho mangiato quattro cornetti, nel secondo tre ciambelle, nel terzo due girelle. Ma adesso lasciami guardare in santa pace un posto al sole”.

“Un posto al sole? Ma Giada tu sei mia sorella e io non posso più vederti conciata in questo modo. Sono anni che vai avanti così. Ti sei guardata allo specchio? Ti prego, fai qualcosa.”

Così dicendo esce di casa sbattendo la porta. Un po’ scossa dalle parole di mia sorella, mi dirigo in camera da letto e mi guardo allo specchio. In effetti la mia immagine riflessa non è rincuorante. Da anni, ormai, indosso tute informi per nascondere il mio grasso traboccante. Prenderei i rotoli di ciccia e me li strapperei di dosso con le unghie. Anche per questo mio corpo obeso non ho mai avuto un uomo e mi sono sempre sentita brutta e non degna d’amore. E ho già quasi trent’anni.

Avvilita mi siedo sul bordo del letto, mi prendo la testa tra le mani e cerco di ricordare quando è cominciata questa mia lenta autodistruzione con il cibo.

Da bambina vivevo con mia madre e mia sorella in un grande appartamento nei pressi della batteria Nomentana a Roma. Mia sorella era più grande di me e già pensava esclusivamente alla sua vita. Mia madre era rimasta vedova giovane dopo avermi dato alla luce e il suo carattere si era completamente inaridito. Fin dai primi anni della mia vita lei prestava molte poche attenzioni nei miei confronti. Così crescendo stavo sempre nella mia stanza a giocare da sola. Mi faceva sentire quasi in colpa di essere nata. Alle amiche che venivano a farle visita non faceva altro che dire che aveva desiderato da sempre un figlio maschio. E io, anche se ero ancora molto piccola, capivo i loro discorsi e ne soffrivo. Con il tempo capii che diceva la verità. Intanto a scuola riscuotevo i miei primi successi. Le maestre mi lodavano e quando iniziai le medie alla Massimo D’Azeglio ero la migliore della classe. Ma ciò non bastava a rendermi felice. Avevo sviluppato un carattere molto introverso, ero spaventata da tutto e di tutti e naturalmente non avevo amici. Il clima a casa continuava a non essere dei migliori. Io e mia madre non comunicavamo. Si parlava solo per le cose indispensabili. Il momento più brutto della giornata era la sera. Mia madre che faceva la sarta si metteva in soggiorno a fare asole, orli, pieghe e colletti, a capo chino e in silenzio anche perché era preoccupata di non riuscire a pagare tutte le bollette che arrivavano a casa regolarmente. Ne parlava spesso con mia sorella ed io sentivo i loro discorsi che, naturalmente, mi davano dispiacere. Per quanto mi riguardava stavo sempre sola nella mia stanza a guardare la televisione che avevo in camera. E di nascosto mangiavo un biscotto dietro l’altro. Il cibo mi faceva compagnia. Poi accadde il peggio. Come ci si aspettava mia madre solo con il suo lavoro e i pochi soldi che le aveva lasciato mio padre e che, non si sa come, ancora custodiva gelosamente,  non riusciva più a mantenere la casa. Così fummo costrette a cercarne una più piccola sempre nei pressi di Montesacro. Qui, anche per il dolore di aver cambiato casa, aprii le porte alla vera e propria bulimia. Mangiavo di tutto: marmellate, cioccolata, ma soprattutto merendine. Finita una confezione ne aprivo un’altra, poi un’altra ancora. Senza pace. Tutto quello che mangiavo era per colmare il mio grande vuoto affettivo. E mia madre sembrava non accorgersene. Poi lei, improvvisamente venne a mancare perché in strada venne investita da un camion. Provai dolore anche se il nostro rapporto era stato da sempre problematico. In casa mancava la sua presenza silenziosa. Così mia sorella che, si era separata da poco, venne a vivere con me. Io non facevo altro che mangiare e andare in bagno a vomitare. Avevo l’accortezza di tirare più volte lo sciacquone per non far sentire i rumori della vomitata. Ma un giorno mia sorella, che aveva intuito il mio problema, aprì la porta del bagno e mi domandò a brutto muso:

“Da quanto tempo vai avanti così? Devi rivolgerti a uno psicologo”

Io non lo feci e dal quel momento, quasi quotidianamente, iniziò a tormentarmi con la domanda:

“Hai mangiato?”

E così sono arrivata fino ad oggi.

Un rumore alla porta interrompe il flusso dei miei pensieri. E’ mia sorella che è già di ritorno. Mi raggiunge in cucina e mi dice: “Mi sono ricordata che in passato hai preso un diploma OSA. Almeno a scuola eri brava. Perché non ti valorizzi un po’ e lo tiri fuori dal cassetto?”

“Per fare cosa?”

“Ho saputo che in zona c’è una casa di cura per anziani dove potresti prestare assistenza ai nonnetti. Io penso che, lavorare in questo contesto ti può essere d’aiuto.”

“Ci penserò.”

Nei giorni seguenti rimugino spesso sulle parole di mia sorella. In effetti lavorare in un ambiente del genere non mi dispiacerebbe affatto. Così il giorno dopo telefono e prendo un appuntamento con la responsabile della casa. Per l’occasione vado dal parrucchiere, indosso degli abiti più presentabili e mi sento già meglio. Prima del colloquio la direttrice mi fa visitare i locali. C’è un ampio ingresso, un grande salone e una mensa che affaccia su un bellissimo giardino dove i nonnetti prendono il sole e socializzano fra di loro. Il colloquio va bene e la mattina seguente inizio a lavorare. La mia occupazione consiste nell’apparecchiare e sparecchiare la tavola per loro, nello spazzare e lavare in terra. Alla fine di questo lavoro devo intrattenere i nonni. Parlo con molti di loro ma, per me, il più simpatico è il signor Cesare. E’ un uomo che ha all’incirca ottant’anni ma portati bene. Con il buon senso e la saggezza dei suoi anni mi fa lezioni di vita. Per me è come un padre. Quello che non ho mai avuto. Lui però è anche un uomo molto giovane dentro. Difatti mi parla delle sue danze nelle balere del porto di Genova, del suo lungo fidanzamento con la moglie Titina, dei suoi figli di cui però, parla male perché l’hanno abbandonato in questa casa di cura. Anch’io con il tempo gli parlo di me e della mia bulimia. Lui inorridisce, mi dice:

“Ti stai uccidendo con le tue mani ma, è inutile che te lo dico perché, se non decidi con la tua testa non smetti mai. E’ come tutte le dipendenze. Però facciamo un esercizio. Fai un elenco di tutto quello che mangi quotidianamente e giorno dopo giorno cerca di eliminare qualcosa.”

Forte del rapporto con il signor Cesare, nei giorni seguenti mi impegno nell’esercizio e piano piano inizio a mangiare regolarmente. Nel giro di pochi mesi perdo non si sa quanti chili. Finalmente getto via la miriade di tute informi che sostituisco con tanti abitini all’ultima moda che indosso con fierezza perché finalmente mi piaccio e comincio a piacere. Gli uomini quando cammino per strada mi guardano. Finalmente mia sorella è contenta e non mi pone più la solita domanda :”

“Hai mangiato?”

Sa che adesso ho tante altre risposte da dare. Naturalmente è contento soprattutto il signor Cesare. Ma presto arriva il peggio. Un giorno avviandomi verso la clinica vedo tanta gente, un’ambulanza e una macchina dei carabinieri. Mi avvicino e mi dicono che il signor Cesare nel cuore della notte è morto a causa di un infarto. Scoppio a piangere e nei giorni seguenti, sono sempre molto triste e malinconica ma con il tempo prendo confidenza con tante altre persone anziane.

In questa casa di riposo ho conosciuto altre vite interessanti ma non ho mai dimenticato il signor Cesare, la persona che mi ha aiutato a guarire.