Ricordo perfettamente la mia compagna di scuola. Era strana, fuori posto, fuori moda. Aveva un nome impossibile per un’adolescente, un macigno da portare sulle spalle. Si chiamava, cioè si chiama tutt’ora, Immacolata Severina Caccamo. Ovviamente potete immaginare quante battute scontate e fuori luogo un nome del genere possa aver suscitato in delle menti adolescenziali contorte e prive di tatto, per cui la povera Rinetta – così la chiamavo affettuosamente – diventava Orinetta / Sederina di cacca e sconcerie simili. Con un nome così parti già svantaggiato a prescindere. Io sono convinta che se fosse stata carina o appariscente sarebbe stata graziata, ma non lo era, per cui tutta la scuola la conosceva come Orinetta / Sederina Cacca-mo.
Però, a pensarci bene, non era neanche brutta, era solo invisibile. Una di quelle persone circondate da un alone di impalpabilità: sono un po’ come fantasmi… per strada non le vedi, se parlano non le ascolti, se sono in coda in ufficio postale le sorpassi, se ti seguono gli sbatti la porta in faccia per il semplice motivo che non ti accorgi che ci sono. Per descriverla in una parola era il prototipo dell’anonimato.
Se devo essere sincera di primo acchito non era simpatica neanche a me; sia perché come tutti gli adolescenti seguivo la massa e la prendevo in giro, sia perché mi aveva involontariamente diviso dalla mia migliore amica Maria Vittoria. Rinetta all’inizio della scuola era seduta vicino ad un ragazzo bruttino e un po’ anonimo, come lei. Il tizio, di cui non ricordo il nome, indossava sempre dei maglioni a dolcevita dai colori improponibili (il “migliore” era l’arancione), comprati chissà dove da una madre malata di risparmio. Un bel giorno, di punto in bianco, Rinetta chiese, anzi supplicò gli insegnanti, di allontanarla dal tizio dei dolcevita; preferiva sedersi con una ragazza perché si sentiva a disagio. Da “sfigata” quale era ovviamente venne sgridata dagli insegnanti e presa in giro dai compagni, ma poi venne accontentata e diventò la mia compagna di banco. Successivamente mi disse la verità.
In realtà mister dolcevita arancione, spinto dai due bulletti della classe che descriverò in seguito, tra una spiegazione e l’altra palpeggiava ripetutamente Rinetta, la quale trascorreva le sue ore di lezione seduta sul filo spinato come un fachiro, altalenandosi tra l’ansia delle interrogazioni e l’angoscia di quei goffi palpeggiamenti che la mettevano a disagio. Come se non bastasse i due bulli idioti facevano il tifo per quel deficiente dal dolcevita arancione, fornendogli dettagli su come e dove dovesse mettere le sue luride manacce, poiché il cretino, a quanto pare, aveva bisogno di una guida persino per approcciare l’arte più elementare ed istintiva del genere umano (cioè il sesso).
Io e Rinetta pian piano diventammo amiche, anche se questo mi creò non pochi problemi con i bulli della classe, perché cercavo sempre di difenderla. Era la persona più creativa, intelligente, dolce e fantasiosa del pianeta. Nonostante la coprissero di insulti lei non reagiva, forse non per vigliaccheria ma perché aveva la capacità di ignorarli. Completamente. Si comportava come se non esistessero. Come se non ce l’avessero con lei anche se la seguivano e le urlavano dietro. Si lasciava scivolare tutto addosso pur di lasciarsi trasportare nel suo mondo fantastico, fatto di luci e colori, sorrisi e tenerezze. Era abituata a cavarsela da sola Rinetta e aveva trovato i suoi escamotage per sopravvivere.
Vi racconto un aneddoto che vi farà conprendere quanto fosse ricca d’animo e fantasiosa.
Ogni giorno, quando uscivamo da scuola, facevamo un pezzo di strada insieme sino alla fermata dell’autobus. Tutti gli studenti si affollavano affamati al chioschetto dell’angolo per comprare la merenda, ma lei no. Non aveva abbastanza soldi.
Senza perdersi d’animo, tirava fuori dalla tasca dello zaino un pacchettino di crackers che inevitabilmente tutti i santi giorni erano sbriciolati e ridotti in polvere. Nella sua fantasia quell’ammasso poltiglioso che ad un qualunque altro essere umano sarebbe apparso pressoché immangiabile, appariva come un piatto prelibato. Con la calma serafica che la contraddistingueva, chiudendo gli occhi, assaporava la sua poltiglia, che ogni giorno assumeva un gusto diverso: un giorno si trasformava, come per incanto, in un buon risotto ai quattro formaggi, un’altro in cannelloni spinaci e ricotta, il giorno successivo in polpo alla Luciana. Ovviamente aveva l’accortezza di descrivermi con dovizia di particolari colori, odori e sapori, mentre io, senza ritegno, mi sbellicavo dalle risate.
Nella sua povertà Rinetta era ricca di amore, di fantasia, di semplicità, di gioia. Nonostante il fatto che tutti la prendessero in giro distribuiva compiti di matematica (materia in cui era un fenomeno) come fossero caramelle. Aiutava tutti… sempre e comunque.
Io sapevo tutto di lei, e per comodità di esposizione preferisco dividere gli avvenimenti cruciali della sua vita in quattro capitoli ben distinti.
continua…