Nel posto dove io sono nata il sole non lo vedevi quasi mai, non ce la faceva a scavalcare i palazzoni delle case popolari, più forte di lui era la prepotenza della miseria e dell’ignoranza, la prevaricazione dei più scaltri, che riuscivano a catturarne qualche raggio per esclusivo uso personale.

Avresti dovuto pagare il pizzo, se volevi usufruire di un po di quel calore.

Nel posto dove io sono nata il sole non lo vedevi quasi.  Così come la speranza.

Credo che anche questa preferisse albergare in altri contesti, per non creare illusioni superflue o attrattive irraggiungibili, per i ragazzini che crescevano, e vociavano, nei giardinetti spelacchiati dei casermoni delle case popolari, e con un destino, per molti di loro, già ereditato alla nascita: droga, galera, matrimoni feroci, miseria.

Il sole, se non lo hai, lo inventi, ma questo non puoi farlo, però, se non ne conosci neppure l’esistenza, e nessuno te ne parla.

In quei casermoni, tanti ragazzi della mia generazione, di quel sole non ne sapevano nulla, e  molti non hanno avuto neppure il tempo d’intravederlo, inghiottiti dal buio del loro destino.

Io sono stata fortunata, o forse semplicemente era scritto nel mio destino che quel sole, per un lungo momento, anche per me brillasse, non nell’illusione di un sogno, ma nella sua consapevolezza.

Mio padre operaio edile, mia madre casalinga (4 figli, costituiscono una giornata lavorativa di 24 ore), mia nonna paterna, in una casa di neppure 40 metri quadrati, dove la stanza di ognuno era costituita da un cassetto, simbolo inviolabile della propria privacy.

Di più non si poteva.

Ma gli spazi ristretti magicamente si allargano se la tua mente si allarga, se qualcuno in quella tua ancora così giovane intelligenza, ci pianta con amore, e lungimiranza, un seme, e quello germogliando troverà la sua presa d’aria, quelle vie d’accesso all’apparenza precluse: la tua strada verso il sole.

Quel seme lo ha piantato mio padre attivista del P.C.I,  con i suoi discorsi di uguaglianza, democrazia, e lotta per i diritti. Discorsi ruvidi, adulti. Difficili, all’inizio, da capire.

Mia nonna mi ha portato dentro a quei discorsi attraverso la poetica della narrazione.

Ho iniziato a frequentare la sezione P.C.I. del mio quartiere, a 14 anni ero iscritta alla F.G.C.I.

I ragazzi che frequentavano la sezione erano diversi da quelli delle case popolari, non per come si presentavano (seppure gli indizi dell’appartenenza politica, orgogliosamente venivano sfoggiati) ma per il calore, e il convincimento, dei loro discorsi: gli stessi di mio padre, ma meno inquadrati nella logica rigida del partito. Con più sfumature, di critica o di dissenso.

Un completamento direi.

Io non ho studiato (ho la terza media) nonostante mio padre me ne avesse dato la possibilità, perché non reggevo lo stress degli esami, i miei primi compagni d’avventura politica, quindi, sono stati gli iscritti alla Sezione, studenti e operai, i giovani e gli adulti, che con dinamiche e sfumature diverse, s’apprestavano a dar vita a quello che è stato il grande sogno collettivo del nostro secolo.

…poi è arrivato anche l’amore, e la battaglia politica per me si è colorata di musica e colori, con nuove esperienze e nuove forme di lotta, all’interno della band del mio ragazzo, (che poi è diventato mio marito e poi ex) dove io assolvevo alla funzione di paroliere (iscritta alla S.I.A.E)

Quella che io oggi sono, il lato positivo, e propositivo di me, lo devo a tutte queste persone (mio padre in primis) che hanno contribuito col loro impegno, politico e sociale, ad allargare i miei spazi, ed abbattere i muri dei palazzoni delle case popolari, e permettere al sole di giungervi.

…quello stesso sole che oggi, in questo nostro presente violentemente deformato e devastato, è di nuovo esiliato da quegli stessi casermoni e dai nuovi  agglomerati dove continuano a prolificare nuove, solitarie forme, di emarginazione e miseria.