Era una notte buia e tempestosa.
Lo so, ho rubato questa frase da Paul Clifford di Bulwer-Lytton, ma ditemi voi se qualcuno l’ha letto o lo conosce se non per le citazioni di Snoopy.
«Logico» dirà qualcuno «i gatti non sanno mica leggere!» e io per l’appunto sono un gatto, ma questo non significa che io sia ignorante, infatti, secondo voi, chi sta scrivendo queste righe?
Ma lasciamo stare le polemiche e veniamo alla mia storia.
Tutto è cominciato veramente in una notte terribile, quando da poco ero venuto al mondo. Pioveva fortissimo da giorni e l’albero cavo dove mia mamma ci aveva nascosti era circondato da un vero fiume di acqua e di fango che saliva sempre di più.
Non posso veramente dire che ero spaventato: stavo al caldo e succhiavo il latte insieme ai mio fratelli, ma quando l’acqua ha cominciato ad allagare il nostro rifugio è scoppiato il finimondo.
Mia madre ha preso per la collottola uno di noi e l’ha portato sopra una montagnola d’erba poco distante, poi è tornata a prenderne un altro, ma proprio quando stava andando via è scivolata nel fango ed è scomparsa a valle. Io mi sono affacciato all’orlo del nostro rifugio, ed è stato questo a salvarmi, perché l’albero, ormai fradicio, è crollato sotto la spinta del fango e sono stato sbalzato fuori, mentre gli altri due miei fratelli sono rimasti all’interno e posso immaginare la fine che hanno fatto.
La stessa fine avrei dovuto farla io, immagino, anche se all’aria aperta e non chiuso in una tomba senza speranza, e non so davvero cosa sia successo, perché sono stato sbattuto in mille modi per un tempo che mi sembrava infinito. Vorrei poter dire che sono svenuto, ma no, avevo semplicemente perso l’orientamento e la nozione del tempo, così mi sono ritrovato senza fiato su di un costone di terra smossa, cieco.
Con la forza della disperazione seguii il mio istinto che mi diceva di andare verso l’alto, e strisciai sulla pancia per quei pochi metri che furono la mia salvezza.
Non so quanto tempo rimasi lì, sotto la pioggia che non riusciva a levarmi il sangue di dosso, ma ad un certo momento avvertii che l’acqua diminuiva di intensità, fino a smettere del tutto.
Il bosco era intriso di umidità. Le gocce cadevano dagli alberi continuamente e ogni fruscio del vento provocava piccole cascate. Lentamente sentii ritornare un poco di forza e mi resi conto di tremare di freddo. Un occhio mi si era parzialmente riaperto, ma nella notte che stava calando non vedevo quasi niente.
Fu un odore, un profumo di cibo ad attirarmi. Nonostante le mie condizioni disperate, la fame si faceva sentire e zoppicando e strisciando uscii dal bosco, attraversai il prato e raggiunsi la casa.
Una luce usciva dalla porta aperta e da lì veniva l’odore.
Dovete capire che io non avevo nessuna conoscenza degli umani prima di allora, così rimasi lì, terrorizzato ma senza sapere cosa fare, attirato irresistibilmente da quel profumo che per il mio istinto – ora lo capisco – era la vita stessa.
Alla fine vidi che la porta si stava lentamente chiudendo e presi la mia decisione. Balzai in avanti e mi precipitai dentro più velocemente che potevo.
L’umana che stava sulla porta lanciò un grido, che per me risuonò come un boato. Come scoprii dopo, vedendo un esserino completamente coperto di fango che schizzava dentro mi aveva preso per un topo e si era spaventata, ma io lo lo ero ancora di più e cercai il punto più buio della casa per nascondermi.
Lì ripresi fiato e coraggio, vidi una superficie che mi sembrava morbida poco più in alto e vi saltai sopra, rannicchiandomi più che potevo.
La luce si accese nella camera da letto, paralizzandomi dal terrore. La donna mi vide, capì che non ero un topo ma soltanto un gattino ferito e mi prese tra le sue mani, che erano più grandi di me.
Mi portò in un’altra stanza dove sentivo dell’acqua scorrere e cominciò a pulirmi, levandomi il fango di dosso. Uno dei mie occhi pendeva fuori dall’orbita, e lei me lo stacco delicatamente, l’altro me lo pulì come poteva e mandò l’altro umano a prendere dei medicinali per curarlo. Una volta lavato mi asciugò con un panno e mi scaldò contro il suo corpo, poi mi mise in bocca un qualcosa da cui usciva del latte tiepido e sentii finalmente il calore irrompere dentro di me.
Ogni medaglia ha il suo rovescio: quella donna mi salvò la vita – e il mio unico occhio restante! – ma perdetti la libertà, o meglio, la persi per la maggior parte dell’anno, perché come venne l’autunno mi portò con sé in una angusta casa di città, dove il cielo potevo vederlo soltanto dal piccolo spazio di un poggiolo.. Però avevo da mangiare tutti i giorni, e un posto caldo davanti alla stufa, quindi non mi lamentai più di tanto, anche perché far buon viso a cattivo gioco è sempre stata una delle mie virtù.
D’altra parte quando veniva la bella stagione ritornavamo tutti in campagna, e allora potevo correre per i boschi per conto mio o insieme a lei, che diceva di essere la mia padrona (ma quante cose stupide dicono gli umani?) quando andava per funghi. La prova? In vita mia non ho mai cercato un fungo, ma ho fatto strage di piccoli animali, ero il terrore di quel bosco!
Un brutto giorno, quando gironzolavo in compagnia di un’amica (più di un’amica, non mi avevano ancora – ehm – operato) ci siamo imbattuti nella volpe, ed è stato lì che ho consumato più di una delle mie sette vite. Quel mostro ci ha attaccati di sorpresa e in un solo momento ha sgozzato la mia compagna. Io non potevo fare niente, era grossa tre volte me, e sono fuggito, ma prima che riuscissi a distanziarla mi ha azzannato alla pancia. Mi sono trascinato come potevo fino alla casa, dove la volpe non ha avuto il coraggio di seguirmi, e sono crollato davanti alla porta. La donna mi ha trovato in un lago di sangue, e mi ha subito portato dal dottore degli animali, che ha provato a curarmi ma ha scosso la testa:
«Non credo che questo gatto possa sopravvivere, signora» ha detto, e lei si è messa a piangere.
Se dicessi che mi sono messo a piangere anche io racconterei una bugia (e i gatti non raccontano mai bugie, solo mezze verità), e poi ero troppo occupato a cercare di sopravvivere, ma non rimasi indifferente a quella dimostrazione d’affetto.
A casa mi curarono a lungo, con iniezioni, bende e altre cose, ma il morso della volpe era infetto, come aveva detto il dottore, e la febbre non mi passava, così un giorno, approfittando di un momento di confusione (è incredibile quanta confusione riescano a fare gli umani!) sono fuggito nel bosco: se dovevo morire, mi sono detto, volevo farlo come sono nato, sotto le stelle.
Non sono morto. Forse l’aria del bosco, forse le erbe che ho mangiato, forse una settimana di digiuno, alla fine la febbre è passata e sono ritornato a casa, acciaccato ma vivo.
Non starò a raccontare tutte le piccole vicende della mia vita: sono anziano, ogni tanto sbando un po’ e credo di aver consumato quasi tutte le mie vite. Me ne andrò sereno tra non molto, se mi sarà possibile ancora nel bosco, altrimenti dove capiterà: sono abbastanza anziano da non avere preferenze e non ho le ansie degli umani, non pretendo l’impossibile, mi basta aver vissuto il mio tempo ed essere ricordato da tutti così, come il gatto che non voleva morire