Claudio Baglioni ha scritto per Gabriele Muccino una bella canzone e, come Carmen Consoli e Jovanotti prima di lui, l’ha chiamata come il film di cui è colonna sonora (in realtà la sentiamo solo sui titoli di coda e nel trailer): Gli anni più belli. Come spesso succede ad artisti di una certa età, Baglioni scambia la quantità con l’intensità, e seppellisce di archi e chitarre una canzone che avrebbe funzionato benissimo solo piano e voce. Il cinema di Muccino è – da sempre – basato sullo stesso identico fraintendimento: c’è sempre una sorta di sovraccarico (di regia, di toni, di svolte narrative) che invece di dare sostanza al film, di fatto lo impoverisce.
E’ come avere sempre la manopola del volume al massimo.
Gli anni più belli non fa eccezione.
Non so se chiamarlo omaggio, remake o aggiornamento, ma Gli anni più belli ricalca in gran parte la trama di C’eravamo tanto amati di Ettore Scola, riprendendone gli snodi principali della trama, le caratteristiche dei personaggi, alcune scene e alcune tecniche narrative come la rottura del quarto schermo (soprattutto nella prima parte). Per quante cose Muccino sia riuscito a trapiantare dal capolavoro di Scola, il risultato è una copia molto sbiadita.
Innanzitutto, manca completamente la visione sociale e politica della società. I tre protagonisti di C’eravamo tanto amati sono divenuti amici durante la Resistenza e la loro vicenda umana si intreccia profondamente con quella politica italiana del dopoguerra. Ai personaggi di Muccino questa dimensione manca totalmente, per cui i rimandi alle vicende storiche sono una cornice temporale e niente di più. Non è un caso se i tre ragazzi fanno amicizia proprio fuggendo dagli scontri di un corteo politico, come a distaccarsi dalla politica, già da giovani. Non smettono mai di brindare, per trent’anni, “alle cose che ci fanno stare bene”, segno di una generazione fortemente individualista e poco attenta alle sorti della collettività. Non è una critica al film: Muccino ha ben chiara in mente la questione dell’eredità spirituale della sua generazione e di quanto sia differente da quelle precedenti, ma la risolve in una chiacchierata a tavola (altro omaggio a Scola) e forse non a caso il finale è molto più conciliante – e meno soddisfacente – di quello del film a cui si ispira. Il problema è che si fatica molto di più a sentire un reale coinvolgimento, o a percepire un’urgenza artistica, una visione di qualche sorta che trasformi il film in qualcosa di universalmente valido.
La vera pecca del film è però che la trama ha dei passaggi anche molto importanti che sembrano avere senso solo all’interno di un montaggio cinematografico esasperato come quello di Muccino, risultando altrimenti inspiegabili. Non sempre basta alzare il volume della colonna sonora o sbattere in faccia le emozioni attraverso le urla dei personaggi, per renderle autentiche. Nessun personaggio sembra mai pienamente nel possesso delle proprie facoltà mentali, anche perché ci si aspetta da un momento all’altro la “muccinata” (che puntualmente arriva): il litigio dentro casa, le urla, le reazioni smodate. Invece di essere partecipi del dramma, si finisce piuttosto per sorridere rassicurati: anche stavolta, il litigio c’è, l’urlo c’è, l’isteria c’è.
Il marchio di fabbrica dei film di Muccino è la recitazione sopra le righe. E’ incredibile come qualunque attore, da Favino in giù, riesca però a dare il peggio di sè davanti alla macchina da presa del regista romano. Se Favino e Santamaria in qualche modo se la cavano, Micaela Ramazzotti ha quasi bisogno dei sottotitoli per quanto poco si capisce cosa dice, mentre Kim Rossi Stuart non riesce mai ad esprimersi sui suoi soliti livelli di intensità. E’ quasi imbarazzante paragonare le interpretazioni dei tre protagonisti con le loro stesse prove – e la loro chimica – in Romanzo Criminale. Evito per decenza di parlare di Emma Marrone. Possibile che non ci fosse in tutta Italia un’attrice vera a cui affidare una parte così importante? E un po’ di umiltà e rifiutare di prestarsi a cose fuori dalla propria portata?
Il cinema di Muccino non si evolve nello stile e nei temi dai tempi de L’ultimo bacio: invecchia il regista, invecchiano i personaggi, ma siamo sempre là, prendere o lasciare. C’è molto di peggio in giro, sia chiaro, ma è difficile capacitarsi del modo in cui ogni volta a Muccino il totale riesca sempre inferiore della somma degli addendi: grande padronanza registica, colonna sonora di grande spessore (Piovani e Baglioni!), attori di primo piano, produzione importante e il risultato è che questi elementi invece di sommarsi, si sottraggono e si danneggiano a vicenda.
In tempi senza memoria, spero che a qualcuno venga voglia di andare a (ri)vedere C’eravamo tanto amati, dopo (o invece di) aver visto Gli anni più belli e ben venga un omaggio a questo capolavoro, in fondo ne sono contento.
E’ probabilmente irripetibile una generazione di artisti (non solo attori) capace di raccontare con grazia e lucidità un’epoca affascinante e difficile della storia italiana, spesso addirittura in forma di commedia. A discolpa del cinema di oggi, si può dire che tra le miserie della seconda repubblica c’è davvero poco che si presti a essere raccontato e che la distanza tra politica, storia e paese reale è aumentata così tanto che provare una sintesi universale in forma di racconto è davvero impresa ardua. Sembrano però essere venuta meno anche l’urgenza e la capacità di farlo e non è un problema solo di Muccino. Non si è rinnovata l’industria cinematografica italiana, così ottimi attori come Pierfrancesco Favino hanno pochissime opportunità di mettersi in luce e praticamente nessuna di essere in film che restino per sempre nella memoria collettiva. Se il meglio che riusciamo a fare è Gli anni più belli, che di originale ha solo una canzone sovraprodotta di Baglioni, temo che gli anni più belli, almeno per il nostro cinema, siano davvero finiti.