Come ogni pomeriggio, tempo permettendo, Angelino sedeva sulla panchina della piazza, all’ombra di un nodoso ulivo.
Mani callose e tosse roca di mille sigarette.
Ragazzini si riconcorrevano per le scalinate, donne con le buste della spesa vociavano ridacchiando tra di loro.
Lui sedeva lì assente, per niente incuriosito dai suoi amici che dal tavolino del bar urlavano invettive giocando a briscola.
Stringeva con la destra il suo inseparabile bastone, con la sinistra si massaggiava il ginocchio spigoloso e dolorante.
Le rughe scure del viso raccontavano di tante primavere andate.
Con occhi stretti e acquosi seguiva il passaggio di una schiera di formiche.
Laboriose, infaticabili creaturine trasportavano il corpo esanime di uno scarafaggio; chissà quanto lontano.
Anche sua moglie era partita, un anno fa, per il cielo; i suoi figli per la città.
Angelino lì da solo cercava di dare un senso a tutto questo.
Confuso, deluso, un po’ impaurito, sapeva che sarebbe partito presto anche lui, senza aver capito il perché.