«Ehi, nonno! Ti sei addormentato?».

Mi voltai di scatto verso il ragazzotto impertinente che mi aveva apostrofato, fulminandolo con lo sguardo. L’insegnante che accompagnava la scolaresca era distante, impegnata a spiegare ai ragazzi come funzionava una casa di riposo, anzi, il Centro Assistenziale per la Terza Età, come era pomposamente chiamata, così non si avvide di cosa stava succedendo.
«Se riuscissi a dormire lo farei volentieri» risposi, cogliendolo di sorpresa «ma è dalla tua età che il sonno non mi è più amico».
Vidi che rimaneva interdetto. Ci pensò un attimo su – non sembrava molto sveglio, ora che non era il momento di fare battute stupide – poi azzardò:
«Cosa vuoi dire?».
Beccato.
«Ricordi…» dissi, con l’aria trasognata.
«Ricordi di che cosa?».
Presi tempo. Poi aprii uno dei lembi della vestaglia e ne tirai fuori una scatolina di metallo, di quella che una volta si usavano per contenere le pastiglie. Gliela feci vedere, poi la trassi indietro e l’aprii.
«Cosa c’é?» mi chiese, incuriosito.
Notai che anche altri ragazzi si stavano avvicinando, bene.
Senza più parlare ne tirai fuori un pezzo di tela rossa, consunta dagli anni, accuratamente piegata.
«Lo vedi questo fazzoletto?» dissi.
Lui accennò di sì con la testa.
«Questo fazzoletto ha una storia, anzi, si potrebbe dire che è, la Storia» dissi, porgendoglielo.
Lui lo prese con delicatezza. Di colpo aveva perso tutta la sua giovanile baldanza. Lo spiegò e vide che c’erano scritte delle parole.
«Cosa sono?» chiese.
«Leggi. Sono nomi: “Ramon”, “Severino”, “Pantera”, “Cucciolo”…».
Lui lesse con attenzione.
«Sembrano nomi di animali…» disse..
«Sono nomi di partigiani, compagni partigiani della mia brigata, caduti poco prima della Liberazione. Ne avrai sentito parlare, spero».
Alcuni dei compagni che si erano avvicinati, assentirono, Si era formato un piccolo capannello, anche alcune ragazze.
Non lo credevo nemmeno per scherzo, che sapessero di cosa stavo parlando, ma non volevano mostrarsi ignoranti, non a quella età.
«È tuo?» mi chiese.
Sospirai.
«No, questo appartiene a un comandante leggendario, che lo donò a una donna, compagna di un altro comandante a cui poi lei lo affidò, Marzo, si chiamava. Da lui poi è arrivato fino a me».
Notai che adesso era arrivata anche l’insegnante con il resto della classe. Avevo un pubblico.
«Chi sono queste persone?» chiese un altro ragazzo.
Poteva avere 12 anni, la stessa età che…
«Ero un ragazzino, nel 1945, più o meno dei tuoi anni, e facevo la staffetta presso la Divisione Cichero, che combatteva sui monti di Genova e di Chiavari» dissi, senza rispondere alla sua domanda, «una divisione partigiana, una delle più importanti. Sai cosa facevano le staffette?».
Nessuno rispose, neanche l’insegnante.
«Noi, le staffette, voglio dire, mantenevamo i collegamenti tra le varie formazioni partigiane e portavamo ordini, medicinali, viveri, anche armi. Non eravamo solo ragazzini, c’erano anche molte donne, ma loro lavoravano perlopiù nelle città perché davano meno nell’occhio, mentre noi eravamo più agili a scarpinare per i monti».
«Quindi voi non combattevate?».
«Lo facevamo anche noi, quando c’erano fucili a disposizione, cosa che non accadeva spesso, ma non ti credere che corressimo meno rischi: semplicemente capitava che anche i nazisti a volte esitassero prima di sparare ad un bambino».
«Ma quel fazzoletto…» insistette il primo ragazzino.
«Ci stavo arrivando, Ero seduto ad un bivacco la prima volta che lo vidi».
Trassi un lungo respiro, questa volta autentico: riandavo con la memoria a quegli anni disperati e terribili, che solo l’incoscienza e la vitalità della giovinezza avevano potuto far sembrare esaltanti.
«Avevo portato una sacca con delle carte al Comandante, dopo una corsa per i monti di dodici ore. Lui le aveva esaminate e poi messe da parte. Io mi avvicinai al fuoco per riscaldarmi, così ero nei pressi quando vidi arrivare un ragazzo trafelato».

«Comandante, comandante Bisagno!» esclamò.
Il comandante si voltò immediatamente verso di lui.
«Cosa è successo?» chiese.
«La brigata di Santin…».
«Quella di Chiavari?».
«Sì, proprio loro, hanno avuto uno scontro a fuoco con i repubblichini… ci sono state delle vittime».
Bisagno si alzò in piedi, furente. Nonostante all’epoca avesse 24 anni la sua figura ispirava soggezione a tutti.
«Come è potuto succedere? Un’imboscata?».
Il ragazzo sembrava confuso.
«Non so, non credo… Da quello che mi hanno raccontato, Santin e gli altri stavano scendendo per colpire un obiettivo, quando si sono trovati davanti una banda di fascisti che saliva per il monte, appoggiata da sotto dai tedeschi».
«Maledizione! Ma possibile che nessuno fosse in avanscoperta?».
«Non era mai successo che i repubblichini pattugliassero la montagna» si giustificò il ragazzo.
Bisagno stritolò tra le dita il pezzo di carta che stava leggendo.
«Adesso l’avranno imparato nel peggiore dei modi!» esclamò, cupo. Poi si rese conto dell’espressione stralunata dell’altro.
«Lo so che non è colpa tua» disse, quasi per consolarlo «ci sono state molte perdite?».
«Due morti e un ferito».
«Grave?».
«No, per fortuna, è stato colpito ad un braccio ma la pallottola è uscita».
«Ce la fate da soli?» chiese Marzo, l’altro comandante che era lì vicino
«Sì, ci arrangiamo».
«Chi sono i caduti?» chiese Bisagno.
Un velo passò sugli occhi del ragazzo.
«Primula e Rosso» disse, abbassando il capo.
Bisagno tirò fuori dal taschino il fazzoletto rosso, lo spiegò sulla tavola e ci scrisse sopra i nomi.
«Hai fatto il tuo dovere» disse, rivolto al messaggero «adesso riposati e mangia qualcosa».
Il ragazzo si rialzò, fiero.
«Grazie, ma voglio essere di ritorno il prima possibile: il ferito è mio fratello».
Bisagno gli diede una pacca sulla spalla.
«Vai, allora, e grazie».

Come il ragazzo ebbe ripreso la strada fra i boschi, il Comandante aprì il fazzoletto e lo guardò contro il cielo chiaro della sera. Gli altri uomini si erano allontanati, ognuno con le proprie occupazioni e i propri pensieri. In guerra non puoi soffermarti a pensare ad ogni lutto, altrimenti diventi pazzo. Ma lui lo faceva, e forse anche per questo lui era Bisagno e io soltanto Mino.
Lo guardavo affascinato, senza riuscire a distogliere lo sguardo da lui e da quel fazzoletto, così finì per accorgersene. Me lo mostrò da vicino.
«Vedi, Mino» mi disse «su questa stoffa ci sono i nomi dei compagni che hanno sacrificato la loro vita per la libertà in questo ultimo anno. Uomini, donne, anche bambini, fucilati, torturati, caduti in combattimento».
Io ero rimasto senza parole.
«E sai perché annoto tutto questo?» continuò.
Feci segno di no. Non lo sapevo.
«Perché la memoria è importante, Mino: la memoria è tutto quello che ci impedisce di fare gli stessi errori. Perché quando questa guerra sarà finita e vinta – e io so che vinceremo perché, ricordalo bene, il popolo in armi vince sempre – noi e i nostri figli, nipoti e chi verrà dopo di loro non dovrà mai dimenticare questo orrore e dovrà essere pronto a combattere ogni volta che il serpente cercherà di rialzare la testa. Schiacciarla senza pietà, perché una esitazione può essere fatale, ce lo insegna la Storia».
Ero rimasto impietrito di fronte a questa lezione, fatta dall’uomo che consideravo il mio eroe. Lui dovette rendersene conto perché mi scompigliò i capelli e sorrise.
«Il sonno della ragione genera mostri» disse «un giorno ti farò vedere questo quadro di un famoso pittore spagnolo».

Mi guardai intorno dopo questo mia lunga rievocazione, e con sorpresa vidi che c’erano più di dieci paia d’occhi intorno a me.
«Non ci fu tempo» continuai «io ridiscesi a valle e Bisagno dopo qualche tempo trovò la morte in un assurdo incidente capitato nei pressi del Lago di Garda… almeno, dicono che sia andata così, io non c’ero».
Spiegai nuovamente il fazzoletto perché lo vedessero bene tutti:
«Questo cimelio, che è arrivato a me attraverso tante mani, è la cosa più preziosa che possiedo. Lo guardavo e lo guardo quando i fatti della vita e della politica sono confusi e vengono fuori coloro che dicono che bisogna essere tolleranti con tutti, che bisogna perdonare, che il passato è passato e non ritorna…».
Presi una pausa e guardai uno ad uno negli occhi i miei ascoltatori:
«No, ragazzi, non lasciatevi ingannare: il passato è dietro l’angolo, sotto mille facce diverse. Non credete ai falsi profeti, agli imbonitori, ai venditori di sogni, ma abbiate fiducia soltanto in chi vi sta vicino, nel vostro compagno, in chi divide con voi il pane e la fatica. Perchè il sonno della ragione genera mostri, diceva Goya, e questo, la memoria, è l’unico antidoto».
Conclusi sventolando il fazzoletto e riponendolo con cura nella sua scatola. I ragazzi si allontanarono, un po’ esitanti, scossi. L’insegnante, una signora alta con gli occhiali dall’aria severa mi si avvicinò e strinse le mie mani rugose tra le sue morbide e lisce.
«Grazie» mi sussurrò.
Intravidi una lacrima balenare agli angoli dei suoi occhi.