Umori
Angie Rose lottò contro la tentazione di scendere nel cortiletto per dare un supporto ad Apache, ma in quello lui era stato irremovibile: «Non avertela a male ma mi saresti d’intralcio.» Così si limitò a vigilare dietro i vetri della finestra con i sensi tesi a captare i rumori esterni, pronta ad accorrere in suo aiuto se il caso lo avesse richiesto.
Prima di salire al suo appartamento s’era comunque sincerata del perdurare dell’assenza di Olimpia Collins, immaginando che sarebbe rimasta a vegliare il marito in ospedale. Ipotesi confermata da Helen Bennet: «Sono stata tutto questo tempo con la porta socchiusa per sentirla rientrare e avere notizie di Bob, ma evidentemente ha deciso di restare con lui al Queens Hospital. Le avevo lasciato in serbo anche una porzione di arrosto per la cena…posso offrirla a te, cara? Non sono brava con l’arrosto ma questa volta mi è venuto davvero buono.»
«Grazie, signora Bennet, ma ho già cenato.» Rispose avviandosi alle scale..
«Hai paura che ti avveleni?» Chiese, offesa, Helen Bennet, dalla tromba delle scale.
Quella domanda strappò una risata ad Angie Rose e un guaito ad Hamlet.
Aveva trascorso la notte insonne, poi al mattino la telefonata di Apache la tranquillizzò: «Tutto ok, piccola.» Niente altro Ma avrebbe saputo i particolari la sera stessa, perché raccontarli al telefono sarebbe stato imprudente.
Le dispiaceva che al suo ritorno, Olimpia Collins trovasse violato il suo appartamento, ma era stato necessario per evitarle mali peggiori. Ad ogni modo immaginava che questa disavventura avrebbe posto la vecchia signora al centro dell’attenzione, una volta tanto per un motivo diverso da quello del volume troppo alto della sua radio. E questo, ad Olimpia, non sarebbe dispiaciuto. Ma forse, soppesando attentamente i pro e i contro, non ne avrebbe fatto parola con nessuno. Ed era quello che Angie Rose s’augurava.
Confortata dalla notizia che tutto fosse filato nel verso giusto, si predispose, come d’abitudine, seppure in forte anticipo sull’orario consueto, alla consueta passeggiata mattutina al parco con Hamlet. Non aveva dormito quella notte, ma il cielo terso, che preannunciava una giornata finalmente primaverile, la confortò predisponendola all’ottimismo. Il supporto di una tazza di caffè forte e nero, rinforzato con un’abbondante dose di zucchero, contribuì a cancellare ogni residuo di stanchezza e di ansia.
Rise, quando traendo dal ripostiglio il sacchetto blu contenente guanti, paletta e bustina, il necessaire per le escursioni al parco, Hamlet, al colmo dell’eccitazione, iniziò con la coda a spazzare l’aria e saltarle addosso, per quell’uscita fuori orario.
Al secondo piano, davanti la porta di Olimpia Collins, Angie Rose rallentò l’andatura di Hamlet tirando con dolcezza il collare, e sostò in ascolto sull’uscio. Dall’interno non proveniva alcun rumore, ma dalla porta accanto le parve di percepire lo sguardo assonnato di Helen Bennet, osservarla dallo spioncino.
Ad ogni modo, fino a quel momento, nessuno dei condomini s’era accorto dell’intrusione notturna di Apache nell’appartamento di Olimpia.
Uscita dal portone gettò uno sguardo verso il cortiletto, luogo d’azione di Apache, per vedere se fossero rimaste tracce del suo passaggio, ma non ne scorse. Aveva fatto uno splendido lavoro, anche se può sembrare cinico definire “uno splendido lavoro” il furto nell’appartamento di un’anziana signora.
Apache s’era dimostrato all’altezza delle sue passate imprese di stunt man, ma che fosse anche un affascinante complice, questo lo aveva scoperto nelle ore trascorse assieme. Si chiese se si stesse innamorando di lui. Lo aveva apprezzato, all’interno della famiglia allargata del “Gina Colombo’s Restaurant” per la sua forza, la sua sagacia e la sua generosità. Ed anche perché era l’unico che riusciva ad imporsi a Gina, con quel suo modo paziente, saggio ed ironico, davanti al quale le furie appassionate di lei si stemperavano in ruvida arrendevolezza che lui accoglieva con cavalleresca, amorevole gratitudine. Sempre un passo dietro di lei, ma in realtà era lui che la guidava. Angie Rose sapeva che in passato avevano avuto una relazione, ma non conosceva i motivi per cui fosse finita. E se davvero fosse mai finita, perché nel loro modo di guardarsi, di sfiorarsi, di parlarsi, trapelava un’emozione luminosa che sapeva di sentimento.
Si stava innamorando di lui? Continuò ad interrogarsi sulla strada del parco in quell’azzurro mattino di primavera, felicemente confusa e senza sentirsi in colpa nei confronti di Gina. Non le doveva spiegazioni: quello che lei provava per Apache, era solo suo. Non ne avrebbe parlato neppure con lui, ma non avrebbe finto con sé stessa, (le finzioni erano appannaggio dell’attrice non della donna) rinnegando e respingendo quell’emozione come una cosa di cui vergognarsi. Piuttosto, quell’onestà verso sé stessa l’avrebbe messa al riparo dagli inganni psicologici, in cui altrimenti sarebbe incorsa, stabilendo da subito che era solo lei ad essere innamorata: questo l’avrebbe resa consapevole di quel particolare momento della sua vita. Le tornò alla mente la frase del poeta tedesco Friedrich Holderlin “ti amo, ma la cosa non ti riguarda”, trovando in quella la radice dell’amore perfetto, o meglio “del perfetto modo d’amare”. Si sentì in pace col mondo e con sé stessa.
Giunti al parco, tolse il collare ad Hamlet che subito era corso via per tornare subito indietro e saltarle gioioso intorno. Lei si chinò a stampargli un grosso bacio sulla testa e il cane la ricambio con amorevoli leccatine sulle mani. Rimasero seduti nell’erba a scambiarsi effusioni umane e canine fino a quando una palla rossa rotolò nella loro direzione, rincorsa da un altro cane lupo che quando vide Hamlet si fermò per sollecitarlo, con brevi latrati brevi acuti, a partecipare al gioco. Hamlet accettò l’invito e corse verso di lui. Era lo stesso cane col quale aveva giocato il pomeriggio precedente. Entrambi rincorrevano la palla rossa che il padrone dell’altro cane scoccava con una potenza di braccia degna di un lanciatore di baseball, che avanzava nella sua direzione, continuando a rilanciare la palla che i cani, a turno, riportavano indietro. Quando fu a pochi passi la salutò con la mano.
«Simon, dog sitter di Aretha.» Disse presentandosi ed indicando il compagno di giochi di Hamlet, uno splendido lupo dal mantello nero compatto.
«Ah, dunque è una lei.» Disse Angie Rose, carezzando il cane che docile le si era avvicinato.
«Decisamente!» Esclamò Simon, esibendo un collare fucsia. «E’ il suo colore preferito.»
La ragazza rise alla battuta ed espletò le presentazioni: «Angie Rose e Hamlet.»
«Posso?» Chiese Simon, sedendosi nell’erba accanto a lei, mentre Aretha ed Hamlet esploravano, con qualche prudenza, l’interno di un cespuglio. Ora le differenzae fra i due cani lupo risaltavano più evidenti, nel colore del pelo, nero compatto quello di Aretha, focato quello di Hamlet, ma anche nelle proporzioni: leggermente più piccola e slanciata lei, più massicccio e poderoso lui.
«E’ bellissima Ne accudisci altri?» Chiese Angie Rose.
«No. Solo lei. Aretha è il mio cane.»
«Scusa, devo aver frainteso, mi sembrava d’aver capito che fossi il suo dog sitter.»
«Mi qualifico come dog sitter perché detesto i termini “proprietario” e “padrone” riferiti ai nostri amici a quattro zampe. Posso definirmi il proprietario di una macchina, di una casa, di un qualsiasi oggetto, ma non di un altro essere vivente. Non di Aretha.»
Aretha, sentendosi chiamata in causa, era venuta ad accucciarsi vicino a lui, con il muso sulle sue gambe e lo guardava con occhi da innamorata.
«Hai ragione, ma non credo che chi ha un cane lo usi in quel senso. Io, almeno, non l’ho mai inteso così» Obiettò, perplessa.
Da sotto lo zuccotto nero, gli occhi verde bosco di Simon, sorrisero.
«Sono sicuro che tu non l’abbia mai inteso in quel modo, e forse nessuno di quelli che ha un cane, ma a me proprio non mi riesce di dirlo. Dog sitter mi sembra più appropriato, e poi è quello che nella realtà per loro siamo.»
Angie Rose assentì.
«Stabilito che io non faccio il dog sitter per professione ma solo per amore, tu, invece, cosa fai nella vita?»
«La cameriera ai tavoli, in un ristorante di Brooklyn.» Rispose laconica.
Con i ragazzi che le piacevano evitava di aggiungere al suo scarno curriculum vitae i suoi studi recitazione e la volontà di diventare un’attrice, perché nelle due storie sentimentali più importanti, al momento della rottura s’era rivelata un’arma a doppio taglio, entrambe le volte accusata “di essere stata una brava attrice”. Insomma, di aver recitato. Di aver finto.
«Scommetto che avrai buone mance. Di solito i clienti sono generosi con le cameriere carine.»
Lei rise: «E’ un complimento o sei un esattore del fisco in incognito?»
«Sei molto bella.» Rispose lui serio. «Potresti fare l’attrice o la fotomodella.»
«Ci vuole talento, ed io non ne ho.» Tagliò corto Angie Rose, togliendogli così la possibilità di una replica. Perché gli uomini negli approcci andavano sempre a parare in quel campo? «Ed ora devo proprio andare.» Radunò le sue poche cose sparse a terra e chiamò Hamlet.
Simon rilevò dal cambiamento di tono, che da cordiale s’era fatto brusco, che lei s’era messa sulla difensiva, ma chiederle scusa gli sembrava di avvallare un’intenzione con secondi fini che non aveva mai avuto. Si diede dello stupido a non aver avuto più tatto, perché chissà quante volte, rifletté, le era stato rivolto quell’apprezzamento con finalità più esplicite. Ma ormai il pasticcio era fatto e non gli rimaneva, nel salutarla, che darsi un contegno spontaneo per non incrementare dubbi sulle sue reali intenzioni. «Magari ci si rivede. Aretha e Hamlet, a quanto sembra sono diventati inseparabili. Dico bene, Hamlet?»
Al suo interrogativo il cane diede conferma con una serie di ululati che riscossero l’approvazione di Aretha.
«Certo, magari ci si rivede». Rispose lei in tono asciutto, accomiatandosi.
Angie Rose, prima di salire al suo appartamento, aveva chiesto ad Helen Bennet aggiornamenti sui Collins.
«Proprio stamane, Olimpia è tornata per prendere un cambio pulito per Bob. Andava di fretta, come puoi ben immaginare, ma a quanto pare lui ora sta meglio, respira autonomamente e a breve potrà tornare a casa.»
«Una gran bella notizia, signora Bennet.» Disse Angie Rose sollevata per lo stato di salute di Bob ma anche per il fatto che Olimpia non aveva fatto alcun cenno del furto subito: una conferma delle previsioni di Apache.
A casa, nella segreteria telefonica, trovò il messaggio di Christine Logan che l’informava che Andrew Saint Just non s’era ancora risvegliato, ma dalla tac, però, non era stata rilevata nessuna lesione cerebrale.
Richiamò Christine per avere più dettagli sulle condizioni cliniche di Andrew ma anche per discutere con lei dei dubbi sopravvenuti riguardo le testimonianze rilasciate alla polizia.
«Non è stato un incidente ma un’aggressione. Peter lo ha colpito alle spalle. Lo abbiamo visto tutti. Credo che le nostre dichiarazioni vadano riviste.»
«Io ci andrei cauta a rimettere in discussione l’accaduto. Ad insinuare sospetti. Avremmo tutti da perderci. Noi per primi se i motivi alla base della discussione tra Andrew e Peter fossero resi pubblici, con l’inevitabile coinvolgimento di Hayden. I giornali comincerebbero a parlare di bullismo e omofobia in una delle Accademie più prestigiose dello Stato, e magari si spingerebbe per la sua chiusura. »
«Quindi, secondo te, i metodi di Hayden sono etici? »
«No, sono odiosi, ma nessuno è costretto ad accettarli. A sottomettersi. Chi non tollera il suo sistema è libero di andarsene, come ha fatto Jason, ma senza per questo impedire agli altri di restare.»
«Dimentichi che tutto è nato proprio dalle offese omofobe di Hayden verso Jason. E se Andrew non si risvegliasse più? Continueremo a fingere che non sia successo niente?» Chiese, in tono duro, all’amica.
«Andrew si risveglierà! Ad ogni modo lascerei decidere a lui il da farsi.»
«E nel caso decidesse di denunciare, saresti dalla sua parte?» La incalzò, Angie Rose.
«Ti ho detto come la penso. La tua domanda è solo una provocazione.» Christine Logan riagganciò arrabbiata, senza darle il tempo di controbattere.
Angie Rose rimase male, non se lo sarebbe mai aspettato da Christine un atteggiamento simile, ma immaginò che non fosse la sola a pensarla in quel modo. Dal canto suo se Andrew, uscito dal coma, avesse deciso di denunciare, sarebbe stata al suo fianco. Non lo avrebbe lasciato solo.