Era il 1920 o giù di lì.

Peppina Chivalà era cresciuta a lavoro e chiesa in una umile casa incastonata tra le colline.

Se ne stava spesso da sola con la sua fatica mentre i pensieri andavano alle piante, al sole, al ruscello, a qualche pettegolezzo raccolto nei rari momenti di socialità.

Svolgeva lavori umili sebbene fosse proprietaria di un altro terreno locato a mezzadria che le aveva lasciato una madrina.

I genitori le avevano vietato di sposarsi perché claudicante, ‘merce di scarto’ ma il motivo vero era che così le proprietà di famiglia sarebbero rimaste indivise.

Eppure il suo cuore impazziva, le batteva forte quando incrociava lo sguardo di Ntunì.

Ntunì…un fascio di muscoli asciugati dal sole che immaginava odorassero di menta e d’erba appena tagliata. Ah, se solo l’avesse sfiorata con quelle mani forti!

Ma Ntunì capì.

Capì cosa ci fosse dietro quell’abbassare gli occhi, farsi rossa ed un giorno, a sorpresa, la raggiunse tra le alte piante di granturco.

“ Ciao Peppinella, tra queste foglie sei ancora più bella” . Lei sobbalzò e rossa in viso prese ad aggiustarsi i capelli poi rispose “Ntunì…” Ma lui la guardò dritto negli occhi, si fece vicino, tanto vicino da ubriacarla di menta e d’erba.

E lei non si ritrasse.

La proprietà restò indivisa.

A Peppina veniva spesso una gran voglia di andare a lavorare.