Girotondo

I bambini cantavano mentre tracciavano il cerchio del loro girotondo, la mattina, alle 10, come ciascuna mattinata trascorsa all’asilo.
Nell’ampio salone le loro voci si diffondevano senza stonature, acute come sempre quelle dei bimbi, ma prive di stridori o toni troppo elevati.
Cantavano una canzone che era sempre la stessa, cosicché ciascuno di loro aveva potuto impararla bene e sapeva intonarla con destrezza, nonostante la giovane età.
Giravano lenti, in tondo, tenendosi per mano, i bambini più grandi attenti ad adeguarsi ai ritmi dei più piccoli, accompagnandone il passo non tanto per generosità innata, quanto per la speranza di ricevere il premio, come loro promesso, un premio che li avrebbe resi prestigiosi agli occhi dei coetanei: avrebbero potuto interpretare la pantomima della fiaba di cui cantavano la canzone e avrebbero potuto sfoggiare per un giorno i costumi e gli oggetti di scena, tra cui il fucile, il più ambito.
Era la Madre Superiora ad assegnare i ruoli, osservava il loro comportamento e, al momento opportuno, con un cenno indicava ora all’uno, ora all’altro, di avvicinarsi a lei, sussurrava loro qualcosa all’orecchio, con delicatezza, invitandoli a seguirla dietro al paravento. Nell’attesa, il cerchio si ricomponeva immediatamente per compensare l’allontanamento dei prescelti, restando fermo e muto, come un organo in un tempo sospeso per una manciata di minuti.
Poi, a turno, i compagni che si erano allontanati tornavano al cerchio, indossando ciascuno il proprio costume, la nonna con la cuffietta da notte, gli occhiali e la seggiola con la coperta, a simulare il letto; Cappuccetto rosso, avvolta nella mantellina di velluto vermiglio con il cappuccio e il cestino in mano; il lupo, con la testa dal pelo ispido e spettinato, grigio screziato di nero, la bocca perennemente spalancata e la lingua rosso sangue che fuoriusciva famelica; infine l’eroe, il cacciatore, con un gilet nero, un cappello di feltro verde militare a falde larghe, il fucile a scatto dal manico di legno e la canna in metallo lucido sormontata da una piccola sfera trattenuta da un elastico collegato al grilletto.
Al loro rientro il cerchio riprendeva a girare riempiendo la stanza del canto finale, mentre ad uno ad uno i personaggi si collocavano nel mezzo inscenando il loro ruolo. Mancava la madre tra i personaggi, è vero che pure compariva nella fiaba, ma era una madre malata, scialba e insignificante, forse persino un po’ sprovveduta agli occhi di Madre Superiora, che aveva preferito escluderla dai ruoli da far interpretare, provando probabilmente verso questa donnetta una mal celata insofferenza e un’antipatia istintiva.
“L’importante è trasmettere il messaggio” sosteneva “impartire il divieto, ossia non fermarsi a parlare con nessuno nel bosco, avere consapevolezza del pericolo in agguato in ogni angolo, saper reagire e opporsi con la forza contro qualsiasi ostacolo”. E tutto questo poteva essere appreso attraverso la narrazione senza bisogno di una mamma senza nome che esplicitasse le proprie raccomandazioni.
Anche la suora sembrava non avere un nome preciso, tant’è che veniva chiamata semplicemente così, Madre Superiora; d’altra parte, seppure avesse avuto un nome in passato, nessuno ormai se lo sarebbe ricordato, dato che tutti si rivolgevano a lei chiamandola con sussiego “Madre Superiora”. Questo era l’unico nome che conoscevano i bambini, questo era l’unico nome che adoperavano le consorelle, questo era il nome con cui lei stessa gradiva di essere appellata.

Mentre i bambini cantavano, Madre Superiora si sedeva in un angolo della stanza che restava sempre in penombra, da cui poteva osservare ciascuno sfilare nel cerchio. Vedeva con soddisfazione che i bambini si adattavano docilmente alle regole impartite: cantavano quando dovevano cantare, si fermavano quando dovevano fermarsi, restavano in fiducioso silenzio quand’era il momento opportuno. E i motivi del loro comportamento obbediente erano vari, lo sapeva: o erano ancora troppo piccoli per agire di propria iniziativa, o erano intimoriti di infrangere le regole, oppure semplicemente disinteressati alle stesse e ai possibili cambiamenti, o, al contrario, desiderosi di rispettarle pedissequamente pur di essere premiati. Solo pochi speravano di non entrare all’interno del cerchio, per timidezza o per timore del giudizio altrui, che talvolta si esprimeva celatamente al termine del gioco, con qualche punzecchiatura nascosta, un pizzicotto, o semplicemente un’occhiata denigratoria lanciata con circospezione quando le suore erano distratte.
L’occhio vigile di Madre Superiora, che non si smarriva neppure in quei momenti, pareva invece accondiscendere a quegli ingenui tentativi di rivalsa o a quegli innocenti soprusi. Così girava il mondo!
Ciò che non poteva tollerare, invece, era la testardaggine di quella bambina, da poche settimane inserita nel gruppo, che si ostinava a non cantare. Si chiamava Chiara e di certo conosceva la canzone intonata dai suoi compagni. Le era stato fornito il testo, anche se ancora lei, di appena quattro anni, non sapeva leggere, ma le parole potevano venirle suggerite dalla sorella di due anni maggiore, che stava imparando a decifrare lettere e frasi, oppure in famiglia dalla mamma o dal papà, quando le bambine rientravano a casa.
Madre Superiora aveva calcolato che nell’arco di tre, sei giorni al massimo tutti i bambini imparavano le canzoni proposte all’asilo. Chiara no, restava muta.
Pochi giorni addietro, Madre Superiora aveva convocato la mamma della bambina per accertarsi sulle capacità di questa e le era stato garantito che a casa Chiara intonava il canto insieme alla sorella o persino da sola. Entrambe, perciò, non riuscivano a capire come mai all’asilo lei non cantasse.
Dall’angolo oscuro Madre Superiora quel giorno seguì i movimenti di Chiara, la vide avvicinarsi al tavolo di lavoro, afferrare un foglio e spargervi dei colori. Pareva essere affascinata dai pigmenti che ancora non sapeva distinguere con il loro nome, ma le cui sfumature provocavano in lei sensazioni ed emozioni diversificate. Il blu cobalto la conduceva negli abissi di tranquillità e silenzio, il rosso carminio nel fuoco delle passioni, il giallo nella gioia aperta fino ai celesti del cielo, ai verdi smeraldi e cristallini delle acque, ai viola del mistero di fiori esotici e agli ocra di terre assolate e deserte. Tracciava dei segni con le matite colorate, componeva figure sui fogli, dipingeva con le dita. Questo era il mondo in cui si perdeva, archetipi di immagini colorate che le assorbivano l’animo.
Emergendo dal suo mare di emozioni, istintivamente Chiara si voltò per aver sentito un alito sul collo: era Madre Superiora che le si era avvicinata quasi a indagare tra i suoi disegni, a cercarne la chiave di lettura, la fenditura dove trovare un appiglio. Scrutò negli occhi la bambina, poi con uno scatto le sottrasse colori e fogli “Per oggi basta” le sussurrò “riavrai altri fogli e colori domani, ma solo se canterai insieme agli altri compagni”. Chiara abbandonò le sue mani in grembo, chiudendo appena le dita ancora sporche di colore, non pianse, non protestò, rimase seduta immobile, sigillata nel suo mutismo.
L’indomani, al richiamo di Madre Superiora tutti i bambini si strinsero a formare un cerchio cadenzando il passo al ritmo della canzone. Chiara era tra loro, quasi danzava, mano nella mano in mezzo ai compagni, ma le sue labbra restavano serrate. Si ripeté la pantomima, altri bambini raggiunsero il centro del cerchio orgogliosi di indossare i costumi finché il canto non si spense, il cerchio non si scompose.
Chiara raggiunse il suo tavolo, afferrò un foglio ma prontamente una suora glielo sottrasse. Attese che si allontanasse, poi sfilò dalla risma un altro foglio, ma anche questo le fu tolto da un’altra suora, che le ricordò gli accordi impartiti da Madre Superiora.
Chiara si allontanò dal tavolo, si sedette su un’altra sedia, delusa, e cercò nell’angolo oscuro gli occhi di Madre Superiora. Appena socchiuse, le pupille scure e luccicanti della Madre incrociarono in un lampo quelle di Chiara, le mani di questa costrette all’inattività, chiuse a pugno, quasi le formicolavano, le mani di quella, agili, continuavano meccanicamente a sgranare il rosario in grembo.
Nei giorni seguenti, si ripeterono le stesse condizioni e le medesime regole per Chiara. Seduta su un seggiolino, lontana dal tavolo dei colori, chiuse gli occhi, forse per sognare, o per isolarsi da quell’aula per lei densa di proibizioni. Era immersa nelle immagini della sua mente, quando sentì il fruscio della veste di Madre Superiora scorrerle accanto. “Questa settimana distribuiamo il gelato, ma tu non potrai averlo se non intoni la canzone che sai.” Si accorse che il suo sguardo era severo, il tono minatorio. Madre Superiora cominciava a spazientirsi per quella bambina che le si opponeva, rompendo l’armonia del gruppo che lei perseguiva regolarmente. Bisognava educare quei bambini, non potevano crescere come dei selvaggi, dovevano uniformarsi ai dettami di formazione del gruppo che doveva agire come un sol corpo, come un’orchestra che segue attentamente la bacchetta del suo direttore. Chiara, invece, era la negazione di tale conformità, perciò il suo animo andava forgiato, la sua volontà ostinata sciolta nell’obbedienza.
La privazione del gelato si protrasse per sei giorni, durante i quali Chiara non protestò, continuò a non rivolgere la parola a quella suora di cui non conosceva il nome, ma verso la quale iniziava a nutrire un sentimento per lei sconosciuto, come un grumo che le premeva il petto.
Anche nell’ultima giornata di punizione Chiara decise di mantenere ferreamente le sue posizioni: marciava decisa nel girotondo, ma non cantava. Pure quel giorno si replicò la scena del lupo che, entrato nel cerchio con un balzo, la lingua rossa di sangue, si aggirò famelico in mezzo al gruppo. Lo raggiunse prontamente il cacciatore, che si pose proprio al centro, puntò il suo fucile, mirò e colpì la bestia. L’eroe ancora una volta trionfava, simulando l’uccisione per una giusta causa. Tutti i bambini applaudirono, Chiara no, lei in fondo sentiva simpatia per quell’animale selvatico e malconcio, ne provava pietà e avrebbe voluto salvare sia lui che Cappuccetto Rosso in qualche maniera. I due potevano ascoltare le ragioni dell’uno e dell’altra, scendendo a patti, scegliendo di distinguere i loro percorsi. Cappuccetto, in fondo, avrebbe potuto imboccare un’altra strada, il lupo imparare a nutrirsi di tuberi ed erbe, o accettare le accortezze di Cappuccetto, che avrebbe accarezzato il suo ispido pelo fino a renderlo lucido e morbido come la seta… Le possibilità, insomma, erano infinite…
Alla fine, i bambini vennero invitati a sedersi in cerchio per poter distribuire il gelato. Tutti ebbero la loro porzione, ma quando toccò il turno di Chiara, venne platealmente annunciato che lei non l’avrebbe avuta, per punizione. Nient’altro. Doveva comunque rimanere nel cerchio e aspettare che gli altri consumassero la loro merenda.
Chiara si fece piccola, sentì le tempie bruciare e un altro sentimento infiammarle la gola. Una volta cresciuta, avrebbe capito che quel sentimento era il disprezzo generato dalla vergogna, era il rancore che le saliva dalle viscere pronto a trasformarsi in odio. Che aveva fatto lei per meritare tutto questo? Perché inculcarle quei sentimenti ignoti che ora le ribollivano in cuore, le scorrevano dentro infiammandole le vene? Non riusciva più a fermarli, si sentiva un nuovo essere, non era più la Chiara dei colori.
Ancora seduta nel cerchio, la bambina volse lo sguardo in direzione dell’angolo buio, cercò la sagoma e gli occhi di Madre Superiora, ripensò alla scena del lupo e del cacciatore: questa volta, avrebbe voluto essere lei il cacciatore per imbracciare il fucile e puntarlo contro la Superiora. Immaginò la scena, assaporò il gusto di premere il grilletto e far schioccare la sfera di metallo espulsa dall’elastico fino alla fronte della Superiora, proprio tra le due pupille di ossidiana, per spegnere quello sguardo diabolico una volta per sempre. Si sentiva l’eroe della fiaba adesso, l’angelo sterminatore, colei che uccideva per una giusta causa. Sì, l’avrebbe fatto un giorno. E avrebbe gustato la vendetta.
E l’odio le invase il petto, il suo sapore le avvolse la lingua e il palato, la sua potenza le inondò lo sguardo… Il suo sguardo, che tradiva i suoi sentimenti, il suo sguardo carico d’odio incrociò quello di Madre Superiora, la quale lo interpretò perfettamente e lo restituì alla bambina con un ghigno di soddisfazione: la piccola aveva imparato, ora era conforme agli altri del gruppo. La vera Legge trionfava: homo homini lupus. Questo aveva imparato abitando il mondo ed ora sapeva, oh, sì, con pieno appagamento lo comprendeva, che la guerra era finalmente entrata anche nelle viscere della piccola Chiara. Non era più la bambina capace di immergersi nella poesia della bellezza, nell’immediatezza delle relazioni tra gli esseri, nelle invisibili corrispondenze della vita.
Madre Superiora ne aveva forgiato i sentimenti, ne aveva conquistato l’anima.
Homo homini lupus, ripeté tra sé, con un ghigno. Questo valeva per sempre. Odio. Guerra. Vendetta.
Madre Superiora aveva vinto.
Dall’angolo, l’ombra parve animarsi, farsi viva, ingigantirsi e scorrere lungo le mura. Avanzava lentamente ma inesorabile, senza più ostacoli e qualcuno ebbe l’oscura sensazione che fagocitasse l’intero ambiente.