IL MIO PRIMO AMANTE
Il mio primo amante l’ho avuto a 16 anni.
Era il mio professore di disegno.
Un uomo molto bello. E molto fragile.
Mediocre pittore ( inutilmente aveva tentato l’ambiente artistico) ed altrettanto mediocre insegnante.
Un uomo irrealizzato ma non rancoroso verso quel destino che non aveva saputo percorrere.
Comunque di buon grado rassegnato a diventare, col trascorrere del tempo, indolente e sempre più distante da quella che una volta era stata la sua passione.
Era un uomo fisicamente molto affascinante, e di questa sua dote se ne serviva per far colpo, ed ottenere favori, dalle ricche madri delle sue allieve.
Le signore erano estasiate dalla sua presenza e sempre pronte a soddisfare ogni richiesta del professore così somigliante ad una rock star.
E lui usufruiva, senza farsi troppo pregare, di tutto ciò che spontaneamente gli veniva elargito.
Conquistare le donne gli riusciva facile.
Ironico e brillante, sapeva irretire con una intelligenza pronta ed intuitiva.
Aveva successo anche con le studentesse che scrivevano di lui nei diari e raramente mancavano alle sue lezioni.
Mai, però, aveva tentato approcci verso qualcuna di loro consapevole dei rischi che questo avrebbe comportato, contentandosi delle loro madri che generosamente premiavano le sue attenzioni.

IO
Non ho mai avuto talento per il disegno e la pittura.
Non ho la pazienza né la manualità necessarie per creare.
Non ho mai nutrito alcuna passione per questa arte, e non mi è mai importato nemmeno far finta d’interessarmi alle sue lezioni.
E d’altronde, come ho già detto, lui era davvero un insegnante mediocre.
Non profondeva alcuna passione verso la sua materia. Né la esigeva.
Al pari di me se ne estraniava.
Apparentemente indifferente al fascino delle sue allieve, avevo però colto, spesso, il suo sguardo su di me.
Uno sguardo subito distolto appena davo segno di avvedermene.
Quel gioco di sguardi riempiva la lentezza e la noia di quelle ore.
Quell’uomo così popolare, ambito dalle donne adulte, che mi guardava di nascosto per non essere colto in flagranza di peccato, m’incuriosiva.
Mi affascinava.
Gratificandomi di un piacere sconosciuto. Umido.
Leggevo nei suoi occhi la richiesta esplicita che reclamava il mio grembo ancora di bambina.
Quel grembo che sotto i suoi sguardi e nella costrizione dei jeans illanguidiva nel piacere bagnato di una donna.

UNA RELAZIONE PERICOLOSA
Cambiai di banco e passai nel primo. Smisi i jeans e iniziai ad indossare le gonne.
Sotto il banco accavallavo le gambe stringendo le cosce, o le divaricavo, in modo che lui vedesse la mia intima oscurità.
I nostri sguardi s’ agganciavano. Gli sorridevo, e solo allora lui, colto in fallo a spiarmi, distoglieva i suoi occhi da me. Evitava di chiamarmi alla cattedra per timore che nel pronunciare il mio nome la sua voce tradisse il desiderio. I miei voti erano ottimi nonostante non producessi nulla di artistico, e questo destò perplessità fra le mie compagne, malumore nella compagine del fan club delle madri, e suscitò qualche illazione di troppo nel corpo insegnante.

Per un paio di settimane non venne a scuola, così andai a cercarlo a casa sua. Quando aprì la porta rimase per un attimo sorpreso e poi brutalmente, senza parlare, mi trascinò nella sua camera da letto. Facemmo l’amore senza neppure toglierci i vestiti tanto il desiderio bruciava i nostri sensi.
Io non avevo mai fatto sesso con nessun altro: fu quella la mia prima volta e lui il mio primo uomo.
Fu al medesimo tempo divino e bestiale. Il mio nome, che per tutto quel tempo s’era imposto di non pronunciare, gli fioriva sulla bocca come bava di lupo. A volte era rantolo. Altre bestemmia. Altre ancora supplica. Mi fece male. Gli feci male. Gli restituivo la brutalità e la dolcezza con lo stesso impeto con cui me le impartiva. Non personalizzavo e neppure improvvisavo. Ero lì per imparare, e lui, in questa materia, si rivelò essere un magnifico insegnante.
Saltavo spesso le sue lezioni a scuola ma mai un nostro appuntamento. Parlavamo poco, entrambi consapevoli del divario degli anni e dei reciproci interessi: l’unica affinità che ci legava era quella del sesso, e consapevolmente a questa ci attenevamo.
Sesso pomeridiano, da cui erano bandite le albe e i tramonti, e tutta la paccottiglia romantica che ne derivava.
Pomeriggi ardenti, burrascosi, primitivi. Pomeriggi nudi. Di niente altro avevamo bisogno.

In classe continuammo nel nostro schema usuale, tranne il fatto che avevo smesso di provocarlo.
I miei voti, dei quali in realtà non m’importava nulla, avevano subito una discreta flessione in discesa, il risultato di un paio di striminzite interrogazioni da cui era emersa tutta la mia ignoranza, ed indifferenza, verso le belle arti. Questo ridimensionamento delle sue valutazioni nei miei riguardi aveva anche lo scopo di far cessare le chiacchiere della sua predilezione per me per i  motivi ben facili da supporre. Ma di queste illazioni a me importava davvero poco: non avevo mai legato con le altre studentesse e mia madre non era nel fan club delle ammiratrici del professore. Queste ultime, però, non avevano perdonato il cambio di stile del loro idolo che aveva smesso di flirtare con loro e all’uscita di scuola tirava dritto verso la sua macchina.
Poi, una mattina, sul muro della scuola apparve una scritta infamante chiaramente diretta a lui.
I bidelli la cancellarono, ma dopo un paio di giorni rifiorì, ancora più velenosa, sullo stesso muro.

Smettemmo di vederci, ma io continuai a frequentare le sue lezioni allo scopo di screditare quelle accuse che non coinvolgevano direttamente me, ancora minorenne, ma solo lui. I detrattori avevano strategicamente pensato che tirarmi in ballo li avrebbe solo rallentati nel loro scopo, consapevoli che sarebbe bastata la semplice accusa di pedofilia a gettare fango sul professore, anche in assenza di prove.
Venne istituito dalla preside un sommario processo interno con il verdetto già stabilito delle sue dimissioni. A nessuno importava appurare se quell’accusa corrispondeva al vero, e d’altronde il professore stesso firmò le dimissioni senza discutere.
Il giorno stesso lasciò la città.
Quell’atto venne considerato da tutti un’ammissione di colpevolezza.
Ripercussioni su di me non ce ne furono, ma smisi di frequentare quella scuola perché non ho mai avuto talento per il disegno e la pittura. E ancor meno per l’ipocrisia.