Ultima di otto figli di una famiglia gerarchica, retrograda, maschilista, patriarcale, per qualche strana ragione sin da piccola si era sentita sempre inadeguata, come una nota stonata in una sinfonia, una catapecchia in un quartiere residenziale. Era abituata a non far rumore, a stare in punta di piedi, invisibile, sola.
Suo padre, quando la guardava le diceva che era nata per errore ed era figlia di Ogino. La poverina ha capito solo da grandicella chi diavolo fosse questo “Gino”. Per tanti anni infatti aveva creduto di essere stata adottata o di essere il frutto di una scappatella col macellaio. Un giorno Rocco, suo adorato fratello maggiore, finalmente le svelò l’arcano e le rivelò la vera identità di questo Gino: non si trattava del macellaio ma bensì del famigerato Ogino Knaus, ideatore dell’omonimo fallimentare metodo anticoncezionale di cui, a quanto pare, lei era il prodotto. Quando Rinetta aveva tredici anni suo padre morì improvvisamente, senza un lamento, un gemito o un sussulto, ma soprattutto senza aver avuto l’opportunità di dirle se col tempo avesse imparato ad amarla o se la considerava ancora uno sbaglio.

Sua madre era una donna d’altri tempi, maschio-dipendente, un po’ mediocre, senza sogni o ambizioni. Non era cattiva, aveva solo individuato le priorità sbagliate. Aveva due uniche preoccupazioni: l’opinione degli altri e la pulizia della casa. Non si era mai curata di preparare i suoi figli alla vita, non badava mai alle loro emozioni, se fossero tristi o felici. Era una donna piena di assurde paure che aveva cercato di trasmettere alle figlie femmine perché convinta che le donne non hanno altra scelta se non quella di condurre una vita un po’ goffa, basata sull’accudimento della casa, dei figli, del marito. Nella sua esistenza la pulizia della casa aveva la priorità su tutto. Sempre stressata puliva, spolverava, lavava, sbuffando in continuazione come una pentola a pressione fuori controllo. La casa di Rinetta era un rifiorire di buste di plastica che aleggiavano nella come stupidi fantasmi sui vestiti, sui mobili, sul televisore, sul divano. Quando gli otto figli, chi prima chi dopo, chi per una ragione chi per un’altra, avevano definitivamente lasciato casa, la mamma di Rinetta si era ammalata di Alzheimer. Era morta così, sola, circondata dai fantasmi di plastica che nel suo immaginario distorto avevano preso forma e vigore. Mi chiedo se nella sua vita così metodica e troppo ordinata fosse mai stata felice, se abbia mai fatto qualcosa di divertente, se si sia mai lasciata andare all’euforia di una sia pur piccola trasgressione o al gioioso abbandono di un orgasmo.

Continua …