La Casa. Un nome importante, decisamente esagerato per qualificare quello scantinato. Ma per noi tutti fu subito “la Casa”, all’unanimità. Non ricordo più da chi partì la proposta di affittarlo, ricordo la prima volta che si parlò seriamente di prenderlo. Era un pomeriggio d’autunno, già buio, ma non freddo. Eravamo ammucchiati su due panchine affogate nel traffico, tra macchine urlanti e nuvole di gas di scarico. E noi lì, jeans e pullover, chi scettico, chi emozionato, chi entusiasta. Chi l’ha visto dice che è grande e che l’affitto è conveniente. E poi siamo tanti, l’affitto non sarà una gran cifra. L’idea sembra buona anche se i problemi non mancano. Alla fine anche le ultime resistenze cadono, si decide di prenderlo.

La prima volta che varcai quella porticina e scesi quella buia rampa di scale, devo ammettere che il mio scetticismo iniziale, ricacciato indietro a viva forza, mi si parò davanti in tutta la sua grandezza. Per non parlare dello spettacolo all’interno. Sembrava un’impresa titanica ripulire, sistemare e ristrutturare quel posto con le nostre misere risorse. I miei occhi si posarono su quel marasma buio e polveroso con sconforto. Poi ci fu il sussulto, la sfida: diventerà abitabile. E ce la facemmo. Ci scoprimmo muratori, falegnami, elettricisti. Tirammo fuori tutto il nostro ingegno e la nostra creatività, lavorammo sodo tra calce, tavole, fili elettrici, cemento, sudore, litigi e risate. Il risultato ci sembrò sconvolgente. Eravamo tredici persone a dividere quattro stanze. Dividemmo tre stanze a metà e tenemmo la prima, quella dell’ingresso, in comune. Questa divisione non nasceva solo dalle esigenze delle coppie. Era il bisogno di ciascuno di  un angolo proprio da curare, sistemare. Altrimenti non sarebbe mai stata una vera casa.

E così, giorno dopo giorno, i diversi angoli prendevano forma, la personalità, la fantasia, la creatività di ognuno di noi si esprimeva in svariati modi e anche un estraneo, entrando e gettando un’occhiata all’interno, avrebbe potuto notare le diversità e i caratteri emergenti.

Fu un autunno laborioso quello del 1977. Mentre nel Paese l’impennata del terrorismo si affannava ad infarcire di piombo quegli anni, noi costruivamo la nostra “casa”, uniti tutti dalla certezza di essere dalla parte giusta. Non avevamo bisogno di bombe o di attentati, per noi la scelta era fatta e nei cortei, nelle manifestazioni, all’università, difendevamo la nostra democrazia. La storia ci ha dato ragione.

Quegli anni io li ricordo come duri, sì, difficili, ma anche molto importanti. Siamo cresciuti, maturati, abbiamo parlato, urlato, litigato, studiato, fatto l’amore, pianto, sognato, sperato. Eravamo vivi, giovani, entusiasti.

La casa era lo specchio di noi stessi. Lì i nostri pomeriggi nascevano e morivano ogni giorno. C’era la musica, il Monopoli, l’ingranditore fotografico, gli appunti di storia, le feste di compleanno. E c’erano i momenti di solitudine cercati e trovati, il desiderio di stare da soli ad ascoltare il silenzio, rotto magari solo dal miagolio di un gatto randagio.

Lì sono nati, vissuti e morti amori, amicizie, collaborazioni di lavoro. Lì sono stati svelati segreti, esorcizzate paure, covati rancori, esplose passioni. Quante parole saranno nascoste ancora tra quelle ombre, quante promesse ormai avvolte dalle ragnatele del tempo.

Eppure le voci, i volti li ricordo tutti, così come le storie, gli aneddoti, le battute. Come eravamo. Una girandola di persone che arrivavano, andavano via, tornavano. Eravamo tanti e ci

succedevamo rapidamente. Alla fine eravamo solo in due, superstiti della “prima generazione”. E ogni viso nuovo era un ricominciare a trafficare, cambiare, rinnovare. Tra un arrivo e una partenza sono passati circa tre anni. Per tutto quel tempo “la Casa” è stata il nostro microcosmo, un unico punto d’incontro per tante diversità.

Poi, all’improvviso, così come era nato, l’interesse di noi tutti svanì. Ci accorgemmo quasi simultaneamente che non vi era più motivo per continuare, non ci andava più di stare lì. A tratti ci sembrava un’inutile palla al piede, non ci si andava quasi più, gli echi delle risate sembravano lontani anni luce. Era ricomparsa la spessa patina di polvere che all’inizio il nostro entusiasmo aveva spazzato via in un attimo.

Lasciarla fu più facile di quanto temessi. Ognuno portò via le sue cose senza rimpianti, senza rigurgiti sentimentali. Fu così anche per me. Eppure era strano. O forse era solo l’inizio della fine di altre cose. Ci chiudemmo la porta alle spalle e, forse, senza accorgercene, entrammo in un’altra fase della nostra vita. Forse “la Casa” non era altri che l’Isola che non c’è di Peter Pan per alcuni di noi. O, forse, era stata un trampolino per altri, un mezzo per tirare fuori qualcosa che avrebbero rielaborato poi.

Non posso neanche dire che ognuno andò per la sua strada perché non è vero. Ancora oggi molti destini di allora si incrociano, si sfiorano, camminano insieme. Conosco il seguito di quasi tutte le storie di allora, conosco i loro volti di oggi e i nuovi che ai loro si sovrappongono.

Ho conosciuto anche il dolore tremendo di dover dire addio per sempre ad uno di loro troppo presto, di vedersi spegnere all’improvviso uno dei più bei sorrisi di quegli anni. E forse è stato proprio il suo ricordo a farmi tornare indietro, a farmi risentire quelle voci, a farmi ripensare a cosa ha significato, per tutti noi, “la Casa” di allora.