LUI
Dopo qualche settimana mi giunse uno spettacolare bouquet di rose screziate, accompagnate da un bigliettino: Grazie, Isabel per aver quel giorno scongiurato la terza guerra mondiale.
Rose screziate, le mie preferite: un semplice caso, oppure, molto più probabilmente, s’era informato sui miei gusti floreali?
Mi era già accaduto altre volte di ricevere ringraziamenti postumi per il mio lavoro, per cui questo rientrava nella norma, così come che i clienti soddisfatti consigliassero la mia agenzia a parenti ed amici in procinto di sposarsi, così quando lui mi contattò per prendere appuntamento per un suo amico intenzionato al grande passo, io non ci trovai nulla di strano.
Ma trovai strano che ad accompagnare il suo amico, invece della futura sposa, fosse lui.
Ad ogni modo, io e il mio nuovo cliente, facilmente ci accordammo sulle linee guida della cerimonia, fissando un secondo appuntamento per definire i dettagli, questa volta insieme alla sposa.
«Le andrebbe un caffè, Isabel?»
Eravamo rimasti soli, che l’amico, dovendo prendere un aereo, s’era già congedato.
«Come sta la sposina? E la gravidanza, procede bene?»
«A meraviglia, se non fosse per la sciagura di dover prender chili e della necessità conseguente di ritornare al peso forma, dell’allattamento che rovina il seno e delle odiose smagliature che deturpano la pelle, per cui, allo scopo, sono già stati assunti una nutrizionista, un personal trainer e una baby sitter.» Aveva fatto l’elenco delle impellenti necessità della giovane moglie in tono divertito, ma avevo rilevato nella voce una nota d’insofferenza.
«E’ ancora così giovane, le dia tempo.» M’ero sentita in dovere di prenderne le difese in nome di una solidarietà femminile che in realtà, verso di lei, non sentivo.
«E’ semplicemente molto viziata e molto infantile. Non crescerà mai.» Aveva ribadito sconfortato.
«Non è una buona previsione questa sua. L’aiuti lei a maturare.»
«E’ sempre così ottimista, Isabel?» Mi aveva sorriso senza allegria
«Ma allora perché l’ha sposata?»
«Non ho avuto alternativa.»
«C’è sempre un’alternativa.»
«Visto che avevo ragione? Lei è un’ottimista e della specie peggiore: quella degli inguaribili.»
…e su questa sua constatazione scoppiamo a ridere.
Iniziò così uno scambio serale di messaggi, piccoli incisi sull’andamento della giornata correlati da brevi riflessioni personali. Niente di intimo, ma quello scambio di pensieri era diventato un piacevole appuntamento, così quando per un paio di sere consecutive non avvenne, constatai, con una qualche
inquietudine, quanto per me fossero diventati, invece, indispensabili, e così quando la sera sul mio cellulare si materializzò il suo messaggio” Isabel, mi sono innamorato di te,” risposi, “anch’io”.
NOI
E fu amore, passionale, travolgente, esclusivo.
Ogni momento libero era finalizzato allo stare insieme, e per questo iniziammo ad inventare pretesti e bugie e alibi, e a costruire una sorta di vita, segreta e parallela, a quella pubblica.
Avevamo affittato una piccola casa in riva a un lago, in un posto sperduto per evitare incontri inopportuni, dove trascorrevamo le giornate senza neppure mai uscire, appagati solo di poter stare insieme, gelosi di quella nostra meravigliosa solitudine, e del racconto intimo che da essa scaturiva.
Ma per essere felice dovevo costringermi ad ignorare la montagna di bugie su cui poggiava la nostra relazione, quel costante dover vivere nell’ombra per poter essere vicini al sole, in quella concertata finzione esistenziale dove pure, in caso di necessità, era contemplata l’abiura.
Niente a che vedere con il limpido, onesto, vittorioso amore dei miei genitori, felicemente esplicitato alla luce del sole ad onta di ogni meschinità intellettuale e societaria.
Loro non avevano mai avuto bisogno di ritrovarsi per ricostruirsi in una vita parallela, perché mai si erano persi né allontanati da quella reale, che di certo non contemplava, neppure in caso estremo, il ripudio.
Eppure le poche, isolate persone, con le quali ci capitò di rapportarci nel nostro status di coppia clandestina, ci percepivano perfetti e indivisibili, e la nostra somiglianza fisica contribuiva a supportare l’idea di una più intima somiglianza spirituale.
E lo era, oh si, lo era, senza ombra di dubbio, all’inizio così è stato: così profondamente compenetrati che niente di mio era ignoto a lui, e viceversa.
Presagivo la sua chiamata l’attimo precedente lo squillo del telefono, anticipavo la disdetta di un nostro appuntamento ancor prima che me lo comunicasse, così come preconizzavo la gioia di un suo arrivo non annunciato.
Ero talmente piena della certezza di quell’amore che non ho mai provato gelosia nei confronti di sua moglie, e mai a tal riguardo gli ho fatto una scenata, né tenuto il broncio, seppur come talvolta capitava accadesse di non poterci vedere per un motivo a lei contingente.
Lei, era la sua vita di facciata.
Io, quella vera.
Per cui, su quella sua vita di facciata, non facevo domande né pressioni: mi bastava averlo nel modo in cui lo avevo. Nel modo appassionato in cui mi desiderava. E la certezza che solo con me così potesse essere.
Follemente innamorata, respingevo la tentazione delle lacrime e quella dei rimproveri, che pure m’assalivano nei momenti di solitudine, immaginando che per lui, sposato e presto padre, fosse molto più difficile che per me gestire quella nostra storia clandestina, e ancor di più lo sarebbe stato se l’avessi condita con i miei rimbrotti.
In realtà avevo paura di perderlo, ed era questa la vera ragione dei miei “non ti preoccupare” e “non importa”: gli anestetici per le sue ansie, ma non per le mie.
VERSO L’AUTODISTRUZIONE
«Un uomo che ti costringe a vivere nell’ombra non è davvero innamorato, almeno non così tanto da desiderare di riscattare, per te, il sole.»
Mi diceva mio padre, carezzandomi i capelli e asciugandomi con la mano quelle mie lacrime che non sgorgavano, ma che lui vedeva.
Pragmatico, invece, l’avvertimento di mia madre: «non si va lontani, Isabel, se le ruote non convergono nella stessa direzione, prima o poi sarai costretta ad una sosta forzata e consapevolmente dovrai decidere se equilibrare i pneumatici e proseguire il viaggio, oppure considerare la piazzola d’emergenza, dove ti sei fermata, come il tuo approdo finale.»
Più si avvicinava il tempo del parto più diradavano i nostri incontri: inevitabile che così fosse, e il fitto scambio di messaggi serali non colmava il vuoto fisico e il senso di distanza.
Quel vuoto dove io sempre più rimpicciolivo e ingigantiva, solida e consistente, quella che fino ad allora avevo considerato la sua vita di facciata.
Così, per la prima volta dall’inizio della nostra relazione, presi ad immaginare, animandoli, quegli intimi scenari di vita famigliare che fino a quel momento m’ero costretta ad ignorare.
Fu per me devastante.
Iniziai, allora, un silenzioso pedinamento, di cui profondamente mi vergognavo come di un gesto meschino, che insozzava me prima ancora che lui.
Mi ero convinta di dovermi sporcare fin dentro l’anima se volevo uscirne purificata, attraverso l’acquisizione della realtà, da cui avrei tratto le motivazioni e la forza indispensabili per accettare la sua altra vita.
Un tentativo, questo mio, per arginare quel rancore che, nelle sue sempre più frequenti defezioni, sentivo montarmi dentro come un fiume in piena che mi avrebbe travolto.
Ci avrebbe travolti.
Ma non ci riuscii, e mi lasciai sopraffare dall’emotività.
Presi a rinfacciargli, con voce stridula e meschine insinuazioni, la sua risposta tardiva a un mio messaggio o a una mia telefonata; un suo “Isabel, non mi è davvero possibile oggi, raggiungerti” innescava, da parte mia, estenuanti interrogatori a cui all’inizio con pazienza cercava di controbattere ma che poi, raggiunto l’estremo grado di sopportazione, si limitava a chiudere la comunicazione.
I miei approcci divennero allora minacciosi, feroci, ingiuriosi.
Così non rispondeva più alle mie chiamate al cellulare né al fisso, e allora ripresi più intensamente i miei pedinamenti.
Durante uno di questi mi vide e capì ciò che stavo facendo: mai dimenticherò lo stupore, e poi il disprezzo, nel suo sguardo.
Mi vidi con i suoi occhi, sciatta e disperata, appiattita contro il riparo di un muro, mentre avida lo spiavo per alimentare il mio bisogno quotidiano di rancore: un pane che non sazia ma affama.
Fino a quel momento non m’era importato più nulla, né di me stessa, ridotta ormai ad un’ombra ostile, né del mio lavoro, di cui avevo decretato il fallimento, né dei miei genitori, che inutilmente avevano tentato di arginare, con la ragionevolezza, questa mia follia autodistruttiva.
Fino a quel momento non m’era importato più di niente e di nessuno, prima di quel suo sguardo, stupito e sprezzante, che aveva misurato, per me, la profondità dell’abisso in cui ero precipitata.
VERSO LA GUARIGIONE
Con le ultime forze residue raccolsi ciò che rimaneva di me, accingendomi ad intraprendere un percorso di guarigione tramite la psichiatrica, che mi ha incentivata, attraverso la scrittura terapeutica, a recuperare il senso di me stessa riconvertendo in parole le mie emozioni, per non farmi inghiottire dal loro peso, e ritrovare, tramite il pensiero scritto, quella chiarezza che avevo smarrito.
Aprii un blog che titolai “Isabel, scrittrice per amore”: un diario on line in cui avrei raccontato l’amore in tutte le sue sfumature, come quelle luminose della storia d’amore dei miei genitori, a quelle in penombra, come invece era stata la mia.
Pensieri che hanno trovato eco in tanti altri cuori e rispecchiato altre storie come la mia, che ciò che a noi pare esclusivo si rivela, poi, esperienza comune.
Chi ha vissuto un’intensa storia d’amore non vuole davvero cancellarla, non del tutto almeno.
Si è indotti, quasi sempre su sollecitazioni esterne, a credere di voler dimenticare, ma questo solo per proteggersi dal giudizio del mondo che facilmente rigetta le motivazioni, base e sostanza, delle storie d’amore sbagliate.
Ma esistono amori sbagliati?
No, non esistono. Era questo che mi avevano svelato i racconti nelle mail che ricevevo in grande numero, tante storie diverse ma il cui soggetto era sempre, ed esclusivamente, l’amore. Così, col consenso dei latori delle mail, ho iniziato a raccontarle per loro.
E poi questa piccola, variegata raccolta, ha destato l’interesse di un editore, trasformandole in un libro di grande successo, un vademecum, una carta planetaria dell’amore, costellata di punti di partenze e nessun punto d’arrivo.
ISABEL, SCRITTRICE PER AMORE
Se nella mia altra vita, con la mia professione di wedding planner, ho contribuito a materializzare il coronamento di tanti sogni d’amore, ora, in questa nuova, mi cimento con le morti e le rinascite, gli inferni e i paradisi, e gli inevitabili purgatori.
E tutto diventa racconto.
Quel racconto salvifico che aiuta a far luce nel nostro buio interiore.
Estirpando il male avrei anche estirpato la causa che lo aveva generato, ed era a questo che io mi opponevo. Tutta la mia disperazione, ma anche tutto il mio amore, sarebbero stati svuotati del loro solenne senso, ridimensionati nel loro valore, ridotti a semplice parentesi esistenziale: un’abiura.
Ma si può guarire senza doversi rinnegare, nella consapevolezza di se stessi, ritrovando nelle proprie certezze interiori, quell’orgoglio che ci rende liberi dal giudizio morale del mondo, sia esso di condanna o di assoluzione.
Perché la guarigione non è mai un miracolo, ma una conquista.
“Ti amo, ma la cosa non ti riguarda”.
Sarà questo il titolo della mia prossima raccolta di poesie, ovviamente dedicata a lui.
L’ultima.
…forse.