JOSH
Josh Trevor scostò la tendina di pizzo dalla finestra della cucina e guardò fuori, la pioggia incessante lo aveva inzuppato come un pulcino quel pomeriggio. Aveva fatto una doccia calda e dopo aver cenato con la madre cominciava ad annoiarsi.
«Mamma, quando torna papà?»
«Non lo so Josh, ha detto che aveva molto da fare oggi, doveva incontrare alcuni clienti importanti. Con questo tempaccio chissà quanto traffico troverà».
«Già! Io vado in camera mia a giocare con la PlayStation».
«D’accordo, quando arriva papà ti chiamo».
Liza sorrise nervosamente guardandolo andare via, poi continuò a pulire la cucina. Improvvisamente si fermò, si sedette al tavolo col viso fra le mani. Un’angoscia le opprimeva il petto, ebbe la tentazione di andare in camera del figlio e dirgli tutto, invece rimase lì, immobile, a macerarsi nel dubbio e nel rimorso. Non poteva svelare il suo terribile segreto a nessuno mai, avrebbe perso per sempre il suo unico figlio. Si alzò a fatica dalla sedia, indossò il soprabito e uscì di casa. Fatti pochi passi si fermò, si rese conto di essere uscita in ciabatte e senza ombrello.
«Oh mio Dio, che sto facendo?» mormorò.
Tornò in casa, si tolse il soprabito e si asciugò i capelli. «Mi sembra di impazzire – guardò l’orologio con apprensione – perché non arriva?» Prese dalla tasca del grembiule un biglietto, lo lesse e rilesse come per tranquillizzarsi.
Josh si era stancato di giocare coi videogame, poiché la pioggia non accennava a diminuire, si sdraiò sul letto e si appisolò. Voci alterate lo scossero da quel torpore, scese dal letto e uscì dalla camera. La porta d’entrata era spalancata, il rumore della pioggia si sentiva molto forte. Due poliziotti, uno dei quali teneva un braccio intorno alla vita di sua madre, erano nell’atrio. Solo allora si accorse che la donna era quasi piegata su se stessa, le spalle scosse da violenti singhiozzi.
«Mamma, che succede?» gridò precipitandosi giù dalle scale.
«Ragazzo devi essere forte – disse un poliziotto – tuo padre ha avuto un incidente d’auto».
«Oh no, è grave?»
«Purtroppo è morto, mi dispiace».
Josh restò immobile, come se non avesse capito le parole dell’agente, la madre si girò verso di lui, il viso inondato di lacrime, si gettarono uno nelle braccia dell’altra.
«Oh, Josh!»
«Mamma!»
I poliziotti attesero qualche minuto rispettando il loro dolore.
«Signora Trevor, è necessario che venga con noi all’obitorio per il riconoscimento».
La donna si asciugò le lacrime.
«Sì certo, ma verrò solo io».
«No mamma, voglio venire anch’io, voglio vederlo».
«Sei sicuro Josh?»
«Assolutamente!»
All’obitorio percorsero un tetro corridoio fino alla stanza con le celle frigorifere. L’incaricato cercò il numero ed estrasse il carrello. La salma era coperta da un lenzuolo bianco, un cartellino col nome era appeso all’alluce di un piede: Adam Trevor.
Josh e la madre stavano abbracciati di fianco al carrello visibilmente scossi.
«Posso signora?»
«Sì» mormorò Liza con un filo di voce.
L’uomo scoprì delicatamente il viso della salma.
«Papà!» gridò Josh scoppiando in lacrime. Liza restò impietrita a guardare il volto dell’uomo che ora giaceva, freddo e inespressivo. Non disse una parola, non pianse, si accasciò come un fantoccio e perse i sensi…
SUSAN
Susan Cordell guardava con aria assente il marito Dave mentre si preparava per andare al lavoro, sarebbe stata un’altra giornata come tante, noiosa, angosciante, solitaria.
«Io vado, ci vediamo stasera Susan» disse Dave con freddezza. Lei rispose con un cenno della mano senza dire una parola. Rimasta sola andò verso il camino, sulla mensola c’erano alcune fotografie, ne prese una e subito gli occhi le si riempirono di lacrime. Un viso giovane, bello e sorridente la guardava, coi suoi bellissimi occhi neri, uguali a quelli di Dave. Era Ted, il suo adorato figlio, morto in un assurdo incidente d’auto. Susan aveva incolpato il marito di quella morte, era stato lui a lasciar guidare la macchina al figlio nonostante non avesse ancora la patente. Erano usciti insieme:
«Mamma vado a fare un giro in macchina con papà, ha detto che mi insegnerà a guidare».
«Ma non hai la patente tesoro. Dave! Ti sembra proprio il caso? Oltre ad essere pericoloso, rischi una bella multa!»
«No Susan, andremo in una zona isolata non preoccuparti, Ted è un ragazzo giudizioso, e poi ci sono io a badare a lui».
Non fu così purtroppo. Preso dall’entusiasmo Ted pigiò sull’acceleratore, nonostante le proteste del padre:
«Frena Ted, stai andando troppo forte!»
«Ma dai papà, è divertente».
«Frena ho detto! Accosta, la lezione finisce qui!».
Ted, innervosito, frenò bruscamente, perse il controllo della macchina che, slittando, andò a sbattere contro il muro di cinta di una villetta. Il ragazzo morì sul colpo, il padre se la cavò con qualche contusione e un leggero trauma cranico.
Dave ebbe grossi problemi con la giustizia, Susan non lo perdonò mai:
«Hai ucciso tuo figlio!»
Avrebbe voluto andarsene per sempre da quell’uomo ma, non aveva un lavoro, non avrebbe saputo dove andare. Restò con lui, però da quel momento non volle essere più toccata, non dormì più nella stessa camera da letto. Per Dave la vita era diventata impossibile, distrutto dal dolore per la morte del figlio, oppresso dal rimorso e dalle accuse di Susan che viveva ormai solo nel ricordo di Ted, nient’altro la interessava…
EVA
Eva Garret, sedicenne studentessa liceale, quella mattina era felice più del solito. Josh, il ragazzo che abitava poco distante, le aveva sorriso in modo particolare, almeno così le era parso. Da tempo lei lo guardava di nascosto, era proprio un bel ragazzo, inoltre aveva un’espressione dolce e malinconica, faceva tenerezza. Eva pensava spesso a lui, alla disgrazia che colpì la sua famiglia quando il padre di Josh morì in un tragico incidente stradale. Il ragazzo dovette abbandonare gli studi e cercare un lavoro poiché la madre, distrutta dal dolore, non usciva più di casa e mormorava frasi incomprensibili. Quel giorno però, Eva non pensava a cose tristi, il sorriso di Josh era sempre davanti ai suoi occhi, quanto sperava che si accorgesse di lei, che le parlasse! Finalmente finì l’ultima ora di lezione, gli studenti si avviarono all’uscita ridendo e scherzando come al solito. Eva salutò le compagne e si avviò verso casa. Una voce la bloccò:
«Eva!». Si girò di scatto, l’emozione la fece arrossire. Cercò di sembrare indifferente:
«Josh! Come mai da queste parti?»
«Passavo! Giacchè sono qui, posso accompagnarti a casa?»
«D’accordo» rispose Eva simulando indifferenza, mentre il cuore le balzava in petto dalla gioia. Lui si offrì di portarle lo zainetto, lei sorrise con gratitudine. Parlarono del più e del meno, gli occhi persi l’uno nell’altra. Arrivati nei pressi di casa, videro qualcuno avanzare verso di loro.
«Papà» disse allegramente Eva, salutandolo da lontano.
«Ciao Eva, ti ho vista arrivare e…» poi guardò Josh con aria interrogativa. Il ragazzo cercò di nascondere l’imbarazzo:
«Buongiorno sig. Garret, ho incontrato sua figlia fuori dalla scuola e l’ho accompagnata fino a casa».
«Capisco – rispose Garret senza sorridere –bene, ora entriamo in casa Eva».
Prese la figlia per un braccio e si avviò verso il cancello. La ragazza guardò Josh con espressione sgomenta, ma il padre quasi la stava trascinando, potè solo vederlo andare via a testa bassa.
Appena entrati in casa Eva sbottò:
«Papà! Perché sei stato così sgradevole con Josh? Non l’hai neppure salutato!»
«Avevate un appuntamento?»
«No papà, l’ho incontrato per caso».
«Non voglio che frequenti quel ragazzo!»
«Cosa? Ma perché?»
«Adesso ho da fare, ne riparleremo!»
Detto questo, si rintanò nel suo studio. Eva andò in soggiorno, la madre stava seguendo alla tv una puntata della sua soap opera preferita. Quando vide la figlia sorrise:
«Ciao tesoro».
«Ciao mamma, posso parlarti?»
«Certo, lasciami vedere la fine della puntata, cinque minuti, ok?»
Eva si accoccolò vicino alla madre aspettando in silenzio. Spenta finalmente la tv, la donna disse:
«Allora amore, cosa c’è?»
«Mamma, oggi papà mi ha vista in compagnia di Josh Trevor, sai, quel ragazzo orfano di padre che abita qui vicino».
«Ah sì, ho presente. Ebbene?»
«Non lo ha neppure salutato, poi mi ha proibito di frequentarlo, ma non mi ha voluto dare una spiegazione. Non capisco».
Sarah Garret guardò la figlia con tenerezza:
«Tesoro, lo sai come la pensa tuo padre, vuole che tu frequenti persone del tuo stesso livello. Mi risulta che quel ragazzo abbia lasciato gli studi e lavori come magazziniere».
«Cosa c’è di male mamma!»
«Niente cara, ma supponiamo che ti faccia la corte, che si innamori di te, cosa avrebbe da offrirti? Nulla! Quindi, meglio non iniziare neppure una simile amicizia, non ti pare? Su, andiamo in cucina a mangiare un bel gelato».
Eva seguì la madre senza dire nulla. Ma che razza di discorso le aveva fatto? Lui l’aveva solo accompagnata a casa, e loro pensavano già ad una relazione fissa? A dire il vero non le sarebbe dispiaciuto affatto…
JOSH
Tornò a casa di malumore, quel Garret lo aveva completamente ignorato, anzi, l’aveva guardato con disprezzo. Chi credeva di essere? Se non fosse stato il padre di Eva, gli avrebbe tirato due pugni in faccia! Sorrise ripensando al bel faccino di lei, era da tanto che desiderava parlarle, essere suo amico e poi…chissà!
«Josh, sei tu?»
«Sì mamma. Come stai oggi?».
«Oh, non so che dire, mi gira la testa, mi sento debole, al solito. Le medicine non mi fanno niente».
«Mamma, devi reagire! Vestiti, esci un po’, vai a trovare qualcuno, non puoi stare sempre chiusa in casa e sdraiata sul divano».
La madre cominciò a piagnucolare:
«Penso sempre a tuo padre…»
«Mamma, devi rassegnarti! Papà è morto, non tornerà più, credi che sarebbe contento di vederti così depressa?»
Lei si asciugò gli occhi e mormorò:
«Sì, hai ragione tu Josh, cercherò di reagire».
Entrò in bagno e chiuse la porta. Si prese la testa fra le mani e si accovacciò sul pavimento in preda alla disperazione. “Non posso parlare, non posso perdere mio figlio!” ripeteva fra sé.
«Mamma, tutto bene?» Josh era preoccupato, ormai la madre era in bagno da troppo tempo.
La madre aprì la porta:
«Eccomi Josh, sto bene, ora preparo qualcosa da mangiare».
Durante la cena Josh sentì il bisogno di confidarsi:
«Sai mamma, oggi ho incontrato Eva all’uscita di scuola, la figlia dei Garret, così l’ho accompagnata a casa. A dire il vero sono passato di lì apposta, speravo di incontrarla, sai, mi piace quella ragazza, sento già di volerle bene».
«Davvero? Ma Josh, quella famiglia è troppo agiata, io li conosco, amano frequentare persone benestanti quanto loro. Temo che andrai incontro a dispiaceri figliolo».
«A dire il vero, suo padre quando mi ha visto mi ha guardato malissimo».
Liza si rabbuiò in viso, disse bruscamente:
«Vedi? Ho ragione io, lascia perdere».
Finita la cena Josh si ritirò in camera sua. Ormai era buio, stava per chiudere le imposte quando vide una persona ferma sul vialetto, seminascosta da un albero. Josh la riconobbe subito: era sua madre! Trattenne a stento un grido di stupore, rimase ad osservare per qualche minuto, la donna gesticolava, sembrava stesse discutendo con qualcuno, ma non c’era nessuno. D’un tratto la vide tornare in casa a passo svelto. Sembrava delusa.
La mattina dopo, mentre faceva colazione, chiese alla madre:
«Ti ho vista là fuori ieri sera mamma, con chi stavi discutendo?»
Liza si irrigidì un momento, poi si voltò di scatto e rispose nervosamente:
«Io? Ma che dici Josh! Ti pare che me ne vada in giro di sera a discutere con chicchessia? Ho preso un sonnifero e ho dormito come un ghiro».
Ancora più confuso, Josh non replicò. Sua madre aveva mentito, ma perché?…
SUSAN
Restò alla finestra a guardare l’auto di Dave girare l’angolo, poi fece colazione, si preparò con cura e salì sulla sua utilitaria. Finalmente la telefonata era arrivata! Quell’appuntamento era di vitale importanza per lei. Arrivò puntuale, col cuore in gola per l’emozione, suonò il campanello. La porta si aprì quasi subito, una donna anziana la accolse con un sorriso:
«Susan?»
«Sì, sono io».
«Entra cara».
“E’ una casa piuttosto grande per una persona sola” pensò Susan mentre osservava l’arredamento austero e i pesanti tendaggi di velluto. Percorsero un lungo corridoio, ai lati molte porte chiuse. L’anziana donna ne aprì una:
«Prego Susan, accomodati».
«Grazie signora…».
«Maggie, chiamami Maggie».
«D’accordo, grazie Maggie».
Entrarono in una stanzetta illuminata debolmente da un paralume blu e, in mezzo, un tavolo con due sedie. L’atmosfera era cupa ma a Susan non importava, solo una cosa desiderava e quella donna poteva aiutarla.
«Siediti Susan – disse Maggie – sei pronta?»
«Oh sì, non vedo l’ora».
Maggie sorrise, prese un mazzo di tarocchi dal cassetto e li dispose sul tavolo:
«Ecco il fante di cuori – disse – questo è tuo figlio che ti saluta Susan».
La donna, con le lacrime agli occhi, mandò un bacio con la punta delle dita verso la carta mormorando:
«Ciao Ted, bambino mio!»
Maggie continuò la lettura dei tarocchi, dicendo che il figlio era sereno, la proteggeva dal cielo e aveva perdonato il padre. Inoltre, voleva che Susan portasse un amuleto in suo ricordo, una piccola croce di legno con inciso un rametto d’ulivo, in segno di amore e di pace.
«Un amuleto? – disse Susan – Come posso averlo?»
«Ci penso io a procurartelo cara – sussurrò Maggie – purtroppo è piuttosto costoso, si tratta di un legno benedetto, devo ordinarlo apposta per te».
«Non importa Maggie, se mio figlio vuole questo, io lo farò. Fammi avere quell’amuleto, ecco un anticipo, è sufficiente?»
«Oh! Ma certo!» Maggie guardò con soddisfazione la grossa cifra scritta sull’assegno, quindi congedò Susan con un abbraccio materno:
«Ti chiamo io cara, appena arriva l’amuleto».
Susan uscì sorridendo felice, Maggie aprì un cassetto con dentro un centinaio di piccole croci di legno, ne prese una e vi incise con grande perizia un rametto d’ulivo. Infilò la croce in un sacchetto di velluto rosso che legò in alto con un nastrino dorato e lo ripose in un portagioie.
Ok bell’amuleto – mormorò sogghignando – fra qualche giorno andrai ad allietare la dolce Susan. Uscì dalla stanza e la chiuse a chiave, poi percorse il corridoio fino a un’altra porta, l’aprì e controllò che tutto fosse pronto per il prossimo appuntamento: un lettino, un tavolino d’acciaio con gli attrezzi disposti ordinatamente su una tovaglietta di lino bianca. Pochi minuti dopo suonarono alla porta, Maggie aprì e sorrise alle due donne:
«Prego entrate pure».
Ann Wilson e la figlia Sally entrarono lentamente. Erano entrambe molto tese “la ragazzina avrà sedici anni sì e no – pensò Maggie – l’altra è sicuramente la madre”. Le accompagnò nella stanza che aveva controllato poco prima.
«Accomodatevi, mi disinfetto le mani e sono da voi».
«Ho paura» disse la ragazzina. La madre trattenne un singhiozzo. Maggie intervenne prontamente:
«Non temere cara, con l’anestesia non sentirai dolore. Ecco, sdraiati sul lettino e appoggia le gambe su questi ganci… così, bravissima!»
Dopo averle dato un anestetico Maggie prese dal tavolino un lungo ferro sottile…
SALLY
Sally Wilson, quindici anni, era in preda alla disperazione. Ripensava ai recenti avvenimenti che le avevano distrutto la vita. Suo padre Albert, responsabile del reparto di produzione di una importante azienda chimica, era stato preso con le mani nel sacco mentre duplicava alcune formule con l’intento di rivenderle alla concorrenza.
L’uomo si trovava in difficoltà economiche, le rate del mutuo della villetta erano ormai insostenibili, aveva quindi escogitato quell’espediente. Licenziato in tronco, l’uomo cadde in depressione. La moglie Ann, pur biasimandolo per ciò che aveva fatto, cercava di stargli vicino. Non riusciva proprio a capire per quale motivo suo marito avesse fatto una cosa del genere, lo stipendio era buono, non avevano avuto problemi fino a quel momento. Albert rifiutava di rispondere alle sue domande, anzi, dava in escandescenze ogni volta che la moglie entrava in argomento. Sally assisteva atterrita alle loro discussioni, guardava la madre che, con gli occhi arrossati dal pianto, scuoteva il capo con rassegnazione. Non potevano sapere che Albert era entrato in un giro di scommesse clandestine, aveva perso molto denaro, si era indebitato con alcuni amici che ormai esigevano la restituzione dei loro prestiti. Il vero motivo del suo comportamento, non poteva e non voleva confessarlo alla famiglia. Fu proprio in quel periodo così difficile che Sally conobbe un uomo, si scontrò con lui casualmente mentre entrava di corsa nel cortile della scuola. I libri le caddero di mano e lui, scusandosi gentilmente, l’aveva aiutata a raccoglierli. Com’era bello! E che sorriso affascinante! Sally ne rimase subito rapita. Lui si presentò, si chiamava Diego, le chiese se poteva aspettarla all’uscita di scuola per fare una passeggiata e mangiare un gelato, per farsi perdonare di averle fatto cadere i libri. Lei finse di pensare, ma in cuor suo non aspettava altro, disse sì. Fu così, che in gran segreto cominciò a frequentare quell’uomo, se ne innamorò pazzamente, facevano l’amore ogni volta che potevano. Sally trovava mille scuse per uscire di casa. Diego diceva di amarla, che l’avrebbe sposata. Lei pensava che finalmente avrebbe lasciato la sua casa così cupa e triste e sarebbe stata felice col suo amore. Andò avanti alcuni mesi, finché un giorno Sally cominciò ad avere nausea e vomito, si confidò con Diego che le consigliò di fare il test di gravidanza, per sicurezza. Chiusa in bagno la ragazza guardava con apprensione l’indicatore immerso nell’urina: ecco due linee colorate, positivo! In preda a una grande agitazione, Sally ebbe la tentazione di dire tutto alla madre, poi pensò a suo padre, chissà come avrebbe reagito nello stato in cui era. Sul cellulare cercò il numero di Diego che rispose subito:
«Ciao Sally, come mai così presto?»
«Diego, ho fatto il test, sono incinta».
Silenzio.
«Diego mi senti? Non posso gridare, sono in casa chiusa in bagno. Mi senti?»
«Sì, ti sento».
«Dobbiamo parlarne».
«Certo, vediamoci nel pomeriggio, solito posto».
«Va bene, ciao».
Sally rimase ferma a guardare il cellulare come se potesse vedere attraverso il display l’espressione di lui. Non le era parso affatto contento anzi, sembrava seccato. Le ore di scuola furono interminabili quella mattina. All’uscita si precipitò al parco, dove solitamente si incontravano. Era già lì ad aspettarla:
«Ciao amore» disse Sally.
«Ciao».
Lei lo guardò negli occhi e si spaventò, non gli aveva mai visto uno sguardo così freddo.
«Diego, dobbiamo parlare del bambino, non credi?»
«Un bel pasticcio!»
«Un pasticcio? Che intendi dire? Hai sempre detto che vuoi sposarmi, questo potrebbe accelerare le cose, no?»
La sua risposta le fece quasi mancare il respiro:
«No Sally, mi dispiace, vedi, io sono già sposato».
«Cosa? Oh no! No! Diego, cosa dici? Io aspetto tuo figlio».
«Mi dispiace tanto, davvero».
«Oh Dio mio, e adesso come faccio? Cosa posso fare?»
Scoppiò in lacrime. Lui tirò fuori dalla tasca della giacca una busta, gliela porse dicendo:
«Tieni, mi faccio carico di tutte le spese. Sono in partenza, torno da mia moglie, sai, ho già due figli».
Sally prese la busta senza neppure rendersene conto, indietreggiò di qualche passo poi, singhiozzando fuggì verso casa. Il padre era fuori per fortuna. Quando Ann vide la figlia così stravolta, si precipitò verso di lei:
«Sally, cosa ti è successo? Sei stata aggredita? Hai avuto un incidente?»
«No mamma».
Col viso inondato di lacrime, la ragazza confessò ogni cosa alla madre, la quale si coprì il volto con le mani per la disperazione.
«Sei una stupida! Così lui ti ha lasciato e non sai neanche come rintracciarlo immagino».
«No».
«Oh Dio, come faccio a dire una cosa simile a tuo padre, è già in uno stato pietoso. Lasciami pensare».
«Mi ha dato questa» mormorò Sally tirando fuori la busta.
«Che bastardo! Aveva pensato a tutto».
Ann si confidò con una carissima amica, le raccontò tutta la faccenda.
«Cosa posso fare Linda?»
«So di una donna che fa “quel lavoro” in gran segreto, se vuoi ti metto in contatto con lei, perlomeno quel bastardo i soldi ve li ha dati».
Fu così che Sally rinunciò al suo bambino, entrando nella stanza della vecchia Maggie…
ALBERT
Albert Wilson, appollaiato sullo sgabello del bar, all’interno della sala scommesse, chiese un altro bicchierino di scotch al barman.
«Albert, non posso più farti credito, il tuo conto è salito troppo, se non mi paghi non ti darò più niente da bere».
«Ti pagherò Sam, dammi tempo».
«Mi dispiace, il tempo è scaduto».
«Ti credevo un amico Sam».
«Sono tuo amico, infatti non ti ho ancora denunciato, non costringermi a farlo».
Wilson scese dallo sgabello e, a testa bassa, uscì dal locale. Camminando rasente il muro, pensava a come aveva distrutto se stesso e la sua famiglia. Aveva tentato di rubare le formule alla sua azienda per rivenderle alla concorrenza, tutto per coprire i debiti di gioco. Come aveva potuto ridursi così? La moglie Ann e la figlia Sally non gli facevano più domande, avevano rinunciato, erano stanche di lui, l’aveva capito. “Non merito di vivere, meglio farla finita” pensava, mentre barcollando si dirigeva verso il ponte. Si appoggiò al parapetto, guardò il torrente scorrere impetuoso sotto di lui, pareva lo chiamasse. “Coraggio, un bel salto e tutto sarà finito. Staranno tutti meglio senza di me”. Improvvisamente un pensiero gli balenò nella mente. “Forse posso uscirne, forse so chi mi può aiutare, sì, so a chi rivolgermi”. Si scostò dal parapetto e si incamminò velocemente verso l’automobile parcheggiata vicino al pub. L’aria fresca dissipò i fumi dell’alcol, si sentiva più fiducioso. Arrivato davanti alla casa esitò un momento. Si sarebbe ricordata di lui? Suonò il campanello, sentì i passi avvicinarsi dall’interno, la porta si aprì:
«Ciao Maggie, ti ricordi di me?»
La donna lo squadrò da capo a piedi per qualche secondo poi, con un sorriso ambiguo disse:
«Ma certo che mi ricordo, Albert, giusto? Albert Wilson».
«Sì, sono proprio io Maggie».
«Qual buon vento ti porta da me dopo tanto tempo?»
«Fammi entrare per favore, devo parlarti, è importante».
«Ma certo, entra pure».
Lo fece accomodare nel salottino.
«Allora, Albert! Raccontami tutto».
Wilson raccontò ogni cosa alla donna, il furto in azienda, il licenziamento, i debiti di gioco, il timore di perdere anche la casa e la famiglia.
«Accidenti, che situazione catastrofica! E io cosa dovrei fare Albert?»
«Maggie, in passato aiutasti mio padre, ora sono io a chiederti aiuto, in nome della vecchia amicizia che ti legava alla mia famiglia».
«Ah, capisco. Non si trattò di amicizia caro, ma di affari. Io prestai dei soldi a tuo padre e lui me li restituì con gli interessi. Tutto qui».
«Ora sono io ad avere bisogno Maggie, un estremo bisogno di soldi, aiutami ti prego!»
«Caro ragazzo, mi sembri piuttosto malandato, non hai un lavoro, come pensi di ripagarmi? Ho bisogno di garanzie, non credi?»
«Lavorerò Maggie, farò qualsiasi lavoro, smetterò di giocare e di bere, detta tu le condizioni».
«Di quanto denaro stiamo parlando?» – chiese.
«Centocinquantamila, per coprire tutti i debiti».
«E’ una cifra enorme!»
«Lo so, non abbandonarmi Maggie, sei la mia ultima speranza. Altrimenti mi uccido!»
Maggie lo guardò fisso negli occhi:
«Ti darò i soldi, me li restituirai con l’interesse del dieci per cento, altrimenti mi prenderò la tua casa, mi pare onesto».
Albert tremava, cosa stava facendo? Se avesse perso la casa sarebbe stata davvero la fine, ma cosa poteva fare d’altro? Con un filo di voce e le lacrime agli occhi accettò.
«D’accordo Maggie, grazie».
«Torna fra tre giorni».
Lo accompagnò all’uscita, ma prima di aprire la porta gli chiese:
«Come stanno Ann e Sally?»
Albert rispose confusamente:
«Bene, almeno credo, non ci vediamo molto in questo periodo. Per colpa mia naturalmente».
«Ti consiglio di non dire niente, inutile dare loro altre preoccupazioni. Sarà il nostro segreto».
«Sì, credo sia meglio, grazie Maggie. Ma, come fai a conoscerle?».
«Beh, in un paese così piccolo si sa tutto di tutti, non ti pare?»
Maggie richiuse la porta, era perplessa. “Non sa che la figlia ha abortito – pensò – povero, stupido Albert”…