Il complesso era enorme. Padiglioni d’epoca regia misti a strutture cubiche moderne, che si richiamavano nel colore delle mura esterne: una tinta tenue, color carne.
Quel giorno però, attraverso la solita grande finestra al secondo piano, il panorama era molto cambiato.
A Roma era caduta la neve e tutto era candido, immobile. Roma vista così, vestita di bianco e spogliata delle sua frenesia, riportava alla mente antiche suggestioni.
Le scale di sicurezza in acciaio, agganciate alla parete laterale, erano sempre state uguali a mille altre. Non quel giorno, quando rivestite del soffice, bianco tappeto si erano trasformate ai suoi occhi in quelle di un hotel di montagna, di cui non ricordava più il nome.
Il grande hotel con la spa, in cui era stata due inverni prima, durante l’ultima settimana bianca. Sentiva ancora il rumore dei suoi doposci sulle scale, che percorreva per evitare la fila in ascensore o intoppi per le scale interne ricoperte di moquette. I suoi passi allora producevano un suono simile a un campanaccio, che si mescolava all’aria fresca che entrava nel naso frizzantina, per poi uscirne in nuvolette vaporose che le scaldavano il viso.
Il ristorante a buffet con le sedie in legno chiaro e massiccio. Sentiva ancora la gioia delle mani che contenevano la tazza bianca di cioccolata calda e il sapore che addensava in un sorso tutta la bellezza della situazione. L’alba sulle montagne innevate, il proposito di un pranzo a base di polenta e chiara media appena spillata, lo chalet ad alta quota, brindare con lui.
E poi al ritorno riscaldarsi facendo l’amore sotto il piumone, con i corpi odorosi di sidro. Con la carne ancora compatta, giovane e perfetta, imperlata di sudore e così tesa da risultare impossibile da contenere stringendo una mano.
Tutto allora sembrava perfetto a dire il vero, anche se Agnes non poteva evitare l’infausta sensazione di ritrovarsi immersa in un sogno, che come tale è sempre corruttibile dall’arrivo di una nuova alba.

La cioccolata uscita dal distributore automatico non funzionò per sentirsi meglio. E non era colpa del sapore. L’alba alla fine era davvero arrivata e troppo era cambiato in poco tempo. Anche la neve, dopotutto, iniziava già a sciogliersi.

Ormai i medici e gli infermieri la salutavano chiamandola per nome.
“Ciao Agnes!! Cosa dice il nostro uomo oggi?”
“Oh, alla grande, oggi è davvero loquace!”
Sdrammatizzava Agnes. Dopo un anno riusciva ad entrare in quella stanza e parlargli come se nulla fosse delle sue giornate di lavoro, delle sue ultime scoperte mediche, dei nuovi piatti che aveva imparato a cucinare.
“Anche tu che mi prendevi sempre in giro ti leccheresti i baffi, e non fare quella faccia! La mia cucina ormai non teme rivali. Dico sul serio.”

Lui e la sua maledetta fissazione per gli sport estremi.

Ma in fondo era così che lo aveva conosciuto. Erano anni che se lo riprometteva: un giorno si sarebbe lanciata con il paracadute. Un lancio a due, con l’istruttore, che alla fine aveva acquistato in uno di quei siti che offrono coupon scontati on line. Il tipico acquisto compulsivo.

Poi un giorno era arrivata l’email con l’ultimatum “Il tuo coupon sta per scadere, affrettati!”. E così, alla fine, aveva prenotato quel lancio proprio al limite del tempo concesso.

Ricordava ancora l’adrenalina che non le aveva fatto chiudere occhio per tutta la notte precedente, in cui ogni secondo decideva di lasciar perdere, ma poi ci ripensava.
“Devi affrontare le tue paure”.

Alla fine c’era andata. E con le gambe tremanti era salita su quel piccolo aereo. E finalmente lo aveva visto.
I capelli lunghi sopra le spalle, biondi, arruffati, un po’ bruciati dal sole e quell’espressione accesa da gatto.
“Signorina, mi concede questo ballo?”
Lasciarsi andare nel vuoto attaccata a lui era sembrata la cosa più naturale del mondo.
Il cuore in gola, per tanti motivi.

“Aperitivo?”
Aveva appena toccato terra, ancora tremava tutta e aveva le lacrime rapprese sulle tempie, eppure si affrettò a dire “Ok.”

Quella stessa sera aveva scoperto che il paracadutismo era forse il più tranquillo degli interessi di Bryan. A quella serata ne seguì subito un’altra, e poi un’altra ancora, quella in cui lei lo aveva invitato a salire con la scusa di un liquore al cioccolato fatto in casa, che lui non aveva neanche assaggiato perché non aveva aspettato un secondo per trattenrla e baciarla e spogliarla e percorrerla ed esplorarla e annusarla e completarla. Completarsi: come avviene quando due si incontrano e non riescono fin da subito, da quel primo sguardo, a fare a meno l’uno dell’altra.

“Potremmo fare come quella coppia, che ha messo su famiglia girando il mondo, sopravvivere di competizioni di surf, aprire un blog in cui raccontare la nostra esperienza. Trovare sponsor. Vivere, sul serio. Ogni giorno nuove avventure.”

Agnes lo avrebbe inseguito in capo al mondo. Sarebbe stata la sua donna, il suo supporto, la sua migliore amica, la madre dei suoi figli, la sua amante, tutto quello che lui avesse desiderato, perché a lei bastava solo averlo vicino per vivere “sul serio”.

“Mi basta averti vicino per sentire di vivere.”
Ma per lui non era lo stesso. Bryan era sempre alla ricerca dell’onda perfetta da cavalcare con la sua tavola, di nuove vette da scalare, di climi assurdi in cui dimostrare di poter sopravvivere.

Con il tempo Agnes aveva imparato a leggere i bollettini meteo. Lo scongiurava di desistere quando le condizioni erano davvero rischiose. E quando tornava ringraziava di poterlo ancora accarezzare. Facevano l’amore e lui le prometteva una vita meravigliosa, figli bellissimi, con le labbra e i capelli della loro madre e il fisico forte e nervoso del loro padre.
Viaggiavano spesso. Lei era la sua piccola grande donna. La presentava orgoglioso ai suoi amici pazzi, lei che pazza non era mai stata.

Poi fu la volta della Tunisia, per un rally, e fu lì che il sogno si infranse.

Era proprio stanca quella sera Agnes “Bryan, vado in stanza. Mi raggiungi lì?”
“Certo piccola, ci vediamo tra poco.”

Agnes si addormentò e poi si risvegliò nel cuore della notte, con la parte di letto al suo fianco fredda e vuota.

In pigiama lo cercò nella hall, nel bar, nella sala con il pianoforte in cui due sere prima si era esibita una donna incantevole vestita di rosso, le pareva di ricordare si chiamasse Myriam. Agnes l’aveva osservata attentamente: quelle movenze, quegli sguardi, la voce graffiante e suadente che viaggiava sulle note blues. Avevano gustato un buon vino rosso ascoltandola, e lei aveva desiderato di saper cantare e muoversi così per Bryan. Anzi, aveva deciso che al ritorno si sarebbe iscritta ad una buona scuola di canto.

Fu sul bordo della splendida piscina, illuminata nella notte, che vide il corpo nudo di Bryan baciare il corpo nudo di Myriam.
Sì, ora ne era certa, lo ricordava bene che quello era il suo nome. Il nome e il sapore di una nuova avventura e la fine del sogno.
In quell’esatto momento capì di essere durata fin troppo.

“Non te ne andare, possiamo risolverla. Come faccio io se te ne vai?”
“Me ne vado perché non sopporto l’idea di odiarti.”
“Per me sei l’unica.”
“Lo vorrei tanto. Il fatto è che lo sono ora, perché me ne sto andando, perché non puoi trattenermi.”
“Ti amerò sempre.”
“Sì, forse lo farai, proprio perché me ne vado.”

Fu come sopravvivere ad una crisi di astinenza. Il distacco fu totale, definitivo, assoluto. E lei tornò presto in sé. Ma non riusciva più ad amare. Non come sapeva di esserne capace. Ma Agnes era troppo razionale per disperarsi. La vita con lui era sempre stata come una candela accesa da entrambi i lati, lo aveva sempre pensato… in qualche modo aveva sempre saputo che sarebbe finita presto. La ragione le diceva questo ma anche che tornare ad essere felice, no, non le sarebbe più accaduto. Si sentiva destinata a non saper amare più.

Essere d’aiuto agli altri. Questo le rendeva accettabile il proseguimento nello giornate grigie della sua esistenza.
Come volontaria passava molto tempo in ospedale. Spesso andava dai bambini, leggeva loro delle storie, li faceva colorare e disegnare.
I bambini amavano quel suo viso da ragazzina, gli occhi azzurri e grandi, le sue lentiggini. Era proprio una di loro Agnes.

Fu durante una pausa al bar dell’ospedale in compagnia di un giovane medico che la corteggiava da mesi che la vide. Non le fu facile riconoscerla così, senza trucco, seduta da sola ad un tavolino del bar dell’ospedale.
In fondo era passato qualche anno, e quando l’aveva vista era vestita di rosso e di musica, e poi l’ultima volta era nuda e baciata dalla luna. Non solo dalla luna purtroppo.

Si allontanò dall’uomo in camice e si sedette di fronte a lei
“Myriam, sei tu vero? Come mai… posso chiederti come mai sei qui?”
La donna, con i capelli sconvolti e gli occhi rossi la guardò senza riconoscerla.

“Agnes.” Si presentò con il tono austero di chi è in forte credito.
“…Agnes… già, la donna perfetta.”
Rispose ironica Myriam, per nulla colpita di incontrare la sua rivale per caso in quel luogo.
“Perché sei qui Myriam?”
“Ha avuto un incidente. Una immersione…”
“Bryan??! Stai parlando di Bryan? Oddio, dov’è ora? Myriam dov’è?!”
La donna per un istante divenne quasi catatonica. Ma poi si riebbe.
“È uscito dalla rianimazione. Dicono che non tornerà più come prima…”
“Oh sì, invece.”
“…io ho un figlio.”
“Di Bryan?”
“No.”
“Perché me lo stai dicendo?”
“… è che, devo occuparmi di lui. Del bambino.”
“E allora vai, cosa aspetti?”

Myriam era uscita dalla sua vita così come ci era entrata. Non proprio nello stesso modo a dire il vero. L’entrata era stata spartana, a gamba tesa e testa alta. Una donna incurante del vuoto che avrebbe lasciato: le aveva portato via tutto in una sola notte. Ed ora questa ritirata da codarda, quando il bottino si era trasformato in fardello.

“Ciao Bryan.”
Una presenza lontana, silente, calva e immobile aveva preso il posto dell’uomo che un tempo avrebbe inseguito in capo al mondo.
“… in capo al mondo. Ricordi? Intanto cerchiamo di uscire fuori di qui, vuoi?”

Uscita dal lavoro Agnes era lì. Ogni giorno, in quell’ospedale.
“Esiste una strada per la riabilitazione?” Chiedeva ai medici che le ispiravano più fiducia.
“Non è facile. Potrebbe recuperare qualcosa, sì, ma è difficile dire quando e quanto.”
“Tutto. Quando non so. Ma recupererà ogni cosa.”

La caparbietà di Agnes. La sua incredibile forza. Lesse tutto quello che era stato scritto sull’infermità di Bryan, parlò con chiunque potesse tornarle utile, scrisse lettere e email in tantissimeme lingue differenti e attese con ansia risposte da Paesi vicini e lontani. E poi mise in pratica ogni tecnica possibile.

Fino al giorno in cui decise di tornare in quella che era stata la loro casa. Di assisterlo lì.
Non sapeva se Bryan fosse consapevole, cosciente. Però lo credeva. Credeva con la sua presenza e cura di riuscire a permeare almeno un po’ quello strato catatonico. Un po’ sarebbe stato sufficiente.

Non si sbagliava.
“Pe… perché sei to… tornata.”
Le prime parole dopo oltre un anno, dette con una enorme fatica.
“Perché voglio che tutto torni come era prima.” Rispose Agnes piangendo un po’, ma cercando di mantenere un certo contegno.
“Sstai… per… perdendo il tuo te… tempo.”
“Mi stai parlando. O sbaglio? Ti fidi di me? Un tempo ti fidavi di me.”
“Te ne sei andata.” Questo lo scandì perfettamente.
“Tu mi hai tradita. Ma sono comunque tornata. E vorrei restare. Se me lo permetterai.”
“So… solo perché ti fa faccio pena.”
“Solo perché ti amo. Questa è la frase corretta. Solo perché ti amo.”
E per la prima volta, quello stesso giorno, anche Bryan pianse.
E come accadeva una volta, quello stesso giorno, con gli occhi negli occhi, Bryan e Agnes finalmente si riconobbero.
E dopo tanto tempo – e non lo avrebbero mai creduto possibile – quello stesso giorno, accennarono insieme ad un nuovo sorriso. Un sorriso che aveva il sapore di un nuovo inizio. Un inizio difficile, verso un traguardo da conquistare insieme con grande fatica, e proprio per questo, incorruttibile.