“Come fai a tenere per sempre con te qualcuno a cui vuoi molto bene?

Devi guardarlo fisso, prendi la sua immagine, chiudi di scatto gli occhi, li tieni ben chiusi. E lui ti scende fino al cuore e da quel momento quella persona sarà per sempre con te.”

Quando Ferzan Ozpetek torna a girare le sue storie romane, nei suoi quartieri, con i suoi personaggi, fa sempre centro.

Chi ama il cinema del regista turco sarà felice di ritrovare le feste in terrazza, le danze, le canzoni da riscoprire, gli sguardi e le battute tipiche delle altre opere di Ozpetek: La Dea Fortuna è un ideale seguito, o compagno, di film come Le Fate Ignoranti e Saturno Contro. Stavolta, ai fedelissimi Stefano Accorsi, Serra Yilmaz e Filippo Nigro, si aggiungono Edoardo Leo e Jasmine Trinca, che con Accorsi formano il triangolo centrale della storia.

La dea Fortuna rappresenta la casualità della vita, il fato nel senso più neutro del termine: un incontro casuale, un imprevisto, un’opportunità. Sta a noi – come racconta Arturo (Stefano Accorsi) ai bambini di Annamaria (Jasmine Trinca) – farne il meglio, trasformare il caso in occasione.

La rete dei rapporti che ci mantiene umani

C’è bisogno di un cinema come quello di Ferzan Ozpetek, che trova una leggerezza in costante equilibrio col melodramma nel mostrare che l’umanità non dipende dall’orientamento sessuale, dalla razza, dallo stato di salute, dalla cultura e nemmeno dall’età: ciò che ci rende umani è la complessa rete di rapporti che teniamo insieme e che ci tiene insieme, e quanto riusciamo a farne tesoro ogni giorno, nonostante il tempo inesorabilmente tenda ad allontanarci e ad affievolire i sentimenti più potenti, a indebolire i legami e a far crescere le distanze.

In una cornice narrativa estremamente drammatica (Arturo e Alessandro sono ormai in crisi, Annamaria affida loro i sue due bambini per accertamenti medici che non lasciano presagire niente di buono, mettendo ulteriormente in crisi la loro dinamica) Ozpetek riesce a procedere con grande delicatezza – alternando dramma e momenti molti divertenti – creando un altro ensemble di personaggi che sembrano funzionare solo all’interno della grande idea di famiglia contemporanea allargata, con buona pace della Meloni.

Estendendo il concetto di famiglia oltre quello del sangue, ci suggerisce Ozpetek, accogliamo un insieme di sensibilità ed esperienze forse più consono ad affrontare questi tempi confusi. Senza necessariamente avere un campionario umano colorito come quello che Ozpetek costruisce ogni volta (che funziona splendidamente sullo schermo), e sapendo che nulla ci protegge completamente dai nostri errori, dalle crisi, dai rimorsi, indipendentemente dal vissuto e dallo stato sociale.

C’è un momento in cui il personaggio di Filippo Nigro, che soffre di un terribile disturbo di memoria che gli fa continuamente dimenticare tutto, chiede alla moglie (dandole del lei) se è triste. Lei gli risponde: “come potrei, ti innamori di me ogni giorno”. Ciò che fino a quel momento era stato utilizzato come momento di alleggerimento (lo smemorato funziona sempre) diventa la chiave stessa del film: mentre la relazione di Arturo e Alessandro va in pezzi dopo quindici anni tra rancori e recriminazioni, quella dei due amici ricomincia tutti i giorni, scevra del peso dei ricordi. E’ il caso – la fatalità – che viene trasformata in occasione di felicità.

Il punto di vista dei bambini

L’introduzione del punto di vista dei bambini allarga ulteriormente lo spettro emotivo a cui Ozpetek riesce ad attingere con grande naturalezza e le interazioni tra i piccoli preoccupati e terrorizzati per la salute della madre e gli adulti incapaci di essere all’altezza della situazione sono credibili e non scadono mai nei luoghi comuni (come quello del bambino saputello più maturo dell’adulto).

Non ci sono quasi mai personaggi totalmente negativi in questo tipo di film, ma stavolta Ozpetek ci mette anche l’esempio opposto, nel personaggio di Elena (Barbara Alberti), la madre di Annamaria, sola e lontana, sia fisicamente che spiritualmente, dal resto del mondo, non a caso l’unica a far riferimento al sangue come legame indissolubile. E’ un simbolismo fin troppo scolastico e probabilmente il finale si dilunga eccessivamente, ma è l’unico neo di un film altrimenti davvero godibile.

Da sottolineare le prove dei tre protagonisti principali. Ozpetek tira fuori il meglio da tre attori che non sempre mi hanno convinto – soprattutto in ruoli di questa intensità. Persino Stefano Accorsi riesce a dosarsi molto meglio del solito.

Non credo molto nel valore civile o politico del cinema, anche perché il pubblico di Ozpetek, generalmente, già ne condivide valori e orientamenti, il rinforzo non serve. Preferisco pertanto pensare a La Dea Fortuna non tanto come all’ennesimo manifesto di una società multietnica e aperta, quanto a un inno  ai legami forti che nel tempo sanno tornare, anche sotto altre forme, a farci riscoprire noi stessi e guidarci. Ricordarselo, ogni tanto, fa proprio bene.