Era mattino inoltrato quando Jack aprì gli occhi. Dietro i vetri gocciolava una pioggerella sottile, striata dei riflessi gialli di un sole pavido che si nascondeva dietro le nubi. Gli piaceva guardare la pioggia, seduto davanti alla finestra con un buon libro, un bicchiere di whisky e di sottofondo una sinfonia di Gershwin. Oppure davanti alla scacchiera, concentrato sulla sua mossa, immemore delle urgenze del tempo, espanso all’infinito dal silenzio e dal ticchettio monotono delle gocce sul davanzale. 

O le notti con Phoebe… quelle notti di pioggia dove più ardentemente smarrivano i sensi e ci si addormentava l’uno nelle braccia dell’altro, al sicuro dalla tempesta che infuriava all’esterno.
Phoebe, che ora invece dormiva nella parte opposta del letto: una distanza che lei aveva tracciato con discrezione durante la notte ma che alla luce del giorno appariva in tutta la sua smisurata vastità. Immaginando che lui dormisse, piano piano s’era sciolta dal suo abbraccio per andarsi a rifugiare lontano. Ma lui non dormiva, aveva continuato nella finzione per facilitarla in quelle sue manovre e non imbarazzarla con domande o sguardi o suppliche che l’avrebbero schiacciata con i sensi di colpa. Phoebe non aveva preso le distanze dal Jack che conosceva e che amava, ma da quel nuovo Jack di cui nulla sapeva e che forse le faceva paura. Al suo posto, forse, anche lui avrebbe agito così. 

Scese dal letto badando a non far rumore e andò in bagno. Era sua intenzione andar via prima che lei si svegliasse, così si sarebbero risparmiati una penosa conversazione, di parole non dette e di occhi bassi. Le avrebbe lasciato un biglietto generico, ma non era necessario neppure quello: Phoebe avrebbe capito. Si vestì in fretta, ma quando uscì dal bagno lei era sveglia.


«Vai già via?» domandò, vedendolo pronto.
«Sì, ho tante cose da fare ed è meglio che inizi subito».
«Ti preparo un caffè» disse, avviandosi verso la cucina.
«Non occorre».
Lei s’era fermata sulla soglia e lo guardava incerta.
«Senti, Jack, io…».
«Non dire niente Phoebe. Mi chiami tu quando ti sentirai pronta».
Lei lo guardò grata. Aveva gli occhi umidi e la bocca le tremava . Appena lui se ne fosse andato non avrebbe più trattenuto le lacrime.

Jack lo sapeva e affrettò la sua uscita.

«Saprò aspettare» disse, chiudendosi la porta alle spalle.

Aveva smesso di piovere, sotto gli ombrelli degli alti pini marittimi le pozzanghere filtravano porzioni di cielo. Tutto risplendeva pulito e nuovo in quella mattinata di fine ottobre. Tranne lui, che vestiva abiti sporchi di sangue e nell’anima il nero del lutto. In un pomeriggio aveva perso tutto. Anche Phoebe. 

Durante il tragitto verso casa telefonò alla sua segretaria per annullare tutti gli appuntamenti perché quel giorno non sarebbe andato.
Come ebbe parcheggiato chiuse la porta basculante del garage e si accinse a percorrere il viottolo che conduceva all’ingresso, ma appena svoltato l’angolo si trovò davanti una piccola troupe di una televisione locale, composta da un cameramen e un giornalista dai modi spicci.


«Dottor Longshire, sono Louis Malle della King e questa intervista è per raccogliere la sua testimonianza in merito all’attentato di ieri al Gree Hill Club».

Una grossa corona era stampata sulla telecamera e il microfono recava sulla base lo stesso logo.

Jack, colto di sorpresa, non ebbe tempo di replicare niente che l’intervistatore era già partito con la sequenza a raffica delle domande. Le solite, quelle in uso in tutte le interviste, e in questo caso impostate a sollecitare il racconto dei particolari più macabri, per saziare la curiosità dei telespettatori e aumentare l’audience. 

Jack scansò il microfono e provò a guadagnare l’entrata, ma l’altro non si diede per vinto e cambiando tattica provò a blandirlo: «È una specie di eroe, lo sa?».
Jack si voltò a guardarlo stupito.
«È stato il primo ad entrare nella sala della strage per prestare soccorso ai feriti» proseguì il giornalista, convinto che solleticato nelle leve dell’orgoglio avrebbe alla fine concesso l’intervista.

Ma Jack anche stavolta lo deluse.

«Anche se fosse vero è un primato a cui non tengo. E adesso, si tolga di mezzo e mi lasci in pace».

Louis Malle spense il microfono e gli sorrise sarcastico.

«Forse la signorina Newell avrà più cose da raccontarci». 

Jack, furioso, lo afferrò per il bavero.

«Maledetto bastardo, stai lontano da lei o te la farò pagare».

Il giornalista alzò le mani in segno di resa e fece un passo indietro. 

Ma dopo che Jack fu entrato, domandò al cameramen: «Ehi, Sam, hai ripreso tutto?»

Entrato in casa, Jack andò in bagno e dopo essersi spogliato degli abiti sporchi di sangue si infilò nella la doccia. Sostò a lungo sotto il getto dell’acqua calda, fin quando gli sembrò d’aver cancellato dalla sua pelle l’odore degli spari e del sangue del Green Hill Club. Indossato l’accappatoio andò in cucina a prepararsi un caffè per la necessità di compiere un’azione, un movimento finalizzato a riempire le lunghe ore di silenzio e di solitudine. E di angoscia. Sedette in poltrona e chiuse gli occhi, sperando nella misericordia di un sonno nero e compatto, privo di sogni, ma la luce lampeggiante della segreteria telefonica si insinuò col suo pulsare costante sotto le palpebre. Forse Phoebe lo aveva cercato. L’attivò. Il nastro era intasato dei messaggi dei colleghi e degli amici che esprimevano il loro sconcerto per l’accaduto e apprensione nei suoi riguardi. Ascoltò tutte le registrazioni, ma non c’era nessun messaggio Phoebe. Cercò nell’armadietto del bagno la scatola dei sonniferi, andò in cucina, estrasse una capsula dal blister ma poi lo ripose di nuovo nell’astuccio: quello sarebbe stato il suo rimedio per la notte che si prospettava lunga ed insonne.
Nel frattempo sarebbe uscito e avrebbe camminato fino ad esaurire tutte le sue energie. Era già sulla porta quando nella segreteria si materializzò la voce di  Nathan Cooper.
«Jack, devi avere il cellulare spento o scarico, è da stamani che cerco di contattarti. Phoebe mi ha detto che forse ti avrei trovato a casa… volevo dirti che di qualunque cosa tu…».
Jack era tornato indietro di corsa per rispondere.
«Nathan… avrei bisogno di parlarti. Quando possiamo vederci?».
«Anche ora. Sono nel mio studio» rispose Cooper sorpreso.
«Grazie». Jack riagganciò, senza lasciargli il tempo per altre domande.

 

Nathan Cooper e Jack Longshire erano amici di vecchia data, si può dire dai primi anni di lavoro a Portland. Contrariamente a Jack, che aveva scelto la strada della bioingegneria, Nathan si era specializzato in neurochirurgia e operava presso la clinica a cui era annesso il laboratorio di genetica.

Nathan si alzò dalla scrivania e venne incontro all’amico, prendendolo per le braccia e stringendolo forte.

«Cosa è successo al Green Hill, Jack?».
«È stato terribile. Io e Phoebe abbiamo visto morire Freddy sotto i nostri occhi».

Quasi gli mancava la voce a pronunciare il nome dell’amico. 

«Era lì per una partita a golf, non sapeva nulla della convention. Lui e Pam erano tornati il giorno prima da una vacanza alle Hawaii. Stava andandosene quando ha visto me e Phoebe, e allora è rimasto a parlare con noi».

Si interruppe, portandosi una mano agli occhi. Le spalle gli tremavano leggermente.
«Jack… non è colpa tua».
«Se non lo avessi trattenuto coi miei discorsi forse sarebbe ancora vivo».
«Freddy è morto perché un pazzo ha imbracciato un fucile e ha sparato sulla folla. Non l’hai ucciso tu. Cosa avresti potuto fare?».
«Impedirgli di entrare».
«Ma come potevi immaginare quello che sarebbe accaduto nella sala conferenze?».
«Io… mi crederai pazzo… lo sapevo. Qualcuno, quando ero già sulla soglia, mi ha suggerito di non entrare, e l’attimo dopo sono iniziati gli spari. Quell’avvertimento ha salvato me e Phoebe ma non Freddy. E nessuno di quelli nella sala».
«E’ stato solo un caso, Jack, potevate esserci voi nella sala e forse ora sareste morti e così…».
Jack batté un pugno sul tavolo. Quella reazione sorprese Nathan che si bloccò a metà della frase.

«Perdio, perché non mi ascolti?» urlò Jack, alzandosi in piedi, «ti ho appena detto che è stato qualcuno ad impedirmi di entrare. Una voce, che a quanto pare, sento solo io. Phoebe era con me ma non l’ha udita. Così come non l’ha sentita a Forest Park, quando “l’uomo invisibile” mi ha salvato dal veleno di uno scorpione». 

Jack colse lo sguardo dubbioso dell’amico: «Anche tu, come lei, mi credi pazzo?». 

Nathan scosse la testa: «Non esprimo giudizi affrettati, e quello di attribuire alla pazzia le diversità e le anomalie era un modus operandi in uso nel medioevo». 

Con un gesto della mano lo invitò a sedersi.

 «Raccontami come e quando tutto è iniziato».

Jack si sedette e fece un breve ma esaustivo resoconto di quanto gli era accaduto, alla fine del quale Nathan domandò se a precedere la voce si fosse manifestato qualche sintomo inusuale:  vertigini, disturbi della vista e della parola, nausea e vomito, attacchi epilettici, mal di testa.

«Ricordi di aver subito un qualche trauma cranico?».

Jack scosse la testa in segno di diniego.

 «Niente di tutto questo, ma ultimamente le mie emicranie sono aumentate d’intensità».
«Partiamo da queste. Ti sottopongo ad una TAC per una verifica cerebrale».

Alzò il telefono, fece il numero del reparto di radiologia e parlò qualche minuto.
Dopo aver attaccato guardò l’orologio. 

«Il radiologo prende servizio tra circa un’ora, che ne dici se nel frattempo facciamo un salto alla tavola calda qui all’angolo, per mangiare qualcosa?».
«Non ho fame».
«Fammi almeno compagnia» replicò Nathan infilandosi la giacca e battendogli una mano sulle spalle.

La tavola calda come sempre a quell’ora era gremita. Al loro ingresso un paio di operatori della clinica e una segretaria, seduti al tavolo prospiciente l’entrata, li salutarono facendo segno di accomodarsi. Loro ringraziarono e proseguirono verso il fondo alla ricerca di un posto tranquillo.
Beth, una delle cameriere, si avvicinò col bricco del caffè e il taccuino delle ordinazioni. Nathan ordinò per sé un hamburger con contorno di patate e verdure e una birra scura. Jack, invece, non prese nulla, benché l’ultima cosa che avesse messo nello stomaco era la tazza di caffè e un paio di muffin della colazione della mattina precedente. Il cibo lo disgustava. Se ne sarebbe volentieri andato, ma non voleva essere scortese con l’amico.

«Dovresti sforzarti di mangiare qualcosa… magari un’insalata» insistette Nathan «oppure possiamo dividerci questo hamburger, è talmente grande che ci si mangia in due». 

Fece il gesto di passargli il piatto, ma Jack lo respinse. 

«Sul serio, non ho fame».

Mentre Cooper affrontava con gusto l’enorme pezzo di carne macinata, troppo compresso e grasso, Jack si guardò intorno senza alcuna curiosità: gente entrava ed usciva di continuo e le loro voci facevano da sottofondo a quelle più acute del televisore posto sulla mensola alta della parete frontale.
Di solito evitava quel tipo di locale dove, sopraffatti dal rumore, era impossibile fare conversazione e che in quel suo particolare stato d’animo trovava intollerabile.
Anche Nathan si accorse del suo malessere e si affrettò a terminare il pranzo e a chiedere il conto.

«Guarda!» esclamò Jack, indicandogli lo schermo dove scorrevano le immagini del Green Hill Club.
La sequenza iniziale partiva con una visione complessiva, a campo lungo, dell’area dove era avvenuto il massacro, restringendo l’obiettivo ad inquadrature più parziali, circoscritte ai dettagli drammatici della strage.
La sala conferenze era stata ripresa esternamente dalla grande vetrata, dove in primo piano appariva la striscia di sangue lasciata da Freddy. Le immagini si limitavano a quello, perché alle telecamere erano stati inibiti gli interni per rispetto ai morti e per non inquinare la scena della strage. Alla vista di quelle sequenze nel locale era sceso il silenzio. Subito dopo erano venute le interviste al sindaco e al capo della polizia. Un breve stacco pubblicitario ed erano seguite quelle ai soccorritori e ai parenti delle vittime. Nell’ultima era apparso il naso aquilino e lo sguardo da lupo di Louis Malle mentre tentava di braccare Jack per estorcergli l’intervista. Una sequenza breve e concitata, dove con un abile montaggio veniva messo in risalto l’atteggiamento aggressivo di Jack con ancora indosso gli abiti sporchi di sangue, l’espressione allucinata e la minaccia a microfono spento, ma leggibilissima dal labiale, diretta al giornalista. Una sequenza tesa a screditarlo, a farlo apparire in preda ad una crisi di nervi.
Il commento finale del giornalista era stato mellifluo e velenoso insieme: comprensibile lo stato emotivo del dottor Longshire ma non giustificabili i modi violenti nei confronti di chi stava facendo solo il suo lavoro per dare un’informazione di prima mano.
Jack guardò Nathan, smarrito, incredulo del modo in cui la realtà era stata manipolata.

«Quel bastardo aveva minacciato di andare da Phoebe se io non rilasciavo l’intervista».
Nathan scosse la testa: «È tv spazzatura, chi vuoi che la guardi? Domani nessuno se ne ricorderà più». 

Usciti dalla tavola calda si diressero alla clinica. Il radiologo, per far cosa gradita a Nathan, era arrivato con un po’ di anticipo ed era già pronto. 

«Se quello che temevi era un tumore posso dirti subito che non ce n’è traccia» disse Cooper dopo aver esaminato la lastra.
Per un momento Jack si sentì sollevato, ma dall’espressione dell’amico capì che un problema c’era, di altro tipo ma non meno grave.
«Ma?» domandò asciutto.
«Si tratta di un aneurisma a livello della carotide basilare». 

Nathan indicò sulla lastra quella che sembrava una bacca attaccata a un ramo.

«Il rischio di un aneurisma è che quando viene attraversato dal sangue circolante nel cervello può rompersi, in quanto la parete del vaso in quel punto è più debole e fragile. Il pericolo di sanguinamento, però, è molto basso sotto i sette millimetri. Nel tuo caso si tratta di un aneurisma integro e di piccole dimensioni che potresti avere fin dalla nascita. Le emicranie di cui soffri potrebbero esserne la conseguenza. Intervenire chirurgicamente, nel tuo caso, non è la soluzione migliore e neppure necessaria, perché un’operazione cerebrale può comunque riservare delle incognite, quindi lo teniamo sotto controllo e saremo pronti ad intervenire se il caso lo richiedesse».
«Mi stai dicendo che devo abituarmi a vivere con questa bomba nella testa?» domandò Jack, sgomento.

Nathan fece una smorfia.

 «Se vuoi puoi vederla anche così. Ma con quella bomba nella testa ci si può convivere con qualche accortezza e  adottando uno stile di vita sano: niente fumo, niente alcool, niente droghe».

 Sorrise a quest’ultima frase: Jack non aveva mai fumato neppure uno spinello.

«Alimentazione sana, attività fisica e controllo della pressione. Niente altro!».
«Niente altro!» ribattè Jack incredulo. «E tutto quello che mi sta succedendo? Le voci…le allucinazioni?».
«Non dipendono dall’aneurisma. Per quelle dovresti consultare uno psichiatra».
«Uno psichiatra? Così, anche tu come Phoebe, credi che stia diventando pazzo?».
Cooper scosse la testa: «Vai a casa e cerca di dormire. Troveremo la causa e la soluzione per quello che ti sta accadendo».

Jack lo guardò scettico. Dentro di sé provava rancore nei suoi confronti.

«Di tutto questo non farne parola a Phoebe» disse in tono freddo. Distaccato.
«Non lo avrei mai fatto senza chiedere il tuo consenso».