Freddo. Questa era la prima sensazione che Sara ricordava, quella più intensa.

Il freddo della porta del treno su cui l’avevano fatta salire a forza.
Il piano del vagone era troppo alto, così uno sconosciuto l’aveva aiutata sollevandola di peso, e lei si era aggrappata al bordo della porta scorrevole per non cadere. Quella stessa porta che poi, prima che il treno partisse, avevano piombato.

Mille altri ricordi le affollavano la mente, ma si confondevano nell’orrore quotidiano, un orrore che lei, bambina, non capiva, ma che riusciva ad intuire negli occhi disperati delle sue compagne di prigionia, che tuttavia cercavano di farle coraggio quando la nostalgia per la madre da cui era stata separata la faceva singhiozzare o le riservavano qualche piccolo dono per farla sorridere.

«Perché» le aveva spiegato Rebecca, una giovane signora che aveva l’abitudine di passarsi la mano sul cranio rasato «sono i tuoi sorrisi che ci aiutano a vivere: il sorriso di una bambina è l’unica cosa che ci fa ricordare che un futuro esiste, può esistere».

Rebecca era scomparsa un giorno. Sara non aveva fatto domande, aveva imparato presto che non vanno fatte domande se non vuoi sapere le risposte, ma aveva tirato avanti in quel posto senza nome, dove le giornate erano tutte uguali e si aspettava semplicemente di morire.

Solo anni più tardi scoprì che Oświęcim era solo la cittadina vicina, che quel posto si chiamava Auschwitz, un nome che sarebbe diventato il simbolo della malvagità e della pazzia umana.

Le persone che avevano assistito alla commemorazione del giorno della memoria stavano apprestandosi a lasciare la sala. Il segretario dell’ANPI parlava con un politico locale, alcune persone facevano capannello intorno a loro. Dei ragazzi in fondo alla sala ridevano e scherzavano, guardati male dagli uomini più anziani.
Sara era rimasta seduta dietro al tavolo, nel posto da cui aveva raccontato ancora una volta la sua storia, suscitando qualche sorriso come ogni volta che ripeteva della sua paura nel vedere l’irruzione di un carro armato sovietico. Ma quelli erano stati i liberatori, e no, non lanciavano tavolette di cioccolato come si diceva avessero fatto gli americani in Italia, ma andava bene lo stesso, solo che non sembrava possibile che l’inferno avesse una fine.

«Dopo quello che ha passato non avrà avuto più paura di niente» gli aveva detto una volta un cronista del quotidiano.
«No» aveva risposto lei «ho avuto paura tante altre volte: tutte le volte che qualcuno parlava guerra, o di razzismo, o di immigrati: è così che è cominciata, anche se allora ero troppo piccola per capirlo».

Adesso Sara era solo un’anziana signora un po’ fragile, che si guardava intorno con l’aria un po’ spaurita di chi non riesce a seguire tutto quello che sta succedendo – i cellulari, i computer, internet – ma che era conscia di aver vissuto una vita piena, e quando pensava a Rebecca e a tante altre di essere stata anche fortunata. Aspettava con la pazienza dei vecchi che andassero via tutti e venissero a riaccompagnarla alla casa di riposo in cui viveva, quando una bambina le si fece vicina.

«Ciao» le disse.
“Ciao» rispose la bambina.
«Come ti chiami?».
«Sofia»
«Io mi chiamo Sara».
«Lo so, ti ho sentito parlare».

Sara pensò a quello che aveva detto poco prima: cosa poteva aver capito una bambina di oggi di quei ricordi vecchi di ottant’anni? Una bambina che non aveva mai conosciuto la fame e la paura di morire?

Vide la madre della bambina che si stava avvicinando.

«Volevi chiedermi qualcosa?» chiese.
«Sì» disse la bambina «volevo sapere cosa hai provato quando ti hanno portato via dalla tua mamma».
«Sofia!» la sgridò la madre, stringendole forte la mano, ma senza portarla via.

Sara la guardò per un lungo istante, cercando di ricordare.

«Freddo», disse infine.