Villaggio dei Karawetheri Yanumami, Sierra Marauià, Brasile , anno 1985.

Palu-Aruya, disteso sull’amaca accanto a quella della madre, non riusciva a prendere sonno. Davvero tante erano state le emozioni del giorno precedente. Guardava fisso quell’incredibile cielo nero trapuntato di stelle mentre la luna filtrava la sua fioca luce tra i fitti rami della selva.

Era silenzio intorno ma era un silenzio pieno di presenze minacciose tenute lontane solo grazie ai numerosi fuochi accesi vicino alle amache che , famiglia per famiglia, erano disposti seguendo il perimetro ovale dello sciabono recintato da un’alta staccionata. Se ne potevano contare 21 di quelli accesi ed una decina di quelli ancora fumanti. Una scimmia urlò forte laggiù poco lontano seguita da un coro di altre stridule grida che lo ridestarono da quel poco torpore in cui stava scivolando. Si girò su di un fianco in direzione dell’amaca di suo padre che giaceva invece profondamente addormentato e stremato per tutta la frenetica attività dei giorni precedenti. Palu-Aruya era orgoglioso di lui perché era il pagé dello sciabono cioè lo sciamano del raggruppamento Karawetheri degli Yanomami della Sierra Marauià al confine col Venezuela. Non era il tuociaua cioè il capo del villaggio ma era ugualmente un uomo altamente rispettato ed indispensabile per la comunità.

Infatti ogni pomeriggio inalava l’epena cioè una potente polvere allucinogena ricavata dalle radici di alcuni alberi e cadeva quindi in una profonda trance durante la quale, cantando, muovendosi convulsamente, veniva in contatto con qualche spirito hekurà ricevendone informazioni per guarire qualcuno o prendere delle decisioni che comunque sarebbero state poi condivise con tutti.

Per i suoi 7 anni, Palu era un ragazzino ben muscoloso e pieno di ardimento da guerriero in miniatura. Alla sua età era già avvenuta la diversificazione educativa tra i due generi. Le bambine seguivano la mamma ed apprendevano come coltivare le varie verdure nella roca, raccogliere larve, insetti, frutta , macinare la manioca e preparare il beju che insieme alla pappa di banane era l’elemento centrale della loro alimentazione.

Lui, invece, in quanto maschio era libero come l’aria di seguire le proprie inclinazioni che scopriva seguendo gli adulti ed imitandoli. Aveva deciso che voleva diventare un abile cacciatore ed un coraggioso guerriero come suo padre e per questo gironzolava sempre con il suo arco pronto a colpire anche l’ombra di un nemico.

Aveva, infine, l’età in cui poteva iniziare a partecipare attivamente ai festeggiamenti del rehao che si era appunto concluso quella mattina.

Era quella del rehao una festa di fraternità in occasione della maturazione di certa frutta o quando in generale ci fosse abbondanza di cibo. Accaparrare solo per sé una grande quantità di cibo era ritenuto estremamente disdicevole e correva l’obbligo morale di condividerlo con tutti, anche con i villaggi vicini i cui abitanti erano per questo invitati a far visita e festeggiare con loro.

Dopo una riunione serale fu stabilito di invitare i Pohorobueteri, tribù sempre Yanomami, a tre giorni di cammino in direzione Venezuela.

Erano partiti due ambasciatori e l’invito era stato accettato.

Iniziarono quindi ferventi preparativi per tutti gli abitanti dello sciabono al fine di procurare scorte alimentari sufficienti: cacciagione, banane, ragni e fu scelto anche di quale defunto si dovessero consumare le ossa polverizzate nella cerimonia di commiato finale.

E così due giorni prima erano finalmente arrivati i Pohorobueteri mentre gli ospitanti in attesa si erano posizionati in cerchio attorno allo spiazzo centrale.

Dai due ingressi opposti dello sciabono, due alla volta entrarono gli ospiti ballando adornati di piume e con il corpo dipinto di rosso e di nero. Avevano rasato per bene la tradizionale tonsura sul cranio e agitavano foglie di palma. A due a due si esibirono tutti nella massima attenzione degli ospitanti secondo stili e significati diversi. Poi toccò alle donne del luogo ed infine ai loro mariti.

Fu una giornata estenuante di danze intervallata da scorpacciate di pappa di banane e beju .

La mattina del secondo giorno iniziò con combattimenti rituali che seppure non mortali erano di una certa violenza, una specie di olimpiade del coraggio, forza e resistenza. Palu osservava attento calandosi nell’uno o nell’altro contendente di cui avrebbe voluto avere la forza ed il coraggio. E si, aveva proprio deciso: sarebbe certo diventato un guerriero stimato ed ammirato.

Terminati i combattimenti, si era passati alla parte commerciale dell’incontro, ai baratti, allo scambio di informazioni . E così, mentre gli adulti confabulavano fitto, fitto i bambini dell’una e dell’altra tribù giocavano tra loro. Era stato così che Palu aveva conosciuto Bakja-Tata, suo coetaneo .

Questi gli aveva detto di essere molto felice di aver potuto partecipare a quel rehao perché qualche tempo prima la sua tribù, per organizzarne uno, aveva inviato tre ambasciatori presso il villaggio dei Pukimabueteri, a quatto giorni verso ‘dove cala il sole’ ma essi non avevano trovato più nessuno. Si erano nascosti tra la vegetazione ed da lì avevano visto alcuni uomini dalla pelle bianca e vestiti stranamente che scavavano buche profonde in terra, tagliavano alberi e spostavano la terra. Era stato tutto distrutto e dello sciabono restava quasi niente. Ma uno di questi bianchi li aveva scoperti ed aveva afferrato un grosso bastone magico che con un grande rumore aveva ucciso due dei tre. Uno solo era riuscito a tornare al villaggio sconvolto ed impaurito da quella magia. Ed ora tutti temevano che quegli uomini bianchi arrivassero pure lì, al loro villaggio. Era molto preoccupato il piccolo e la sua paura aveva profondamente contagiato Palu.

All’alba del terzo giorno, il tusciaua Paca-Tuba mandò a chiamare le donne parenti del defunto la polvere delle cui ossa andava mescolata alla pappa di banana e consumata nel triste rito del commiato.

Poi gli ospiti se ne erano andati alla spicciolata e la vita nello sciabono aveva ripreso il suo consueto ritmo.

Ma a Palu-Aruja s’era insinuata ormai nel cuore la paura. Guardava la foresta puntando con l’arco verso ogni insolito fruscio.

Ed ora , in quella notte stellata del 1985 come in molte altre che vennero poi, il sonno tardava a venire.

Quelle voci nella foresta…chissà.

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Concessione N° 217, Sierra Maraujà, Brasile, anno 2019.

Un agglomerato di baracche alla rinfusa  riempie  lo spiazzo; da uno di essi esce Josè, vistosamente ubriaco . Ha da poco sfogato i suoi istinti sul corpo di una giovane india che sta lì muta, spenta, a disposizione.

Di tutto ciò che ho qui narrato, lei non ha mai sentito parlare.

 

Foto dal web.

Spunto tratto liberamente dal libro ‘Gli ultimi Yanomami’ di Giorgio e Fabrizio Re – Point Coleur ed.

LEGENDA di alcuni termini:

tusciaua=capo tribù

sciabono=casa comunitaria recintata da alta palizzata con spiazzo interno e capanne intorno coperte da foglie di palma.

Hekurà = spirito insito in un vegetale o animale; ci sono vari hekurà amici o nemici ognuno con una sua specificità.

Roca= radura disboscata adiacente allo sciabono in cui vengono coltivati i vari vegetali; ogni paio di anni viene abbandonata e rinnovata altrove.

Beju= sorta di pizza fatta con farina di manioca.