Ti ho vista, sai, sei entrata dal portone con la borsa della spesa e come al solito hai dato un’occhiata alla lunghissima rampa di scale da affrontare: oltre trenta scalini – trentadue per la precisione – di ardesia nera per raggiungere il tuo piano.

Sì, queste antiche case del centro storico di Genova sono così: soffitti altissimi, anche sei metri, da cui sono stati ricavati due piani, ma niente ascensore e spesso neanche spazi per realizzare rampe di scale intervallate da pianerottoli, a causa del divieto di modificare i volumi esterni agli appartamenti imposti dalle Belle Arti.
In questo caso, poi, sotto al tuo non c’era neanche un altro appartamento ma… io lo so cosa c’era, un ricovero per carrozze. Lì, prima che elevassero i muri che hanno chiuso le volte ad arco acuto, si parla di due secoli fa, allora i muratori avevano meno problemi, erano custodite le carrozze nere che… Da lì uscivano con il sinistro rumore delle ruote rinforzate in ferro sul lastrico della strada per…

Sbuffi, poi ti scappa un sorriso. So cosa pensi:
«Questa maledetta scala mi farà morire, ma è il motivo per cui l’affitto è così basso, anche per il sestiere del Molo. Certo, non l’avrei mai comprata, anche se avessi potuto, ma sono ancora giovane e prima di invecchiare troverò da qualche altra parte…»
Intanto per te e il tuo bambino questa casa andava benissimo, ti aveva detto l’agente immobiliare. Sì, la scala è ripida, ma basta fare attenzione, e poi farai presto a farci l’abitudine!
Ti aveva preoccupato piuttosto la vicinanza con la strada Sopraelevata, per via del rumore, ma quello ti aveva assicurata che non si sentiva per niente, e aveva ragione.
Per qualche misterioso motivo i rumori del traffico si fermavano fuori dalle finestre, dicevi alle amiche che ti erano venute a trovare, perlomeno, prima di scoprire quella scala. Dopo la prima volta, infatti, ti davano invariabilmente appuntamento in uno dei bar vicini, o lungo i moli dei magazzini del Cotone, ‘per fare una passeggiata’ dicevano, ma tu le capivi.

Adesso sei arrivata al piano. Ansimi, è naturale, ma entrerai nella tua casa, piccola ma accogliente, e potrai finalmente rilassarti. Ecco che percorri il lungo corridoio poco illuminato – sono case storiche – e ti fermi di fronte alla tua porta. Una folata ti vento freddo ti fa rabbrividire.

Perdonami, non ho saputo resistere.
Ti volti e guardi la finestra dietro alle tue spalle, quella che dà su piazza Cavour. E’ chiusa.
Dall’altra parte c’è quella incantevole costruzione dell’undicesimo secolo, quella che chiamano impropriamente «Casa del Boia». Perché impropriamente? In effetti è l’unica casa interamente con pietre a vista, molto caratteristica.
Adesso sei inquieta, ti guardi più volte alle spalle. Il tuo appartamento è l’unico che dà su quel corridoio, stranezze delle case ristrutturate. Se un malintenzionato ti avesse seguita saresti in trappola. Almeno, finché non avrai aperto la porta.
Infili la chiave di fretta, non entra. Ti tremano le mani, la giri, adesso va. Levi le tre mandate, la serratura scatta, sei dentro.
Chiudi la porta di fretta. Ma cosa ti ha preso?
Lo so io cosa ti ha preso.

Attraversi l’ingresso che fa anche da soggiorno camminando sul parquet. Per via di quella scala hai dovuto anche rinunciare ad andare in giro con i tacchi. Te lo immagini trentadue ripidi scalini con un tacco dodici? Ti è ritornato il sorriso. Le rare volte che puoi andare a ballare o uscire la sera hai preso l’abitudine di portarti le scarpe eleganti in un sacchetto e poi cambiarle una volta arrivata a pianterreno. Le scarpe basse le lasci in un angolino, tanto lì ci entri solo tu.
Certo, potresti anche scendere scalza, ma pensa a come ti ritroveresti i piedi una volta arrivata in fondo? Se poi la serata si concludesse con… non vuoi neanche pensarci, sai che figura? Sogni, sì.

Ti siedi sul divano, accendi la tv, ti rilassi. Pian piano cadi in un sonno leggero.

Ti svegli di soprassalto. E’ buio, quanto hai dormito? Tuo figlio? Ah, già, stasera dorme dalla Ines. Pensa se avessi dovuto andarlo a prendere!
Tranquilla, in quel caso non ti avrei lasciato addormentare, i bambini prima di tutto.
Non hai neanche mangiato. Ti alzi, cammini a piedi nudi nella stanza buia fino alla finestra del soggiorno, che dà sui moli e da cui proviene la luce fredda dei pastorali che illumina debolmente la stanza. Lontano, sulla piazza, pochi turisti si aggirano verso i moli, vanno a fare due passi per digerire, sono usciti da una delle tante trattorie della zona, magari da Vico Palla. Gruppi di extracomunitari ciondolano nella zona, le bottiglie di birra in mano.
‘Latinos’, pensi, ‘non neri’.

Accendi la luce, vai all’angolo cottura, apri il gas, cerchi due uova nel frigo e le metti a bollire.
Poca fantasia.
Chiudi di nuovo la luce e ritorni alla finestra, la fiamma azzurra del gas illumina un altro angolo.
‘Sembra un fantasma’, pensi.
Non sai quanto hai ragione.

Hai acceso una candela e mangi alla sua debole luce. Non sai perché lo hai fatto, ma io sì: mi piace quella luce, mi ricorda i miei tempi.
So che senti addosso una strana inquietudine. E’ normale, ma un po’ mi dispiace.
Fuori si è alzato il vento, senti tintinnare le sartie degli yacht contro gli alberi metallici, è quasi un concerto. Non hai voglia di accendere la televisione, ti sei fatta una tisana e adesso la sorseggi guardando fuori, di sotto. Potresti uscire, ma non hai voglia di fare un’altra volta la scala.
Resterai in casa fino all’ora di andare a letto, e poi, domani, al lavoro, come sempre.
No.

Un rumore stridente viene dalla parte delle scale, da basso. Senti anche tu quei passi leggeri sulle scale o è soltanto un’impressione?
Calcoli il tempo che uno ci potrebbe mettere a salire, mezzo minuto? Un minuto? Ormai se fosse venuto da te dovrebbe essere vicino alla porta. Non ti sembra di sentire un respiro? Non un affanno, solo un respiro, e ora come un lieve graffiare.
Lo sai, è il momento di andare. Ti avvicini alla porta, proprio mentre senti un distinto bussare. Non il suono del campanello, ma delle nocche che picchiano sul legno spesso.
‘Non aprire’, ti dici, ‘perché dovrei aprire?’
Ma vai alla porta camminando lentamente, togli il chiavistello e socchiudi l’uscio.

Entro.
Dice una leggenda che uno spirito non può entrare in una casa se non è invitato, ma sono tutte fandonie. Questa è la mia casa. Di fronte, dall’altra parte della piazza, c’è quella casa in pietra che tutti chiamano ‘del boia’, o anche di Agrippa, per via di antiche iscrizioni che avevano trovato lì. Forse questo secondo nome sarebbe appropriato, ma il primo no: io abitavo qui, proprio in questa casa, anche se allora gli interni erano molto diversi, e sotto c’erano le stalle da cui usciva le carrozza trainata da due cavalli neri che andava a prendere i condannati a Palazzo Ducale per portarli al luogo dell’esecuzione, giù al Molo. A volte, quando si trattava di politici che non era bene mostrare in pubblico, andavo su io, alla Torre Grimaldina, a fare il mio lavoro, ma in questo caso usavo la garrota o la mannaia, non la forca.
Sì, l’avete capito, io sono, o meglio, ero il boia.

Vieni vicino a me, piccola donna, non sottrarti al mio abbraccio, non ti farò del male. Porterò via da te il freddo, la tristezza e la solitudine. Sì, anche la vita, ma sarà leggero il nostro cammino e forse, forse torneremo insieme tra queste mura, come a volte faccio con le tante persone che sono venute ad abitare qui e poi sono misteriosamente scomparse.
Non te l’aveva detto quello dell’agenzia? Questo è il motivo per cui l’affitto è così basso, per via della leggenda che dice che questa casa è maledetta.
Ma no, non è vero, non è maledetta, è solo la casa del boia, e io sono il suo fantasma.