Il vento da sud soffiava rabbioso. Il mare era grigio, lucente come acciaio e le navi che uscivano dal porto sembravano neri fantasmi che si addentravano tra la schiuma delle onde con tranquilla sicurezza.
I grossi rimorchiatori beccheggiavano quando rientravano dopo aver compiuto il loro lavoro e si erano liberati del peso che avevano trascinato. I potenti motori spingevano le imbarcazioni con arrogante violenza e le prue si alzavano verso il cielo.

«Ballano, eh?» disse Leo.
Aveva parlato a se stesso. Il ragazzo di colore che era seduto vicino a lui sulla spiaggia non gli aveva mai rivolto la parola e si limitava a guardarlo pescare.
«Adesso facciamo un bel lancio» continuò, dopo aver ben assicurato il grosso verme sull’amo e controllato che il piombo filante scorresse con facilità lungo la lenza, dalla girella a cui era collegata la barbetta sottile più in su lungo il filo.
«Attento, dietro!» avvertì, e con la coda dell’occhio vide che il ragazzo si era spostato un poco più in là. “Dunque mi capisce”, pensò, mentre bilanciava alcune volte la pesante canna da surfcasting e faceva oscillare il piombo da cinquanta grammi in maniera che la frustata partisse senza strappi.
L’uomo ripetè il movimento tre o quattro volte, poi caricò maggiormente la canna e lanciò con forza verso il largo, seguendo la traiettoria che portava l’esca un centinaio di metri più in là nel mare, oltre il raggio della risacca.
«Ora che è passata la mareggiata è il momento buono per prendere qualcosa di grosso.» disse «Quando il mare è così si dice che è in scaduta: le onde hanno smosso il fondale e portato via molto materiale di cui orate e dentici sono ghiotti, così si avvicinano a riva per mangiare facilmente».

Il ragazzo continuava a tacere. Leo alzò le spalle e recuperò un po’ di lenza, fino a metterla in leggera tensione, poi posò la canna su uno dei supporti che aveva piantato nella spiaggia di ciotoli e rimase un attimo ad osservare il cimino che si stagliava sul cielo cupo.
«Adesso non ci resta che aspettare» disse ancora, sedendosi sullo sgabellino pieghevole. Il ragazzo continuava a guardare un po’ lui e un po’ il mare, mettendolo a disagio. Leo si voltò e vide in cima alla spiaggia una serie di baracche di cartone e lamiera addossate ai grossi massi che la dividevano dal piazzale adiacente e che davano rifugio a un gruppo di disperati che tornavano lì soprattutto per dormire. Ma c’erano anche alcune donne, e dei bambini.
«Tu abiti lì?» chiese Leo, indicando le baracche?
Il ragazzo seguì il suo sguardo, poi ritorno a rivolgersi verso di lui e alzò le spalle.
«Parli italiano? Capisci la mia lingua?» chiese spazientito.
«Un po’».
Leo inarcò le sopracciglia, sorpreso.
«Allora non sei muto!» disse, pentendosi subito dopo della battuta.

Entrambi fissarono il mare, che gli gettava impetuoso in faccia un’aria carica di sale e di umidità. Poi Leo guardò con più attenzione il ragazzo e vide che indossava un giubbotto di nylon, poco più pesante di un K-way e un paio di pantaloni di tela chiari, e fece il confronto con il suo pesante giaccone impermeabile e i suo caldi jeans invernali.
Ebbe un attimo di sgomento, non sapeva cosa dire e non voleva restare in silenzio.
«Senegal?» finì per chiedere, e si sentì ridicolo. «Come ti chiami?».
«Justin» rispose il ragazzo, e poi: «No Senegal, Namibia».
«Namibia…» Leo cercò di fare mente locale, non sapeva nemmeno dove fosse. In Africa, certo, ma…
«Beh, è lì vicino, no?»
«No».
Lo guardò con espressione interrogativa.
«Namibià vicina a South Africa» disse il ragazzo, e per la prima volta un accenno di riso gli illuminò il volto.
«Vabbé, almeno sono riuscito a farti ridere!» si consolò Leo «E’ tanto che vivi qui?».
Justin si voltò verso le baracche.
«No» rispose, e sembrò contare sulle dita «tre settimane».
«Non è poco per un posto di merda come quello. Come sei arrivato qui?».
«Attraversato Africa, poi mare» rispose il ragazzo, alzando le spalle.
«Ma se è vicino al Sudafrica il tuo paese non deve essere tanto povero!».
«Pochi lavorano in miniera. Gli altri disoccupati, fame. A Oshakati no lavoro».
«Neanche qui c’è tanto lavoro» osservò Leo.
«No lavoro per neri».
Leo stava per rispondere, quando vide che l’attenzione del ragazzo si era rivolta alla canna, che oscillava violentemente.
Si alzò in piedi di scatto, la prese nelle mani e mise delicatamente in tiro la lenza per sentire cosa succedeva all’estremità e dare la ferrata. Per alcuni istanti rimase immobile, in attesa di una conferma che non venne. Imprecando fece per posare l’attrezzo, quando un violento strattone gli fece quasi perdere l’equilibrio e rischiò di farlo cadere in mare.
Sentì due braccia che lo sorreggevano e recuperò la posizione.
Il pesce si era ferrato da solo con la tirata che aveva dato, e adesso la lenza correva verso il largo. Il rumore della frizione del mulinello che Leo aveva allentato sembrava l’unico suono dell’intera spiaggia e gli altri pescatori si erano voltati a vedere cosa stava succedendo. Il grosso mulinello conteneva almeno trecento metri di lenza, e fuori ce ne potevano essere non più di un centinaio, quindi il margine era più che sufficiente per una pesca da costa.
Leo si piantò saldamente sulle gambe e cominciò a stringere la frizione per stancare maggiormente il pesce, stando attento ad assecondarne gli strappi per evitare che il terminale, più sottile, potesse rompersi. Adesso Justin era in piedi vicino a lui, emozionato come se fosse lui a pescare. Dopo alcuni minuti il pesce smise di tirare e la lenza riimase in bando.
«Perso?» chiese il ragazzo, non nascondendo la sua delusione.
«No, non credo» rispose Leo «si sta solo riposando. Ma se recupero adesso rischio di essere in tiro quando quello riparte, e allora potrebbe rompere. Aspettiamo». E si sedette nuovamente sullo sgabello, la canna in mano, attento. Justin lo imitò, sulla spiaggia umida.
«Anche tu pescavi, al tuo paese?» chiese dopo un po’.
Justin ci mise un attimo per capire la domanda.
«No, no» rise «Oshakati non sul mare! Però « continuò poi «pescato in lago Oponono».
Leo scosse la testa, senza mai perdere di vista la punta della canna.
«Mai sentito nominare!».
«Poi pescato in mare, in Libia» disse fra sé il ragazzo.
«Sei stato in uno di quei campi profughi?»
«Sì, ma poco, avevo soldi» tacque per un attimo.
«Combattuto per bantu» spiegò poi «loro pagato, poi guerra finita e sono andato via».
L’aveva detto con tranquillità e Leo non poté fare a meno di pensare a quelle mani magre che stringevano un mitra. Quanto poteva avere? Vent’anni? Forse neanche.

In quel momento il pesce riprese a tirare e la lotta continuò. Adesso faceva rapide puntate verso il largo, poi tornava indietro a cercare sollievo dall’amo che gli dilaniava la bocca e Leo ne approfittava per recuperare lenza e farlo avvicinare sempre di più. Finalmente la lotta si spostò vicino alla riva, proprio in tempo per evitare che l’oscurità scendesse a rendere tutto più difficile perché Leo non era attrezzato per la pesca notturna. Adesso veniva il momento critico, perché il mare era ancora in burrasca e le onde lunghe si frangevano lontano da riva. Se il pesce si fosse trovato fuori dall’acqua anche per un istante il suo peso poteva rompere tutto e rendere vana tutta la battaglia. Non c’erano alternative: doveva riuscire a portarlo allo sfinimento e poi farlo scivolare lentamente sul filo della risacca, sperando che non avesse un guizzo improvviso, altrimenti…
Il momento buono doveva deciderlo lui e non poteva permettersi di aspettare troppo. Tirò il fiato e quando vide che un’onda sembrava accompagnare la preda verso riva cercò di recuperare più in fretta, ma il pesce ebbe un momento di disperata reazione e dovette precipitosamente ridare lenza bestemmiando.
La tirata fu di breve durata perché il pesce era ormai esausto. Leo riuscì a farlo ritornare sul bordo della risacca e si apprestò a fare un altro tentativo, quando con la coda dell’occhio vide una figura che stava correndo verso l’onda. Era Justin, che si era spogliato e nudo come un verme si era gettato in mare.
«Justin! Cosa cazzo fai? Attento!».
Le onde non erano altissime, poco più di due metri, ma molto lunghe: potevano portare un uomo al largo in pochi istanti se non sapeva come prenderle, ma il ragazzo si stava dimostrando abile e passava attraverso le creste senza farsi ghermire.
D’improvviso Leo si rese conto di cosa significasse il suo gesticolare. Alzò la punta della canne al cielo in maniera che si vedesse bene dove la lenza si infilava in mare e cercò di recuperare piano. Justin finalmente riuscì ad individuare dove era il pesce e si tuffò. Dopo un istante riemerse. Il pesce era di fianco a lui e lo teneva saldamente con una mano infilata nelle branchie. Con l’altra mano nuotava verso riva. Leo posò la canna ormai inutile, si tolse scarpe e giaccone e si infilò in acqua avanzando finché non riuscì a dare la mano al ragazzo, in un punto in cui l’acqua nell’intervallo tra le onde gli arrivava alla vita.
«Via! Presto!» gli urlò, trascinandolo quasi verso la spiaggia.
Arrivarono all’asciutto e si lasciarono cadere esausti sulle pietre. Justin teneva sempre la mano infilata nelle branchie del pesce. Con uno sforzo lo sollevò e lo buttò un paio di metri più in alto.

«Dio mio, sarà dieci chili!» disse Leo, sconvolto dalle sue dimensioni.
«Sette?» disse Justin.
Gli altri pescatori intanto avevano raccolto le loro cose e si erano fatti intorno e commentavano la pescata con ammirazione. Leo era esausto e cominciava a sentire freddo. Justin si era rivestito e osservava l’orata.

  • Pian piano i pescatori se ne andarono, lasciandoli soli. L’oscurità era quasi scesa sul mare, e nelle baracche si erano accese alcune lampade a petrolio. Delle persone avevano osservato da lontano tutto quel trambusto.
    Leo fece un sospiro, trovò la forza per alzarsi e cominciò a raccogliere l’attrezzatura. Come ebbe messo tutto nei due borsoni, fece per prendere il pesce.
    Justin continuava a restare seduto lì vicino.
    Il pescatore si cacciò una mano nella tasca, ne estrasse il portafoglio e tirò fuori alcune banconote, porgendole al ragazzo. Questi sollevò il capo.
    «Grazie» disse senza allungare la mano «io non mendicante».
    Leo rimase senza parole. Si rimise il portafoglio in tasca, accennò a chinarsi per raccogliere l’orata, poi si fermò.
    «Senti» disse, rivolto al ragazzo «tu mi hai aiutato a tirare su il pesce. Io sono vecchio, vuoi aiutarmi ancora?»
    Quello lo guardò senza capire.
    «Dammi una mano a portare a casa il pesce» disse «ho un grosso frigo e mia moglie lo cucinerà domani. Stasera ci mangiamo una zuppa calda e una bistecca e tu ti fai una doccia e dormi nella stanza degli ospiti, ti va?».
    «Poi» continuò «lunedì ti porto in cantiere dove lavoro io e vedrai che un posto te lo troviamo».
    E senza aspettare la risposta si avviò verso il passaggio che dalla spiaggia portava al piazzale dove erano posteggiate le macchine. Alcuni alti pastorali spargevano una fredda luce arancione.
    Justin guardò l’uomo che si era allontanato lasciando il pesce ai suoi piedi, lo raccolse e si affrettò dietro di lui.