Entrai.
Era una stanza più lunga che larga, completamente tappezzata di libri che poggiavano su assi grezze  attaccate alle pareti.
Le assi partivano appena sopra il livello del pavimento, salendo verso il soffitto.
Gli unici varchi liberi erano la finestra e la porta.
Niente altro che libri posti in orizzontale e in verticale, in obliquo, pressati ed accatastati in bizzarre geometrie di volumi e accostamenti di colore.
Esaurito lo spazio verso l’alto, alcuni grossi tomi giacevano sul pavimento, sotto le assi più basse, quelle a livello di suolo.
– Nelle condizioni d’affitto troverà la clausola che questa stanza non può essere modificata. Liberamente può, invece, disporre del resto della casa –
– E’ una collezione fantastica –
– Lieto che la pensi così. Abbiamo difficoltà ad affittare l’appartamento proprio a causa di questa collezione. Per la maggior parte delle persone è uno spreco di spazio e un ricettacolo di polvere, anche se questa camera rimane piuttosto appartata –
– A chi appartengono tutti questi libri?-
– A mio padre. Era un collezionista, non troppo esigente e alquanto fuori dagli schemi. Qui può trovare edizioni molto vecchie e altre molto dozzinali, ma tutte senza valore di mercato. Non ci sono rarità. Tutti questi libri hanno la particolarità di essere appartenuti a persone decedute. Mio padre leggeva i necrologi e si offriva di acquistare i libri del defunto qualora sussisteva la necessità di disfarsene. La loro particolarità è nell’essere appartenuti a persone morte –
– Perché solo di persone morte? –
– Gliel’ho detto che era un collezionista fuori degli schemi. Ogni libro è stato da lui personalmente visionato e medicato, ed infine, collocato fra gli innumerevoli altri. Qui tutto può apparire disposto secondo la casualità, ma in realtà vige una sua personalissima metodica di collocazione. Dei defunti, a mio padre, non gli interessavano solo i libri ma anche le loro vite: interessi, passioni, idiosincrasie. Tutto questo per creare poi sugli scaffali una giusta armonia finalizzata a favorire rapporti di buon vicinato. Questa stanza per lui, convintamente ateo, era un luogo sacro. Qui si entrava in silenzio e vi si sostava con rispetto. Ci passavamo interi pomeriggi. Era davvero coinvolgente il racconto di quelle vite reali che s’intrecciavano con storie assolutamente fantastiche da lui inventate per spiegarci la metodica del suo ordine.
Come quella del partigiano Attilio Rossetti e della signorina Mafalda Ferrante.

MAFALDA E ATTILIO
“Il rosso” (questo il nome di battaglia di Attilio Rossetti) era a capo di una brigata partigiana, quando una notte i fascisti fecero irruzione nell’accampamento e li ammazzarono tutti. Un tradimento di sicuro. Nessuno di loro aveva avuto il tempo di difendersi. Nessuno di loro l’aveva scampata.  “Il rosso” era morto  a 43 anni senza aver realizzato nessuno dei suoi sogni: quello della liberazione dal nazi fascismo e quello di visitare l’Africa. L’Africa di Hemingway, però, quella de “Le nevi del Kilimangiaro”. Ci teneva a precisarlo, restringendo ulteriormente il campo all’incipit che lo aveva stregato:
“vicino alla vetta occidentale c’è la carcassa rinsecchita e congelata di un leopardo. Nessuno ha saputo spiegare cosa cercasse il leopardo a quell’altitudine”
Lui avrebbe scalato il Kilimangiaro e dato risposta a quell’interrogativo. Appena finita la guerra sarebbe partito. Quella sarebbe stata la sua missione di pace.
Mafalda Ferrante era morta a 41 anni colpita dal morbo di Addison, una malattia rara per la quale nel 1817, anno della sua morte, non esisteva diagnosi né cura. Mafalda coltivava velleità di scrittrice e sogni d’indipendenza in un’epoca in cui le donne erano, in tutti i settori societari, subordinate agli uomini. Non s’era mai voluta sposare, anche se le era capitato d’innamorarsi. però mai così follemente da rischiare la sua libertà. Cosi aveva fatto sua la frase del poeta tedesco Friedrich  Holderlin “ti amo, ma la cosa non ti riguarda” e su questa aveva basato la sua filosofia esistenziale e la trama dei suoi racconti, dove le protagoniste erano giovani donne intellettualmente emancipate che anelavano
all’affermazione personale da realizzarsi senza la fede nuziale e senza la protezione di un uomo.
Poter vivere della propria penna: era a questo a cui Mafalda aspirava. Un sogno difficilissimo da realizzare per le donne della sua epoca, ancor di più per quelle come lei nate nel sud del mondo.
I suoi racconti, una raccolta di quaderni dalla copertina rosa tea e mai pubblicati, avevano infine trovato in mio padre, lettore attento e sensibile, una platea simbolica e corrispondente.
Attilio e Mafalda, anime ribelli e di gran temperamento, vissuti a distanza di un secolo mai si sarebbero incontrati, neppure in quello stesso Paradiso, straordinariamente vasto e sovraffollato, dove ad entrambi era stato concesso diritto d’asilo.
Ma quell’incontro s’era alla fine realizzato sullo spazio ristretto di quello scaffale. Un incontro, a raccontarla vera, non facile, che all’inizio pur c’era stata tra di loro una qualche incompatibilità determinata da un eccesso di orgoglio da parte di lei e da un certo pregiudizio da parte di lui.
Non era stato il classico colpo di fulmine a farli innamorare ma quella gragnuola di scaramucce che pure aveva messo in evidenza le loro affinità prima ancora che le loro diversità. Avversari leali e poi amanti appassionati.
Ma per loro, concludeva mio padre, niente matrimonio!

 Storie tristi, divertenti, bizzarre. Incredibili, ma tutte profondamente umane. Da mio padre, amorevolmente interconnesse tra loro. Che se in vita si è costretti alla guerra nella morte si riscopra finalmente la pace, amava ripetermi. E come non dargli ragione? La sua missione era quella di favorire tra i defunti rapporti di buon vicinato. Rasserenare la loro memoria e quietare i loro ricordi per  ristabilire l’equilibrio emotivo, che non è solo faccenda dei vivi il cercare la pace. Come era stato per Edvige Levantini e Franco Serra. Mi aveva detto indicandomi uno scaffale dove diversi spartiti musicali poggiavano su due grossi tomi di medicina chirurgica e una copia, piuttosto vissuta, di “Viaggio al termine della notte” di Celine “.

EDVIGE E FRANCO
Edvige, nata nel 1919, era una giovane, promettente soprano. Bellissima, colta e raffinata, aveva sposato, contro il volere della famiglia, un oscuro violinista, quello che oggi potremmo definire un musicista di strada, di quelli che suonano all’angolo di una via o all’ingresso della metropolitana. Violinista scadente ma convincente affabulatore. L’aveva prima stregata e poi manipolata. Lei perdutamente innamorata anelava per lui un successo più grande del suo, che stentava ad arrivare. S’era allora prodigata per fargli avere un contratto nell’orchestra del teatro dove si sarebbe dovuta esibire, ottenendo solo gentili ma decisi rifiuti, dovuti all’inesistente talento di lui, che pure mal digeriva la popolarità crescente della moglie, che perfino il cinema la richiedeva.

Lei aveva cercato di farlo partecipe del suo successo, offrendogli il ruolo di manager, che lui sdegnosamente aveva però rifiutato. Proposta generosa ma ingenua, quella di Edvige, che un egocentrico, per di più esasperato e al contempo umiliato dal successo prorompente della moglie, mai avrebbe accettato l’oltraggio del dietro le quinte. Così, per stupida ripicca, s’era industriato a renderle la vita difficile, ostacolarla con miseri espedienti o in maniera plateale. Fino a quando lei stremata  aveva minacciato di lasciarlo. Lui allora l’aveva uccisa tagliandole la gola. Edvige aveva solo 32 quando aveva smesso per sempre di cantare.
Franco, invece, nato nel 1976, era stato medico chirurgo di un piccolo ospedale di provincia e cooperante di Emergency, e proprio durante una missione umanitaria a Kabul aveva perso la vita a 39 anni, scivolando su una mina anti uomo. Aveva amato la vita con la stessa intensità con cui aveva odiato la morte, e quell’ostinazione quasi eroica nel contrastarla che rasentava il fanatismo.
Era questa sua peculiarità che s’imponeva, come una virtù distorta, su tutti gli altri suoi pregi, cosicché di lui si ricavava l’impressione malevola di un fondamentalista o quella appena un pò più benigna di un sognatore depresso. Opinioni stabilite dall’umore, dalla cultura e dall’ideologia di chi lo stava giudicando. Ma lui se ne era sempre disinteressato di come il mondo affrettatamente lo aveva  etichettato, pur essendo consapevole che questo giudizio di primo impatto creava una distanza. Distanza che Franco quasi mai si curava di colmare, non per indifferenza ma per la necessità di preservare le proprie energie per confronti ben più ardui, come quello quotidiano con la  morte.  Questo suo atteggiamento era preso come scostante, tipico di chi si sente superiore al resto del mondo. Un comportamento, questo, non conforme con la sua missione. Ma questa distanza spariva negli ospedali da campo dove si operava con mezzi di fortuna, tra il fumo degli spari e quello delle macerie. Là ci si aggrappava gli uni agli altri, quelli col bisturi in mano e quelli stesi sulla lettiga. Ci si ritrovava. Ci si riconosceva.
Non c’erano fraintendimenti.

Edvige e Franco, al margine di quello scaffale, s’erano trovati e riconosciuti. Lei con la sua cicatrice evidente sulla gola e quella più profonda nascosta nel cuore. Lui naufrago in un deserto di fumo e di detriti, e con addosso l’odore della morte. Lo stesso che pure emanava da lei, solo più dolce, più mansueto. Un odore addomesticato, che anche la morte è permeabile alla bellezza e, in qualche modo la preserva. S’erano riconosciuti all’odore prima ancora che alla vista. E poi al tatto, che quando la cicatrice profonda di Edvige aveva cominciato a sanguinare le dita sensibili di Franco l’avevano tamponata e poi sanata.
Lei aveva ritrovato la sua voce e lui la ragione delle sue scelte.
S’erano innamorati in silenzio, senza mai pronunciare la parole amore.

Eppoi c’è Maya, l’ultima arrivata, quella alla quale mio padre era più devoto. Mi aveva detto guidandomi verso l’unica finestra sul cui ripiano poggiava un diario scolastico dalla copertina dai colori fluorescenti che rifrangevano la luce in spicchi d’arcobaleno. Accanto, in un allegro disordine,  tutta la serie  de “I racconti del Vampiro”, un grande numero di romanzi dark, “Cime tempestose”della Bronte  e “Grandi speranze”di Dickens.

MAYA
Letteratura classica e contemporanea e un diario di scuola, questa la brevissima biografia di Maya, il cui cuore inspiegabilmente aveva smesso di battere a soli 17 anni. Sindrome di Brugada, che con la morte, pure quando dispone di un nome mai ci si famigliarizza, anche se riconosco che questo suo è un tentativo che merita rispetto, aveva detto la mamma di Maya la prima volta che aveva visto la stanza e disposto sul davanzale della finestra il fagottino dei libri appartenuti a sua figlia. Qui c’è una bella luce, adatta per leggere, aveva poi aggiunto. E prima di andar via aveva chiesto, cosa racconterà di Maya? Diciassette anni non bastano neppure alla stesura di un racconto breve. Non è la lunghezza del capitolo a stabilire l’importanza del racconto, le aveva risposto mio padre. E così lei era tornata a raccontare di Maya, attraverso i caratteri minuscoli dell’infanzia e quelli macro dell’adolescenza. Allungava il racconto con dovizia di particolari e sfumature, per ritardare lo spazio bianco dell’ultimo capitolo. Non erano inopportune confidenze quelle intime rivelazioni sulla vita di Maya che lei andava facendo a mio padre, ma le raccomandazioni di una madre in procinto di affidare la propria figlia a qualcun altro, con l’elenco dettagliato delle cose che a lei piacciono, quelle di cui ha assolutamente bisogno, ed anche quelle sui cui è sacrosanto non dargliela vinta. E’ tornata ancora qualche altra volta per completare il racconto con quelle minuzie che andava via via ricordando, ma che per lei erano straordinariamente importanti perché riguardavano Maya, e se avesse potuto ricordare avrebbe raccontato ogni minuto di quei suoi diciassette anni, e mio padre ne avrebbe religiosamente preso nota. E lei lo aveva capito. Sapeva che di lui poteva fidarsi, che l’avrebbe amata e protetta. Sapeva che Maya in quella stanza era al sicuro. L’ultima volta che è venuta è rimasta tutto il tempo in silenzio. Prima di andar via ha stretto la mano a mio padre e lo ha ringraziato.
Non è più tornata.

– Racconti affascinanti. Storie incredibili. Meravigliose. Suo padre avrebbe dovuto scrivere un libro perché il mondo dovrebbe sapere dell’esistenza di questa stanza.  Ed ora è lei a curare la collezione?-
– Io, anche se presumo che con la mia morte tutto questo finirà in un macero. Ho provato a coinvolgere mia figlia, ma non è interessata. Colpa mia, forse non sono un buon narratore –
– E se raccontasse a me le storie dei defunti?  Potremmo registrarle. –
– Niente meccanica, diceva mio padre, le storie vanno tramandate oralmente, meglio ancora vis a vis, perché i morti per tornare a vivere hanno necessità di uno sguardo e di una voce. Un nastro di registrazione li renderebbe anonimi, irrevocabilmente morti –
– Un modo c’è per non disperdere questo prezioso patrimonio e farlo conoscere al mondo rimanendo fedeli alle regole stabilite da suo padre: ha mai sentito parlare di YouTube?