Il parco era silenzioso, di mattina. Jack camminava lungo i viali alberati guardando i grandi prati deserti tra le palme che svettavano nel cielo. Come da ragazzo indugiava presso i tronchi nodosi degli alberi fermandosi a leggere le etichette che recitavano sempre nomi esotici: Cedrus libani, Quercus robur, Quercus suber… Poi alzava lo sguardo tra le fronde. Spiando i movimenti degli scoiattoli che frusciavano tra i rami. Gli dispiacque di non avere con sé delle noci: battendo i gusci per terra gli scoiattoli sarebbero scesi sulla strada a prenderle dalle sue mani. Almeno, una volta facevano così, con movimenti a scatti, repentini, poi si arrampicavano subito sugli alberi.
Chissà se nell’universo di Jeff Durrell esistevano gli scoiattoli.
Jeff Durrel, che comunicava dalla realtà parallela della cabina del Diamond Mountain Observatory, da un passato che per lui era non era ancora futuro, preannunciandogli la sua morte dopo averlo salvato due volte, perché quella sua morte sarebbe stata il tramite per la sopravvivenza del suo mondo.
Doveva essere tutto vero, perché tra le sue doti non c’era quella della fantasia, e mai avrebbe potuto elaborare una trama così complessa, degna di un film di fantascienza. Anche i dati snocciolati da Durrel, i suoi ragionamenti e le sue riflessioni erano quelle di un astrofisico, non certo di un genetista.  non poteva essersi immaginato tutto il dialogo con quella dovizia di particolari, con quella chiarezza nell’esposizione e la logica di base, anche se tutto era assurdamente incredibile e tragico, e ben volentieri avrebbe desiderato considerarsi pazzo e poter continuare a vivere.
Operare il suo aneurisma per scongiurare la morte preannunciata? Anche se Cooper glielo aveva sconsigliato per via dei rischi…ma forse era proprio questo il piano di Durrell, impaurirlo così da indurlo a tentare un intervento chirurgico da cui non sarebbe uscito vivo.
E allora lui non avrebbe fatto nulla. Nessuno poteva obbligarlo, soprattutto se come Durrell, gli aveva prospettato che in previsione dell’evento sarebbero occorsi dei preparativi.

Lasciò squillare il cellulare una volta, due volte, tre, non aveva voglia di parlare con nessuno, ma quando sul display vide il nome di Phoebe, s’affrettò a rispondere.

«Ciao, Jack».
«Phoebe… come stai?».
«Me la cavo». Tacque per un secondo e poi disse: «Ti ho visto al telegiornale».
«Il personaggio dell’anno».
«Non te la prendere, è risaputo che Louis Malle è uno stronzo». Di nuovo una pausa: «Tu come stai?».
«Sinceramente? Non lo so. In realtà non so più niente». Jack rise, senza allegria.
«Dovresti parlare con qualcuno in grado di aiutarti».
«Nessuno può aiutarmi».
«Jack…».
«Mi manchi», mormorò lui.
Phoebe accolse quella dichiarazione in silenzio.
«Scusami» disse Jack l’attimo dopo «non avrei dovuto dirlo».
«Non devi scusarti è che… sono confusa… mi sembra di non sapere chi tu sia… mi sembra… di vivere un incubo». La voce di Phoebe era incerta e le pause prolungate erano per cercare le parole più adatte a non ferirlo. A non umiliarlo.
«Non devi giustificarti di nulla. Non è colpa tua». Rispose comprensivo.
«Qui non si tratta di colpe, Jack, ma delle ragioni per cui sta accadendo tutto questo. Io non faccio altro che pensarci, mi ci rompo il capo, ma poi… poi… giungo sempre alla conclusione che…». Tacque, senza terminare la frase.
«Che io sia pazzo» Jack, concluse per lei. «Vorrei che lo fossi. La psicosi si può tenere sotto controllo coi farmaci, ma non ce ne sono per il mio caso».
«Cos’è che ti sta accadendo, Jack? Per l’amor di Dio non credi che abbia il diritto di saperlo?». La voce era salita di tono: ansia, disagio e paura, erano le note predominanti.
«Hai ragione, è giusto che te ne parli, ma non al telefono… è una storia alquanto complicata».
«Stasera, qui da me?». domandò Phoebe.
Jack riandò con la mente all’ultima volta che si erano visti a casa di lei: c’erano troppi angoli dove nascondersi con le proprie paure e lui, invece, aveva bisogno di un luogo dove gli sguardi potessero fronteggiarsi: era quella era la sua ultima possibilità di convincere Phoebe.
«Gli spazi chiusi iniziano a starmi stretti. Se sei d’accordo andiamo a cena fuori, ti passo a prendere alle nove».
«Ok, a stasera, allora». Phoebe chiuse la comunicazione e Jack rimase a guardare il cellulare muto resistendo alla tentazione di richiamarla con una scusa banale, solo per sentire ancora la sua voce.

 

«Non hai un bell’aspetto, Jack», disse Phoebe salendo in macchina e baciandolo su una guancia.
«Tu invece sei bellissima, come sempre».
Phoebe sorrise ma scosse il capo in segno di diniego: «Sei gentile, anche se non è vero. Niente è più uguale dopo… dopo il Green Hill Club». Sospirò, traendo dalla borsetta un pacchetto di sigarette.
«Hai ricominciato a fumare?» domandò sorpreso.
Lei non rispose, limitandosi ad un’alzata di spalle mentre frugava nella borsetta alla ricerca dell’accendino.
«Merda!» disse spazientita, ricacciando il pacchetto nel fondo della pochette.
«C’è un emporio lungo la strada, possiamo fermarci e comprare un accendino».
Lei lo guardò sorpresa: «Mi aspettavo uno dei tuoi sermoni sui rischi del fumo».
«Niente è più uguale dopo il Green Hill Club: vale anche per me ».
Phoebe gli sorrise grata e Jack avvertì la tensione allentarsi.
«Di cosa dovevi parlarmi?» domandò lei svincolandosi dall’imbarazzo del silenzio.
Jack non rispose subito, temeva che le spiegazioni irrompessero, in quella loro fragile tregua, inopportune e incomprensibili, rischiando di azzerare i suoi ultimi residui di credibilità.
«Non qui» rispose laconico.
Phoebe non disse altro e lui avvertì di nuovo la distanza fra loro.

Aveva iniziato a piovere fittamente quando giunsero all’emporio. Jack parcheggiò, scese dalla macchina e coprì correndo il breve tratto di strada verso l’entrata. Ne emerse poco dopo al riparo di un vistoso ombrello giallo con la scritta “Swing By”.
Risalì in macchina e porse a Phoebe l’accendino. Poi, mostrandole l’ombrello sgargiante disse: «Non ho avuto scelta, c’era solo questo».
Phoebe sorrise debolmente: «Non sempre si può scegliere».

Quando arrivarono al ristorante il diluvio non era cessato. Jack parcheggiò l’auto nella 8th Avenue e non avevano che da attraversare la strada, ma fulmini e tuoni si succedevano illuminando la notte con violenti lampi di luce.

«Siamo proprio sotto il temporale» osservò Phoebe, perplessa.

Proprio in quel momento una saetta attraversò il cielo crepitando.

Jack guardò l’orologio.

«Abbiamo già un quarto d’ora di ritardo, sarà meglio che ci muoviamo» disse, guardando l’insegna al neon “The Pigeon” dall’altro lato della via.
Uscì dall’auto aprendo il grosso ombrello, fece il giro e l’aiutò  a scendere, poi si diressero insieme verso l’attraversamento pedonale, cercando di evitare le pozzanghere.

Si fermarono sotto la pensilina metallica della fermata del bus in attesa che il semaforo diventasse verde.

«Cosa c’è?» chiese Phoebe, vedendo che Jack stava cercando qualcosa nelle tasche del cappotto.
«Ho lasciato il cellulare in macchina, vado a prenderlo» disse, ritornando verso la vettura.
Il semaforo da verde ritornò rosso, e le auto ferme ripartirono. Phoebe fece un passo indietro per evitare gli schizzi.

Jack intanto aveva già aperto la sua auto e recuperato il cellulare e stava ritornando verso di lei, quando la voce di Durrell risuonò nitida nel silenzio:

«Fermo!».

Una frazione di secondo dopo un fulmine colpì con un fragore assordante la pensilina. Lo spostamento d’aria lo lanciò verso il centro della strada. Ansimando si rialzò e vide Phoebe riversa sul marciapiede, vicina alla struttura parzialmente fusa.
La scena aveva richiamato l’attenzione degli automobilisti in transito che si stavano fermando per vedere cosa era accaduto. Jack, ancora stordito, raggiunse Phoebe e si chinò su di lei cercando di sentire le pulsazioni, ma il cuore non batteva. Concitato, iniziò a farle la respirazione artificiale alternando le compressioni sul torace alla respirazione bocca a bocca. Le aprì la camicetta, strappando i bottoni  ma avendo cura di spostare il reggiseno per non premere sul gancio, nel timore di farle male. Cazzate! si disse, sta morendo! Qualcuno mi aiuti!
In lontananza si sentiva il suono lacerante di una sirena.

Al pronto soccorso i medici, preallertati dal 911, portarono Phoebe in sala di rianimazione. Con il defibrillatore dell’ambulanza gli infermieri, aiutati da Jack, erano riusciti a far ripartire il cuore, ma nessuno poteva sapere se ci fossero state delle lesioni interne o se la mancanza protratta di ossigeno avesse provocato dei danni al cervello. Per una diagnosi certa bisognava aspettare il suo risveglio dal coma.
«Ci potrebbero volere dei giorni» disse il giovane medico del pronto soccorso.
Se mai si sveglierà! Pensò Jack. Ringraziò il dottore e si lasciò cadere su una delle sedie di plastica rossa, preparandosi mentalmente ad un’attesa che si preannunciava eterna.
Dopo un poco cominciò ad essere scosso da brividi di freddo. L’infermiera all’accettazione, una signora anziana, gli si avvicinò e gli pose una mano sulla spalla.
«È meglio che vada a casa a cambiarsi e riposare. La sua fidanzata è sotto sedativi e non si sveglierà comunque fino a domani».
Esausto, Jack si alzò, ringraziò l’infermiera e le chiese di chiamargli un taxi.
Come fu arrivato a casa si spogliò e si infilò sotto la doccia.
Phoebe! In qualche modo sentiva che era colpa sua.

La voce di Durrell  lo raggiunse dal nulla, opaca ed impersonale:
«Mi dispiace, Jack non mi è stato possibile fare niente per lei».
«Prima Freddy ed ora Phoebe: moriranno tutti quelli che mi sono vicini? È questa la tua strategia per convincermi? Chi sarà il prossimo?».
«Non è mia la responsabilità di questi incidenti» rispose in tono paziente Durrell.
«Incidenti?» gli fece eco Jack, beffardo.
«Che tu lo creda o no sono solo dolorose coincidenze».
«Ma tu sei sempre presente! Dimmi almeno se si salverà».
«Non lo so, posso solo vedere la tua linea temporale, e con difficoltà».

Jack non domandò altro. Si asciugò sommariamente i capelli con una salvietta e si coricò sul letto.
All’inferno! All’inferno tutto!